Non esiste una parte buona della 194!

1. In questo periodo, dopo il fallimento del referendum abrogativo della legge sulla procreazione assistita, molti denunciano un attacco da parte dei cattolici al diritto di aborto sancito nel 1978.

Dalla parte opposta si risponde sostanzialmente con due affermazioni: a) non vi è alcuna intenzione di modificare la legge n. 194; b) l’applicazione della legge in questi anni è avvenuta contro lo spirito e la lettera della legge stessa; la disciplina dovrebbe, quindi, essere integralmente e correttamente applicata anche nelle parti in cui prevede misure che dissuadano le donne che intendono abortire e le aiutino a prendere la decisione opposta, quella cioè di portare a termine la gravidanza.

In realtà lo stato di attuazione della legge n. 194 corrisponde integralmente alla volontà del legislatore del 1978 così come espressa nel testo legislativo.

2. Prima dell’analisi giuridica, si possono avanzare due considerazioni generali di carattere logico. a) Se una legge è stata attuata in un certo modo per quasi trenta anni (1978 – 2005) è molto difficile dimostrare che ciò non sia stata la conseguenza di quanto voluto dal legislatore; si può, cioè, presumere (almeno in prima battuta) che l’attuazione concreta di qualsiasi provvedimento legislativo sia conforme al testo approvato e alla volontà del Parlamento: affermare il contrario comporta l’onere di dimostrare che l’attuazione che si ritiene difforme rispetto al dettato legislativo derivi da fattori diversi ed estranei che, ovviamente, occorre individuare.

L’operazione appare difficoltosa: ad esempio, quanto alle modalità di intervento dei consultori pubblici, si dovrebbe dimostrare che vi è stata la volontà non di una o due persone, ma di una grande quantità di gruppi di persone sparsi su tutto il territorio nazionale di agire contra legem: quindi una sorta di complotto contro la legge 194; si dovrebbe poi spiegare il motivo per cui le istituzioni pubbliche non hanno reagito in questi anni con gli strumenti a disposizione (sanzioni penali, sanzioni amministrative, chiusura dei consultori riottosi ad applicare la legge e così via …).

b) Non può sorprendere che le misure dissuasive e preventive non abbiano sortito, nel loro complesso, l’efficacia sperata se si tiene conto che la condotta che si voleva evitare – l’interruzione volontaria della gravidanza – veniva contestualmente resa lecita dalla legge. La prevenzione di determinate condotte da parte della legge è di solito accompagnata al loro divieto e alla repressione delle eventuali violazioni. I potenziali destinatari ricevono, cioè, un messaggio chiaro: questa condotta non è ammessa ed è punita; lo Stato (o gli enti preposti) fornisce strumenti per evitare la condotta vietata. Se invece la condotta che si vuole prevenire è dichiarata lecita (anzi: è riconosciuta come un diritto) l’opera delle autorità pubbliche di prevenzione e dissuasione sarà inevitabilmente indebolita: per quale motivo astenersi dall’esercizio di un diritto?

3. Ricordiamo brevemente quale sia l’iter previsto per giungere all’aborto volontario. Nei primi 90 giorni dall’inizio della gravidanza la donna che intende abortire può rivolgersi alternativamente ad un consultorio pubblico, ad una struttura socio-sanitaria o a un medico di fiducia e ivi sostiene un colloquio. Se il medico del consultorio o della struttura o di fiducia riscontra l’esistenza di condizioni che rendono urgente l’intervento rilascia un certificato alla donna che le permette di abortire e che costituisce titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento; nel caso contrario, se la donna chiede di abortire gli stessi medici le rilasciano un documento che attesta la gravidanza e l’avvenuto colloquio: dopo sette giorni la donna può presentarsi in una struttura sanitaria per sottoporsi all’intervento (articoli 4 e 5 della legge). Dopo i primi 90 giorni l’aborto può essere eseguito solo in caso di grave pericolo per la vita della donna derivanti dalla gravidanza o dal parto oppure quando processi patologici determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna: entrambi i casi devono essere accertati dal medico del servizio ostetrico ginecologico dell’ospedale dove deve praticarsi l’intervento. Nel caso sussista la possibilità di vita autonoma del feto, però, l’aborto può essere praticato solo in caso di pericolo di vita per la donna e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.

4. A leggere l’articolo 4 potrebbe sembrare che, nei primi 90 giorni, solo un “serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna” renda lecito l’aborto: ma così non è. Infatti non solo le ipotesi previste sono così ampie e variegate da poter escludere che possano incidere sulla “salute” della donna (condizioni economiche, sociali, familiari, circostanze del concepimento, previsioni di anomalie o malformazioni del concepito), ma soprattutto la legge si limita a pretendere: a) che la donna “accusi” tale circostanze (cioè affermi che esse esistono); b) richieda di procedere all’aborto; c) attenda sette giorni; d) si presenti all’ospedale per abortire. Il medico, nel documento che consegnerà alla donna, non certificherà l’esistenza di tali circostanze, ma si limiterà ad attestare lo stato di gravidanza e la richiesta di abortire. Si tratta di una piena applicazione del principio di autodeterminazione della donna: nessuno può impedire ad una donna maggiorenne non interdetta di non abortire se ella lo vuole, qualunque siano i motivi della sua richiesta. Come si vede l’articolo 4 è stato scritto per essere in buona parte disapplicato.

5. Veniamo, allora, all’opera di dissuasione dall’aborto che dovrebbero svolgere i consultori familiari: l’articolo 2 prevede che essi assistano la donna in stato di gravidanza, informandola sui diritti spettanti, attuando o proponendo interventi diretti di aiuto e contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurla all’interruzione della gravidanza; per questi compiti l’articolo 3 prevedeva uno stanziamento annuale di lire 50 miliardi. L’intervento del consultorio è richiamato anche dall’articolo 5: se la donna si rivolge al consultorio perché intende abortire, nel colloquio devono essere esaminate le possibili soluzioni dei problemi proposti e il consultorio deve offrire tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto. In che misura queste previsioni sono destinate ad essere efficaci? In misura minima: in primo luogo perché la donna che intende abortire non è obbligata a rivolgersi al consultorio, potendo, invece ottenere il documento che le permetterà l’intervento anche da una struttura socio-sanitaria o da un medico di sua fiducia; in secondo luogo perché il contenuto del colloquio tra donna e personale del consultorio è irrilevante ai fini del rilascio del documento che deve essere emesso al termine del colloquio. In definitiva: nell’ambito di una specifica procedura di interruzione volontaria della gravidanza l’intervento dissuasivo del consultorio è volutamente reso irrilevante e quindi tendenzialmente inefficace; restano poi i compiti generali (quelli dell’articolo 2) il cui mancato rispetto da parte del consultorio non è in nessun modo sanzionato.

6. Si potrà obbiettare che l’opera di dissuasione potrà essere compiuta dal medico cui si rivolge la donna: ma l’intervento del medico è irrilevante per gli stessi motivi; inoltre la legge è molto attenta a prevedere che la donna possa rivolgersi “ad un medico di sua fiducia”: quindi non un determinato professionista, ma a qualsiasi medico. Se, quindi, la donna si troverà di fronte ad un primo rifiuto avrà la possibilità di rivolgersi ad un numero indeterminato di altri professionisti.

7. Tornando ai consultori, un inciso: l’azione dei consultori diventa improvvisamente efficace quando si tratta di minorenni. Non solo, infatti, la legge (art. 2 ultimo comma) permette di somministrare alle ragazze minori “i mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile” (cioè i contraccettivi, tra i quali è compresa anche la cd. pillola del giorno dopo, con effetto abortivo), si intende all’insaputa dei genitori; ma il consultorio può intervenire per aiutare la minorenne ad abortire nei primi 90 giorni, anche in questo caso all’insaputa dei genitori, quando vi sono “seri motivi che impediscano o sconsiglino” la loro consultazione, trasmettendo direttamente la propria relazione al giudice tutelare.

8. Quanto al tema della collaborazione tra i consultori e le associazioni di volontariato, oggetto di una specifica polemica in questi giorni: l’art. 2 comma 2 della legge prevede che i consultori, sulla base di appositi regolamenti o convenzioni, possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato. Come si vede la norma permette tale collaborazione ma non obbliga i consultori ad farne ricorso: essi possono avvalersi ma anche non avvalersi della collaborazione. Nessun consultorio, quindi, potrà essere ritenuto inadempiente alla legge se non si avvale della collaborazione del volontariato: i responsabili hanno una piena discrezionalità su questo punto, potendo addirittura valutare come non idonee le formazioni sociali di base e le associazioni di volontariato …

9. Quale efficacia hanno i principi generali stabiliti dall’articolo 1 della legge? “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile”: si è già visto che il principio è attuato nel senso della massima diffusione possibile dei contraccettivi, anche ai minorenni. “(Lo Stato) riconosce il valore sociale della maternità”: la norma non ha nessuna attuazione concreta nel testo della legge. “(Lo Stato) tutela la vita umana dal suo inizio”: si tratta di previsione volutamente inefficace: in primo luogo perché generica quanto al momento in cui inizia la vita umana (così da non sottoporre alle procedure della legge l’uso dei medicinali di “contraccezione di emergenza”, che hanno l’effetto di uccidere il concepito impedendone l’annidamento nell’utero materno); in secondo luogo perché, trattandosi di norma dal contenuto programmatico presente in una legge ordinaria non ha alcuna efficacia vincolante e può quindi essere disapplicata da questa o da altre leggi. Ne consegue che la “tutela” (sic!) della vita umana nascente è quella disegnata dalle norme di diretta applicazione: e quindi – quanto meno nei primi 90 giorni di gravidanza – è rimessa esclusivamente alla volontà della madre (il principio di autodeterminazione viene, non a caso, sostenuto affermandosi che è la madre, nella sua libertà, a potere adottare la migliore tutela possibile del bambino). Vi era, fra l’altro, un ambito diverso in cui il legislatore del 1978 avrebbe potuto effettivamente tutelare la vita umana fin dal suo inizio: quello delle pratiche di diagnosi prenatale, i cui abusi sono ben noti e che conducono spesso a morte o a lesioni al feto; ma nessuna limitazione è dettata. Anzi, la legge presuppone, se non sollecita, l’utilizzo di tali pratiche alla ricerca di “anomalie o malformazioni del concepito”. “L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo di controllo delle nascite”: l’aborto, quindi, non dovrebbe essere usato come un contraccettivo. Il legislatore fornisce qui una definizione dell’aborto volontario palesemente priva di efficacia: il singolo aborto sarà o meno usato come mezzo di controllo delle nascite in conseguenza delle scelte della donna che liberamente vi si sottoporrà. Il legislatore, cioè, non può essere in grado di conoscere quale sarà il comportamento delle donne che, nel futuro, utilizzeranno le procedure previste: piuttosto avrebbe dovuto creare procedure che impedissero l’utilizzo dell’aborto come contraccettivo. Le procedure create, al contrario, permettono proprio un utilizzo in questo senso: nei primi novanta giorni di gravidanza, che sono quelli in cui l’aborto può essere utilizzato come alternativa ai contraccettivi o come rimedio al loro fallimento, come si è visto la decisione di interrompere la gravidanza è lasciata alla discrezionalità della donna (che, addirittura, potrebbe avanzare la richiesta in relazione a “circostanze in cui è avvenuto il concepimento”, riferimento generico che comprende, sì, una violenza sessuale subita, ma anche malfunzionamenti o dimenticanze concernenti l’uso di contraccettivi). Si è poi visto come la legge abbia voluto liberalizzare i cd. contraccettivi di emergenza, che spesso hanno effetto abortivo. Insomma: le donne sono libere di usare l’aborto come unico contraccettivo o come contraccettivo “di rincalzo” senza che nessun ostacolo venga loro frapposto, anche se dovranno, forse, sorbirsi la ramanzina del medico che (art. 14) deve fornire loro “le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite” (“la prossima volta stia più attenta …”).

10. Da parte di alcuno ci si lamenta che, in questi decenni, l’aborto sia stato usato con finalità eugenetiche contro la lettera e lo spirito della legge n. 194. Al contrario l’utilizzo dell’aborto per sopprimere embrioni malati o malformati è esplicitamente autorizzato dalla legge. Già nei primi novanta giorni una delle cause che legittimano la richiesta di interrompere la gravidanza è la “previsione di anomalie o malformazioni del concepito”: si noti la parola “previsione”, che non significa “accertamento”; basta, quindi, che la donna tema che il figlio sia malato o malformato per giustificare il ricorso all’aborto. Ma l’ispirazione eugenetica della legge si ricava ancora più esplicitamente dall’articolo 6, che regola l’interruzione della gravidanza nel periodo successivo: in caso di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro sarà possibile l’aborto nel caso sussista un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. In sostanza il medico non dovrà accertare se le malattie del feto siano o meno curabili, ma concentrarsi sulla salute psichica della donna (si ricordi che il concetto di salute è inteso come benessere psicofisico) e valutare se la consapevolezza di portare in grembo un figlio malato o anche di doverlo, poi, allevare possa incidere su di essa.

11. Limitandosi a queste considerazioni, le conclusioni paiono evidenti: il legislatore ha voluto che l’aborto nei primi tre mesi fosse assolutamente libero e che la donna intenzionata ad abortire non incontrasse nessun ostacolo riguardante i motivi della sua decisione e potesse anche evitare l’opera dissuasiva svolta da enti o soggetti pubblici o privati. Il legislatore si è, quindi, preoccupato affinché la procedura fosse rapida ed efficiente: il documento costituisce titolo per ottenere l’intervento in via d’urgenza (art. 8 ultimo comma) e l’intervento è gratuito (articolo 10); alla donna è garantito l’anonimato (art. 11 e articolo 21). In questa ottica di efficienza deve essere purtroppo vista la regolamentazione dell’obiezione di coscienza, senza dubbio doverosa da parte del legislatore, ma che presenta il “vantaggio” di togliere di mezzo gli obbiettori dalle procedure che devono, comunque, essere garantite.

12. Le parti della legge in cui si auspica che l’aborto sia limitato a determinate ipotesi o si stabiliscono aiuti e interventi a favore delle donne in difficoltà in conseguenza della gravidanza restano, quindi, meri auspici di un legislatore ipocrita che non credeva affatto ad essi e che ha reso tali parti inevitabilmente inefficaci. La tutela della vita umana nascente non può, quindi, che passare da una abrogazione o comunque da una modifica della legge n. 194 e non certo da una sua piena applicazione che, non solo vi è già stata e che non può che indirizzarsi verso un uso – se possibile – ancora più libero e diffuso dell’aborto. Non sbagliarono, quindi, i promotori del referendum abrogativo – quello massimale, non ammesso dalla Corte Costituzionale con motivazione assai discutibile; non sbagliarono i cittadini che, sia pure sconfitti, affermarono con decisione che la legge n. 194 era gravemente ingiusta. Dott. Giacomo Rocchi Magistrato del Tribunale di Firenze

Giuliano Ferrara lancia la moratoria contro la pena di aborto.

“Questo è un appello alle buone coscienze che gioiscono per la oratoria sulla pena di morte nel mondo, votata ieri all’Onu da 104 paesi. Rallegriamoci, e facciamo una moratoria per gli aborti. Infatti per ogni pena di morte comminata a un essere umano vivente ci sono mille, diecimila, centomila, milioni di aborti comminati a esseri umani viventi, concepiti nell’amore o nel piacere e poi destinati, in nome di una schizofrenica e grottesca ideologia della salute della Donna, che con la donna in carne e ossa e con la sua speranza di salute e di salvezza non ha niente a che vedere, alla mannaia dell’asportazione chirurgica o a quella del veleno farmacologico via pillola Ru486”.

Capezzone e le menzogne sull’aborto.

Come si sapeva da tempo, Marco Pannella non mangia solo i bambini, ma anche gli adulti.

Daniele Capezzone è l’ennesimo segretario del partito radicale fatto e disfatto da Pannella, l’uomo dei digiuni, dei diritti civili, della “non violenza”, dei bambini dell’Africa da salvare e di quelli italiani da uccidere…L’uomo che ritiene che siamo troppi sulla terra, e contemporaneamente promuove fecondazione artificiale e clonazione, eutanasia e aborto. L’uomo che ha creato Francesco Rutelli, ma anche molti onorevoli che oggi siedono nel centro-destra, da Della Vedova a Taradash, o che scrivono sui giornali di destra, come Massimo Teodori…

Perdendo Daniele Capezzone, Pannella perde un abile falsificatore, un giocatore da poker, un contafrottole mondiale, un abilissimo maneggiatore di parole senza contenuti…che aveva imparato alla perfezione, ad esempio, le menzogne radicali sull’aborto.

Capezzone, recentemente, ha sostenuto, e continuerà a farlo, vista la somiglianza esistente tra un suo discorso ed il successivo, che neppure la Chiesa ha riconosciuto per secoli la dignità dell’embrione: infatti “rifiutava il battesimo a qualcosa che non avesse sembianze pienamente umane”.

Menzogna palese, dal momento che l’acqua del battesimo, come ognun sa, va spruzzata sulla testa del neonato e non sulla pancia di una donna! Con la stessa levità Capezzone in più occasioni si serve di sondaggi fasulli per dare ragione alle proprie teorie, per convincere gli oppositori che sono in minoranza. Ha sempre cifre aggiornate e precisissime su tutto. Così racconta che l’introduzione della 194 ha fatto calare gli aborti legali del 44% e quelli clandestini del 79%. Vuole cioè farci credere che si conosca il numero preciso degli aborti clandestini, sia precedenti al 1978 che attuali, come se non fossero, appunto, clandestini!

E’ una vecchia tattica, che dura da 30 anni. Infatti data almeno dal 1971. In quell’anno il Psi presentò al Senato una proposta per l’introduzione dell’aborto legale, libero, e gratuito, affermando che vi erano in Italia tra i 2 e i 3 milioni di aborti annui, e che circa 20.000 donne all’anno morivano a causa di questi interventi. Nel successivo progetto di legge, sempre socialista, presentato alla Camera il 15/10/’71, il numero degli aborti annui rimaneva stabile, mentre quello delle donne morte per pratiche abortive clandestine saliva, chissà come, a 25.000. Tali cifre venivano riprese come attendibili da tantissimi giornali (“Corriere della sera” del 10/9/’76: da 1,5 a 3 milioni di aborti clandestini l’anno; “Il Giorno” del 7/9/’72: da 3 a 4 milioni l’anno…).

Anche sotto la pressione di questi presunti dati nacque la 194, che legalizzò l’aborto. Se le cifre suddette fossero state vere, una volta divenuto lecito e gratuito, l’aborto si sarebbe dovuto diffondere ancor più. Invece nel 1979 quelli legali furono ufficialmente, né 1, né 4 milioni, ma 187.752! Quanto poi alle donne morte per pratiche clandestine basterebbe consultare, per esempio, il Compendio Statistico Italiano del 1974: vi si legge che in Italia, nell’intero anno, sono morte 9.914 donne tra il 14 e i 44 anni, e cioè in età feconda. Fossero decedute anche tutte per aborto clandestino, cosa assolutamente assurda, non sarebbero comunque né 20.000 né 25.000! Oggi sappiamo che buona parte della campagna pro choice, in Italia come in USA, si basò su menzogne premeditate.

Lo raccontano personaggi insospettabili, come Norma Mc Corvey, detta Roe, cui si deve appunto la legalizzazione dell’aborto in America. Il suo caso pietoso di donna povera, tra riformatorio e lavori precari, amanti ed Lsd, venne usato dagli abortisti con estrema spregiudicatezza per convincere l’opinione pubblica. Si puntò sul sentimentalismo, sulla sua storia personale, arricchendola di colorite invenzioni, come il fatto che fosse stata vittima nientemeno che di uno stupro di gruppo. Lo stesso uso dei casi estremi e pietosi fu fatto, in Italia, con le donne di Seveso, e viene riattualizzato oggi con Luca Coscioni. Tali strategie sono state svelate anche dal celebre Bernard Nathanson, fondatore a New York della “Lega d’azione per il diritto all’aborto”, nel 1968, e direttore, all’epoca, della più grande clinica per aborti del mondo, il Crash. Costui, dopo aver effettuato, tramite i suoi medici, ben 75.000 aborti, di cui 15.000 di sua mano, ha riveduto le sue posizioni, ed ha tra l’altro affermato che una delle menzogne per convincere l’opinione pubblica era l’impiego di “sondaggi fittizi” e la falsificazione dei dati sugli aborti clandestini e le donne morte a causa di essi. “Purtroppo l’informazione inesatta e tendenziosa rimane per gli abortisti il metodo migliore di propaganda” (B. Nathanson, “Aborting America”, 1980).

Sempre Nathanson ricorda altre strategie utilizzate all’epoca da lui stesso e dai compagni di strada: sviare il discorso dal campo scientifico a quello ideologico, accusando la Chiesa di posizioni preconcette e moralistiche; spiegare che i cattolici debbono distinguere tra questioni puramente e solamente religiose e leggi dello Stato; affermare che tutti i mezzi di informazione sono schierati con la Chiesa, “arrogante e prepotente”… Le stessa “litanie” che ognuno può ancor oggi sentire, trent’anni dopo, ascoltando Radio Radicale.

Chi vuole ridurci di 4 miliardi.

Dal sito dei radicali, www.rientrodolce.it, che si batte per ridurre la popolazione a due miliardi, secondo un vecchio sogno dei neodarwiniani. Lettera di una radicale e risposta di Galimberti, quel Solone, triste e melenso, che è appena stato al festival dell’economia. Cari amici,
nel numero di “D – La Repubblica delle donne” di sabato 2 giugno, è stata pubblicata una mia lettera indirizzata al Prof. Umberto Galimberti, dove ho espresso alcune considerazioni sull’eccesso di buonismo e cieco ottimismo che circonda l’evento”nascita” nell’opinione pubblica e nei messaggi trasmessi dai mezzi d’informazione.
Interessante, benché io non la condivida del tutto, la risposta di Galimberti, che inizia proprio con il riconoscimento del problema della sovrappopolazione come il più grave tra quelli che affliggono il pianeta, più ancora delle iniquità nella distribuzione della ricchezza.
Riporto di seguito il testo integrale della lettera e della risposta:
Da tempo siamo abituati a sentir parlare di “diritto alla vita” in relazione ai problemi etici, di natura prevalentemente religiosa, sollevati da aborto ed eutanasia. L’impedimento di una nascita o l’anticipazione della morte naturale appaiono, a chi si proclama difensore della “vita”, come ingiustificabili atti di arroganza umana, espressione di un egoismo dilagante (i giovani non fanno figli perché non vogliono rinunciare al tempo libero, alle vacanze, ecc.) o del prevalere dell’interesse economico (stacchiamo la macchina che costa troppo) sul valore dell’esistenza. Questa mentalità è così radicata nella nostra cultura che perfino i sostenitori della “dolce morte” e del diritto all’aborto affrontano questi temi con estrema prudenza, quasi dovessero giustificarsi, sempre timorosi di dire troppo, di andare oltre il consentito.
Al contrario, nessun problema sembra porre la nascita di un nuovo individuo, accolta sempre e comunque come un “lieto evento”. Non molto tempo fa il Tg2 ha dedicato un servizio ad un’allegra famigliola di poveracci che, pur vivendo al limite della sopravvivenza, sfornano figli a ripetizione (sono arrivati all’undicesimo, se non ricordo male). Ora – ohibò! – si sono accorti che non ci stanno dentro con le spese e chiedono alle agenzie pubblicitarie di reclutarli per uno spot “come la mamma dei sei gemelli che tutti ricordano”. Questi due incoscienti, padre e madre intendo, non sembravano minimamente porsi il problema della contraccezione e così pure l’autore del servizio, troppo impegnato a far apparire “divertente” una situazione che non lo era affatto. Mi è tornato in mente quell’episodio del geniale Il senso della vita dei Monty Python, dove un padre cattolico torna a casa e comunica allegramente ai suoi innumerevoli figli di aver perso il lavoro e di doverli vendere tutti per esperimenti scientifici, concludendo il discorso con una soave canzoncina sulla sacralità dello sperma. Ecco, io forse esagero perché, se dovessi mai decidere di mettere al mondo un figlio, già l’idea di esporlo alla inevitabile triade vecchiaia-malattia-morte mi farebbe sorgere qualche scrupolo. Ma, al di là di complicate questioni esistenziali sulla desiderabilità della vita in sè, resta il fatto che attorno all’evento-nascita è stata costruita una tale impalcatura di ipocrisia, buonismo e irrazionalità da portare al moltiplicarsi di situazioni di sofferenza altrimenti evitabili. Si pensi soltanto alle pressioni che questa cultura della “culla” esercita su una donna che non desideri realmente avere figli. Le conseguenze di una maternità conflittuale, scelta soltanto per compiacere mammà e fare invidia all’amica, posso portare dritto in cronaca nera. O a quei genitori che, pur sapendo che il loro bambino nascerà gravemente menomato, decidono di non interrompere la gravidanza, condannandolo ad una vita di dolore ed emarginazione. O alla sessantenne annoiata che vuole “vivere l’esperienza della maternità” e se ne infischia di mettere al mondo un orfano.
A questo aggiungerei la considerazione che, in un mondo sovrappopolato come il nostro, le energie impiegate nell’allevamento di nuovi nati potrebbero essere indirizzate verso chi già vive e soffre, e necessita di tutto. Questo sarebbe davvero un “donare la vita”.
Ciò che voglio dire è che sarebbe ora che la gente capisse che mettere al mondo un figlio non è solo un diritto, ma è un atto gravido di conseguenze per il nascituro e per chi gli sta attorno. E sarebbe anche ora di “riabilitare” tutti coloro che di figli non ne vogliono, perché dietro alla scelta di non procreare vi è spesso una consapevolezza e un amore per il genere umano che i paladini del “diritto alla vita” nemmeno si immaginano.
Gradirei molto conoscere la sua opinione sull’argomento.
Un cordiale saluto,
Sara Gelli, Ferrara
Risposta di Umberto Galimberti:
Sono persuaso che il sovrappopolamento della terra è il male peggiore che affligge il nostro pianeta, peggiore anche della pessima distribuzione della ricchezza che esiste sulla Terra. A generare sono in maggioranza i poveri, che, non avendo nei loro paesi diseredati alcuna previdenza o assistenza sociale, suppliscono a queste mancanze sperando nei figli: qualcuno morirà, qualcuno emigrerà, qualcuno provvederà.
Se invece restringiamo il campo a noi occidentali, dobbiamo dire che i figli non sono figli della ragione ma del desiderio, quando non addirittura di una pulsione che, negata, getterebbe alcune donne e forse anche qualche uomo nella depressione e nell’irreperibilità di un senso nella propria vita. E siccome la nascita di un figlio, anche quando è programmata, è sempre irrazionale, perché, guardata dal punto di vista dell’economia di chi genera, la nascita di un figlio comporta sempre un sacrificio del corpo, del tempo, dello spazio, del sonno, delle relazioni, del lavoro, della carriera, degli affetti e anche degli amori “altri” dall’amore per il figlio, se si genera è perché la ragione, grazie a Dio, non governa per intero la nostra vita.
Per quanto infine riguarda i “movimenti per la vita” e in generale i loro più strenui e fanatici difensori, è chiaro che essi pensano la vita solo in termini “biologici”, come pura animazione della materia e come necessità di protrarla finché l’ultima fibra del corpo resiste. Questo “bieco materialismo”, come diceva Marx a proposito dei “materialismi scientifici”, confligge col concetto di “persona”, tanto sbandierato dalla loro cultura. In realtà della persona non gliene importa niente, mentre molto gli importa della loro cultura, che conferisce loro identità, appartenenza. E, non di rado, anche potere.

La Ru 486 e il Trentino.

Riportiamo una lettera comparsa sul Trentino.
Leggiamo continuamente notizie riguardanti l’uso della pillola RU486 e l’operato del prof. Arisi in materia di aborti farmacologici all’Ospedale S. Chiara. Questa volta si tratta di ben 178 aborti nel primo anno di sperimentazione clinica della pillola.
Per di più, per l’ennesima volta, viene affermato che questo metodo farmacologico non presenta significative controindicazioni. Il primario di ostetricia e ginecologia prof. Arisi afferma infatti: “Abolita l’anestesia e la sala operatoria, le prospettive di salute della donna che pratica l’aborto farmacologico possono essere solo positive”. Su quali basi Arisi dichiara che le prospettive possono essere solo positive? Solo sulle sue sperimentazioni? O su una letteratura scientifica ormai ampia e ben documentabile? E se vi è tale letteratura, quali ne sono i documenti?
Inoltre, ci lascia alquanto perplessi la presenza di un questionario in fase sperimentale, in cui si evidenzia il fatto che le donne consiglierebbero ad un’amica la procedura farmacologia.
La realtà sulla RU486 è però ben più complessa di quanto si voglia far credere. Citiamo, per l’ennesima volta, in brevità alcuni dati scientifici su questo delicatissimo tema. Un recente studio condotto da Centers for Disease Control and Prevention, ad Atlanta negli USA, descrive i casi di 4 morti dovuti ad endometriosi e sindrome da shock tossico associato al batterio Clostridium sordellii, casi verificati nella settimana successiva all’aborto chimico. Inoltre aggiunge alcuni effetti collaterali, come tachicardia, ipotensione, edema, vischiosità del sangue, profonda leucocitosi (M. Fischer, J. Bhatnagar, J. Guarner, et al., in “New England Journal of Medicine”, Dec. 2005).
Ma soffermiamoci sull’effetto letale. Nel settembre 2003 in California muore Holly Patterson, una giovane diciottenne, a causa di shock anafilattico. Il 19 luglio 2005 la Food and Drug Administration (FDA), l’ente di controllo sui farmaci degli USA, ha reso di dominio pubblico “quattro casi di morti settiche negli Stati Uniti, in particolare in California, fra settembre 2003 e giugno 2005, a seguito di aborto medico con RU486”, i quali si vanno ad aggiungere ad un caso analogo accertato nel 2001 in Canada.
Il 17 marzo 2006 (solo un anno fa!) la FDA ha reso noto che altre due donne statunitensi sono morte dopo aver assunto la pillola RU486 (cfr.: www.fda.gov/cder/drug/infopage/mifepristone/default.htm). Inoltre, si noti che le morti di queste donne nordamericane sono venute alla luce perché i parenti hanno chiesto delle autopsie sui cadaveri per capire le ragioni del decesso improvviso. Perciò, è legittimo supporre che le morti da RU486 potrebbero essere molto più numerose, anche al di fuori dagli USA. Infine, il prof. Greene, direttore di ostetricia al Massachusetts General Hospital di Boston, in un editoriale pubblicato sulla rivista “New England Journal of Medicine” (1 Dec. 2005), una delle più prestigiose a livello mondiale, dimostra che a parità di età gestazionale, la mortalità della donna per aborto con RU486 è 10 volte maggiore rispetto a quella con tecnica chirurgica.
? la stessa Danco, industria produttrice della pillola, a pubblicare nel suo sito, per obbligo legale, oltre 600 casi di donne che lamentano fortemente gli effetti collaterali della pillola.
Inoltre, mentre il 92% delle donne che si sono sottoposte all’aborto chirurgico sceglierebbe di nuovo questa tecnica in futuro, solo il 63% delle donne che si sono sottoposte all’aborto chimico sceglierebbe ancora questa metodica, segno che l’aborto chimico “non possiede in sé quei caratteri di indubitabile maggiore tollerabilità psicologica” (M. D. Creinin, in Contraception, Sept. 2000).
Dunque, su quali basi si può affermare di poter consigliare ad una donna la pillola RU486? Forse su basi scientifiche, oggettive, che possano andare bene per tutte le donne? O forse unicamente su basi soggettive, istintive, emotive, e quindi non univoche per tutte?
Soffermandosi sul fallimento del metodo e gli effetti collaterali riscontrati nell’uso della pillola, il prof. Arisi afferma poi: “…solo l’esperienza ci potrà dare più approfondite indicazioni”. Quanta poca considerazione delle donne nasconde tale dichiarazione! Quante donne si dovranno ancora “usare” prima di poter dichiarare finita la sperimentazione e dirsi sicuri della non pericolosità della RU486?
Sconcertante, d’altra parte, il dato che solo il 67% delle donne che hanno utilizzato la RU486 sia stato mandato dai consultori familiari, mentre un certo numero è passato per il medico di fiducia e per il pronto soccorso!
Che semplicistico, infine, leggere l’uso della locuzione “materiale abortivo”! Trattare vite umane innocenti e indifese, quali appunto i bambini in grembo (vedi ecografia), come materiale abortivo esprime la più grande intolleranza nei confronti del prossimo, senza specificare che anziché scomparire nel nulla, finisce nel water!
Il Movimento per la Vita vigila e vigilerà attentamente l’andamento delle pratiche abortiste che vengono utilizzate e promuoverà le opportune azioni in sede civile e penale per le eventuali violazioni delle leggi attuali in materia di sanità ed aiuto alla maternità.
Sandro Bordignon, presidente Movimento per la Vita-Trento
e-mail: sandrobordi@interfree.it
Mauro Sarra, componente direttivo MpV-Trento

Riguardo alla ru 486

Riporto questa lettera scritta a L’Adige da don Matteo Graziola: “Della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello”. Sono parole scritte nelle prime pagine della Bibbia, pronunciate dal Creatore del mondo, prima della Legge mosaica: stabiliscono una legge universale, basilare per qualsiasi popolo, cultura, società, età storica. Sono parole che dovrebbero trovare una eco immediata in ciascuno di noi e che hanno dettato quel senso della giustizia che nel corso della storia ha mosso tutti coloro che hanno cercato di realizzare società più giuste e libere. Queste parole hanno segnato la coscienza di un popolo che è vissuto in queste valli per secoli.
Che ne è ora di questo popolo? Che ne è della sua coscienza? Quando alcuni politici riescono a far compiere ad una intera comunità la trasformazione di un delitto in un diritto, e quando altri politici o cittadini lo permettono per non compromettere il loro potere o il loro posto o la loro tranquillità di vita, e quando alcuni medici trasformano la loro professione da soccorso alla vita a soppressione della persona più indifesa, e quando centinaia di donne credono di essere aiutate così ad affrontare la loro maternità distruggendola ‘volontariamente’… Può un popolo assistere a questo sopruso senza sentire alcunché nella sua coscienza personale e collettiva? Possiamo restare indifferenti di fronte a questo genocidio silenzioso che avviene a casa nostra? Possiamo davvero essere giustificati affermando che non sono cose di nostra competenza?
Non si creda che sia un problema secondario o una necessità storica cui rassegnarsi per realismo socio-politico. L’intelligenza e la coscienza di un popolo si rivelano soprattutto quando smascherano il pericolo e il male la dove si nascondano in forme non appariscenti o nell’ipocrisia di falsi proclami di democrazia e libertà. In gioco è in realtà il valore e la vita della persona umana in quanto tale, chiunque essa sia e qualunque sia la sua condizione sociale, economica, biologica.
Se c’è ancora un popolo trentino, erede di una grande tradizione solidaristica e ideale, se c’è ancora una qualche coscienza di ciò che è bene e di ciò che è male, se almeno il fondamento di ogni civiltà -e cioè la difesa del più debole- è ancora riconosciuto tra noi, io spero che questo popolo dica basta e ponga subito fine a questo orrore. Prima che sia troppo tardi per tutti, perché questi fatti sono i più gravi in assoluto agli occhi di chi ci chiederà conto di quello che abbiamo fatto “al più piccolo” dei suoi fratelli.