Caro Bocchetta, quando Hamas, nelle elezioni palestinesi del gennaio 2006, sconfisse Fatah e conquistò 74 seggi sui 132 di cui si compone il Consiglio legislativo, gli osservatori internazionali dovettero constatare che il voto non era il risultato di frodi e manipolazioni. Ma i membri del “quartetto” (Onu, Russia, Stati Uniti e Unione Europea) sospesero i loro aiuti all’Autorità palestinese e dichiararono che avrebbero ricominciato a elargirli soltanto se Hamas avesse riconosciuto lo Stato d’Israele e rinunciato all’uso della violenza. Da allora l’Ue ha continuato ad assicurare una certa assistenza, ma soltanto per le popolazioni attraverso uno speciale “meccanismo” chiamato “Temporary International Mechanism”. Questa decisione ha avuto l’effetto di ridurre di due terzi il bilancio dell’Autorità, ha trasformato 160.000 pubblici dipendenti (fra cui molti membri dei servizi di sicurezza) in altrettanti precari, e ha reso estremamente difficile la gestione di scuole e ospedali. Israele, dal canto suo, ha smesso di trasferire all’Autorità il gettito dei dazi doganali sulle importazioni palestinesi. Alcuni Paesi musulmani (tra gli altri l’Iran e l’Arabia Saudita) hanno cercato di fornire un’assistenza finanziaria, ma il denaro è stato spesso bloccato perché “potrebbe alimentare i circuiti del terrorismo”. Queste sanzioni hanno avuto conseguenze devastanti per il livello di vita delle popolazioni. Secondo un portavoce dell’Oxfam (l’Oxford Committee for Famine and Relief, creato nel 1942), più di un milione di palestinesi vive oggi con 50 centesimi di dollaro al giorno. Esiste poi un fattore demografico descritto da uno studioso tedesco dell’Università di Brema, Gunnar Heinsohn, in un articolo apparso nel Financial Times del 14 giugno. Grazie al tasso di accrescimento della popolazione araba, Gaza è passata dai 240.000 abitanti del 1950 a un milione e mezzo. Mentre nel 2005 i ragazzi israeliani al di sotto dei 15 anni erano 640.000, i ragazzi arabi nella stessa fascia d’età erano un milione e centomila. Con un confronto molto suggestivo Heinsohn osserva che la popolazione degli Stati Uniti, se il tasso di accrescimento demografico fosse stato simile a quello di Gaza, conterebbe oggi 945 milioni di abitanti e 120 milioni di giovani nella fascia d’età ? fra 15 e i 29 anni ? in cui gli spiriti bellicosi si manifestano con maggiore frequenza. Riuscirebbe a controllarli? A queste considerazioni economiche e demografiche occorre aggiungere un fattore politico. Hamas e Fatah, (l’organizzazione creata da Arafat e guidata ora dal presidente palestinese Mahmud Abbas, noto anche con il nome di Abu Mazen) sono da sempre partiti nemici. Il boicottaggio decretato dal Quartetto e da Israele ha incoraggiato Abbas a impegnare con Hamas un braccio di ferro. Sperava che gli islamisti, messi alle strette, gli avrebbero ceduto il controllo delle forze di sicurezza e non comprese che stava divenendo in tal modo, agli occhi di molti palestinesi, complice di Israele e dei suoi alleati in Occidente. Un Paese alla fame, soldati e poliziotti armati ma privi di qualsiasi sicurezza economica e una folla di giovani senza futuro, pronti ad abbracciare le armi della disperazione: ecco, caro Bocchetta, gli ingredienti della guerra civile palestinese. Non dovrebbero esserne sorpresi i governi che, con le loro miopi sanzioni economiche, hanno soffiato sul fuoco. Corriere della sera, 17/6/2007
Categoria: Storia
Joachim Haspinger: un cappuccino contro Napoleone.
Bene hanno fatto Irene Bertoglio e Giovanni Lissandrini a richiamare l’attenzione, proprio dalle pagine di questo sito, intorno alla necessità di recuperare, finchè siamo ancora in tempo, la nostra memoria storica, le nostre tradizioni, in una parola, la nostra cultura: qual comune sentire che ci lega indissolubilmente a chi ci ha preceduto e che può darci ancora forza, fiducia e indicazioni per il futuro. Il problema italiano, ma più in generale, occidentale, è che della storia, delle radici autentiche dei popoli europei, abbiamo una visione ed una conoscenza ormai filtrate da oltre due secoli di ingerenze massonico-illuministe e, a partire specialmente dal secondo dopoguerra, da decenni di storiografia di ispirazione marxista-progressista. In tale contesto, le vicende storiche cessano di essere analizzate obiettivamente, circostanziate nel loro tempo, ma vengono sezionate in un’ottica ideologica che porta ad estrapolare le vicende dal loro reale contesto e tende a dividere i protagonisti in buoni e cattivi, secondo schemi preconcetti e artificiosi, senza possibilità di redenzione per questi ultimi. I testi scolastici sono inzuppati di luoghi comuni sull’Inquisizione, la scoperta dell’America, Galileo, tanto per ricordare i casi più noti in cui l’intellighentia illuminista-progressista ha martellato, e martella, generazioni di studenti.
Altri fatti o personaggi, non in linea con il pensiero dominante sono addirittura ignorati. Dopo aver presentato la figura di Marco d’Aviano (vedi: "Marco d’Aviano – Il medico spirituale dell’Europa”. In: Storia. Ndr.), prendo in considerazione un altro religioso oggi quasi del tutto dimenticato, una figura di frate senza ombra di dubbio poco, o nulla, allineata ai canoni dell’ortodossia massmediatica odierna: padre Joachim Haspinger. Padre Joachim, collaboratore e compagno d’arme di Andreas Hofer, fu uno dei leader indiscussi della resistenza tirolese contro le truppe napoleoniche; gli eventi che lo vedono protagonista, sono intrecciate indirettamente a quelle di migliaia di persone, uomini e donne di ogni parte d’Italia e d’Europa, e che per la storiografia “di massa” quasi non sono mai esistite, così come il “movimento” che lì unì in un’epica lotta impari: parlo delle insorgenze, naturalmente, che nei testi scolastici sono spesso appena accennate, bollate talvolta come eventi di resistenza armata isolata, marginale, attuata da sparuti gruppi di contadini ignoranti, guidati, anzi soggiogati da preti fanatici che si opponevano al progresso, all’uguaglianza sociale e alla libertà portate dalle baionette delle armate napoleoniche e dai loro alleati. Joachim Haspinger nasce in Val Pusteria il 27 ottobre 1776, viene battezzato con il nome di Johann Simon; figlio di contadini, ha comunque la possibilità di frequentare il ginnasio a Bolzano. Spirito battagliero, profondamente legato alla propria terra ed ai valori che questa incarna, tra cui una profondissima religiosità, già a 19 anni lo incontriamo arruolato una compagnia di Schützen, dove si fa notare per il suo coraggio, tanto da meritarsi una medaglia al valore. Dal 1799 al 1802 studia filosofia presso l’università di Innsbruck e nello stesso anno entra nell’Ordine dei Cappuccini: il 1 settembre 1805 diventa per il mondo padre Joachim.
Predicatore ispirato, ben presto viene chiamato in vari angoli della sua terra a predicare il Vangelo; le sue prediche, narrano le cronache del tempo, sanno toccare le corde della sensibilità e dell’anima della sua gente. Sarà questa un’esperienza fondamentale per le future prove che egli dovrà sostenere pochi anni dopo. Sono anni terribili in Europa: il millenario Sacro Romano Impero è stato sciolto, liquefatto; a seguito della battaglia di Austerliz, la “Provincia del Tirolo”, comprendente il territorio fra l’Inn e le Alpi, l’attuale Alto Adige e il Trentino, viene assegnata in base al trattato di Pressburg (26 novembre 1805), l’attuale Bratislava, al Re Massimiliano di Baviera, alleato di Napoleone. La Baviera era allora retta politicamente dalla cosiddetta “Setta degli Illuminati”, i cui membri erano, in larga maggioranza, animati da forte spirito anticattolico. I primi atti politici compiuti dal governo degli Illuminati bavaresi provocarono la scintilla per la rivolta. Con un decreto del 1806 si stabilì che la Chiesa venisse sottoposta al controllo statale, i Vescovi non potevano più nominare nuovi sacerdoti e sarebbe spettato al governo anche la nomina dei nuovi parroci. Nel 1809, il marchese di Montgelas, ministro del re di Baviera, con un atto di imperio e senza motivo apparente, se non seguendo coerentemente il suo pensiero giacobino, soppresse di colpo tutte le cerimonie del culto cattolico: proibì processioni, matrimoni e funerali religiosi, e addirittura il suono delle campane. Il cattolicissimo popolo tirolese inoltrò al re di Baviera le proprie rimostranze, affinché fosse ritirato il "decreto empio e liberticida", come venne definito. La richiesta fu respinta e la reazione, quasi immediata, fu la rivolta di un popolo, l’insurrezione in massa. Secondo molti storiografi, soprattutto di matrice progressista, le cause principali della rivolta tirolese sono da attribuirsi all’introduzione della leva obbligatoria e all’aumento delle tasse imposto dai nuovi governanti: certamente questi fatti contribuirono non poco a far accrescere il malcontento specialmente delle classi contadine e piccolo borghesi, ma quasi mai si prende in considerazione l’aspetto religioso, l’anima spirituale e culturale di questo popolo che prese le armi per difendere la sua cultura, il suo modo di vivere, di educare i figli e di morire, in un’assonanza immediata che ci porta con il pensiero alle analoghe vicende della Vandea.
Il 1809 fu un anno terribile per l’Europa e per i cattolici in particolare: Papa Pio VII, dopo aver lanciato contro Napoleone la scomunica, venne arrestato dai francesi e, da Roma, tradotto in esilio. Il Tirolo nel frattempo si infiamma: all’appello di Andreas Hofer accorrono migliaia di volontari, di lingua tedesca, ma anche italiana, trentini che Hofer definì i “dilettissimi Tirolesi Italiani “. Furono numerosissimi anche i sacerdoti a prendere le armi e a rispondere al richiamo della “Heimat”: fu soprattutto una battaglia religiosa, tutti, infatti, si rendevano conto che le disposizioni emanate, se fossero state applicate, avrebbero annientato un popolo intero, lo avrebbero sradicato completamente ed ineluttabilmente dal suo passato, gli avrebbero sottratto quell’humus fertile di storia e storie, di patrimonio religioso e culturale condiviso, che solo cementa l’anima di una Nazione. Inoltre, su precisa disposizione di Hofer, dopo ogni scontro, ogni vittoria, si doveva celebrare una Messa o una processione in onore del Sacro Cuore di Gesù. Padre Haspinger, novello Marco d’Aviano, guidò in prima persona le truppe contadine in diversi scontri, sempre brandendo il crocifisso, tenendolo sempre in alto in modo che tutti i combattenti, amici, ma anche nemici, potessero vederlo. Certo questo suo modo di porsi può risultare indigesto a qualche sacerdote moderno, e a molti cattolici “adulti”, fautori del dialogo sempre e comunque, a qualunque costo, anche scendendo troppo spesso a compromessi intorno ai fondamenti della nostra fede. Padre Haspinger e i sacerdoti tirolesi fecero quadrato intorno al Papa, intorno ai valori naturalmente cristiani dei loro conterranei. Addirittura, padre Haspinger, oltre che cappellano militare, divenne comandante di una compagnia di Schützen, partecipò direttamente a vari scontri e a lui fu riconosciuto il merito principale della vittoria delle truppe popolari tirolesi contro i franco-bavaresi al Berg Isel, presso Innsbruck, il 13 agosto 1809. La strenua difesa dei trentino-tirolesi fu definitivamente stroncata nel 1810.
Andreas Hofer, catturato, fu portato in catene a Mantova e fucilato per ordine dello stesso Napoleone il 20 febbraio 1810. Un aspetto che varrebbe la pena approfondire, riguarda i cittadini mantovani, i quali raccolsero in pochi giorni 5000 scudi per la liberazione di Hofer: lo riconobbero come eroe delle lotte di liberazione antifrancesi e questo sfata alcuni luoghi comuni, ben orchestrati politicamente, sul fatto che la rivolta tirolese fu essenzialmente fenomeno locale e circoscritto alle popolazioni tedescofone dell’odierno Tirolo con risvolti nazionalistici pangermanici. Ma torniamo a padre Haspinger: dopo un’avventurosa fuga attraverso l’Italia settentrionale e la Svizzera, riuscì a raggiungere Vienna, dove fu ricevuto dall’Imperatore Francesco I il 2 e il 4 novembre 1810. Rimase due mesi nel Convento dei Cappuccini a Vienna. Nel 1812 gli fu ancora commissionata una missione segreta per valutare l’ipotesi di organizzare una nuova insurrezione in Tirolo, ma non ne sortì nulla. Quindi continuò la sua opera di religioso, di curatore d’anime fino al 1836 in varie zone della Bassa Austria poi fino al 1854 in altre diocesi austriache. In quell’anno l’Imperatore Francesco Giuseppe gli assegna un appartamento d’onore nel Castello di Mirabell a Salisburgo, dove morirà il 12 gennaio 1858 assistito dall’Arcivescovo della città. Il 16 marzo la salma di padre Haspinger fu traslata nella Hofkirche di Innsbruck e deposta accanto a quelle di Andreas Hofer e Josef Speckbacher. Certamente la figura di padre Haspinger va legata al momento in cui la storia lo pone al centro della scena in questo angolo di mondo; irruente, focoso, sovente impetuoso nelle sue prediche e oltremodo energico nel suo operare, ma non poteva essere diversamente in quell’epoca di violenza, materiale ed ideologica. La sua lotta deve essere vista come il tentativo dal basso, dal popolo, quello vero, fatto di persone, di comunità, non di soli “cittadini”, di difendere lo scorrere “naturale” della vita, fuori dagli schemi ideologici intellettualistici che con la forza delle armi i giacobini francesi, con i loro complici in tutta Europa, volevano imporre. E quando passiamo per qualche paese del Trentino o del Tirolo, magari la domenica, e sentiamo il suono cosi familiare delle campane a distesa, in un paesaggio unico al mondo, pensiamo a padre Haspinger e alla sua lotta per difendere, oltre alla sua patria, quel suono da chi, come il marchese di Montgelas e gli “Illuminati”, lo avrebbe voluto cancellare per sempre dalle nostre orecchie e dalla nostra anima.
Bertone su Pio XII.
? Che Pio XII sia stato “indulgente con il nazismo” e “insensibile” di fronte alla Shoah è una “leggenda nera” di “totale inconsistenza”: l’ha affermato ieri il cardinale Tarcisio Bertone, che ha indicato nella disputa sulla questione palestinese e nella propaganda sovietica i terreni di coltura di quella “leggenda”, sorta sul finire degli anni ’40 del secolo scorso. Il segretario di Stato vaticano ha definito “grande”, “fruttuoso” ed “eroico” il pontificato di papa Pacelli. Ha sostenuto che è “anacronistico” e “fuori luogo” accusarlo di essere restato in “silenzio” di fronte alla persecuzione degli ebrei, della quale ha “parlato più volte scegliendo un profilo prudente” e contro la quale soprattutto ha “agito” promuovendo una “enorme opera di carità” a protezione dei perseguitati, cercando anche di arruolare ebrei romani nelle forze di sicurezza del Vaticano nel tentativo di salvarli dalla furia nazista.
Il cardinale ha parlato nella Sala della Protomoteca in Campidoglio intervenendo con Bruno Vespa, Andrea Riccardi e Francesco Margotta Broglio alla presentazione del volume di Andrea Tornelli, Pio XII. Eugenio Pacelli un uomo sul trono di Pietro (Mondatori, 661 pagine, 24 euro). Il cardinale ha definito “corposa e documentata” la biografia realizzata da Tornelli, che “attingendo a molti inediti ci restituisce la grandezza e la completezza della figura di Pio XII”.
La “leggenda nera” ? ha sostenuto il cardinale ? pretende di “ridurre il pontificato pacelliano ai presunti silenzi”, oscurando lo “straordinario magistero” che lo caratterizza e che fa di papa Pacelli un “precursore del Vaticano II”. Seguendo e lodando l’impostazione del volume di Tornelli, Bertone ha ricordato come Pio XII abbia “aperto” ad innovazioni in molti campi della vita della Chiesa, con una prima riforma della Settimana Santa, autorizzando l’uso del “metodo storico-critico” nello studio della Scrittura, prendendo in considerazione “pur con cautela” la teoria evoluzionistica, dando “più spazio alle donne rispetto agli uomini” nella proclamazione di santi e beati.
Sulla genesi della leggenda antipacelliana, il segretario di Stato vaticano ha detto che essa trova le prime formulazioni tra il 1946 e il 1949, in voci polemiche provenienti dal mondo ebraico e da quello sovietico. Le polemiche a matrice ebraica e medio- orientale prendono corpo in particolare a seguito di un discorso di Pio XII al delegati del Supremo comitato arabo per la Palestina, che fu ? ha detto Bertone ? “un appello a favore dei palestinesi in quel momento”. Per gli attacchi provenienti dal mondo sovietico ha citato un discorso fortemente antipacelliano tenuto il 27 agosto del 1949 da “un metropolita russo ortodosso molto legato a Stalin”.
E’ da tali frangenti ? secondo Bertone ? che “inizia a prendere corpo una incomprensibile accusa al papa per non essere intervenuto come avrebbe dovuto a favore degli ebrei”, mentre fino ad allora erano state “abbondanti” le espressioni ebraiche “di gratitudine e di stima” per l’operato di Pio XII durante la guerra.
In aggiunta a quanto già si conosceva, per il segretario di Stato vaticano sono significativi ? tra gli apporti conoscitivi del lavoro di Tornelli ? “alcuni giudizi netti di monsignor Pacelli sul nascente movimento nazionalsocialista” e soprattutto ? negli anni del pontificato ? la documentazione del “grande e grave dramma interiore vissuto dal pontefice durante il periodo della guerra circa l’atteggiamento da tenere di fronte alla persecuzione nazista”.
“I papi ? ha detto Bertone ? non parlano pensando a precostituirsi un’immagine favorevole per i posteri”. Il cardinale ha paragonato la “prudenza” delle denuncie di Pio XII a quella che in seguito caratterizzerà gli accenni di Paolo VI alle persecuzioni dei regimi comunisti. Una prudenza dettata dalla necessità di evitare “l’aggravamento della persecuzione”.
Quanto agli archivi vaticani ancora non consultabili, il cardinale è parso invitare degli sponsor a farsi avanti, assicurando che da parte della Santa Sede vi è la più ampia disponibilità a mettere a disposizione la “sterminata documentazione” che riguarda la “carità” esercitata in tempo di guerra: “Magari fosse possibile, con l’aiuto di qualche benemerita fondazione, catalogare in tempi brevi queste carte!”. Come esempio “positivo” di “disponibilità a comprendere” la figura e l’opera di Pio XII Bertone ha citato il “recente cambio di atteggiamento” della Fondazione israeliana Yad Vashem, che si è detta interessata a “riconsiderare storicamente” la propria valutazione di quel pontificato, che una “didascalia” del Museo della Shoah fino a oggi presenta “da un punto di vista polemico”.(Corriere della sera, 6/6/2007)
Arcipelago gulag: la memoria perduta.
Il 27 maggio del 1994 è da annoverare come una data che segna un’epoca, ma che troppo velocemente è caduta nell’oblio, specialmente in Italia: Aleksandr Solzenicyn, premio Nobel della letteratura, torna in Russia venti anni dopo essere stato espulso dall’allora Unione Sovietica. Sono trascorsi soltanto pochi anni, ma sembra un secolo: l’implosione dell’URSS, la disgregazione dell’Impero sovietico, che sembrava inossidabile, però, invece di portare in Italia ad un’analisi critica degli errori e degli orrori del comunismo, sono avvenimenti oggi quasi del tutto cancellati dalla nostra memoria storica nazionale. Discutendone anche a scuola con dei giovani, ragazzi che affronteranno tra breve l’esame di Stato, si avverte che poco o nulla sanno di quell’epoca, quasi non v’è traccia nei loro libri di scuola di che cosa sia stata davvero l’Unione Sovietica ed il comunismo. E come potrebbero in un Paese come il nostro in cui le maggiori case editrici, scolastiche e non, sono in mano all’intellighentia di sinistra?
Mi viene in aiuto, a tal proposito, il lavoro di Eugenio Corti, “Il fumo nel tempio”, del 1991, nel quale con disincantato realismo egli descriveva le vicende legate alla divulgazione dell’opera di Solzenicyn, in particolare, ma che abbracciava con sapiente maestria tutte le questioni che trattavano il tema “comunismo”. Ci ricorda Corti come “Solzenicyn sia stato trattato con tolleranza dalla cultura laico-marxista egemone in Italia, fino a quando questa lo riteneva contrario al solo Stalin, e non al marxismo in sé stesso. Le sue opere vennero allora pubblicate da Mondadori, cioè dal principale editore italiano, ed essendo in sé molto valide, ebbero larga diffusione. Quando però si scoprì che Solzenicyn dimostra in modo inequivocabile che non solo lo stalinismo, ma ogni comunismo porta al gulag, e sostiene che oggi il principale dovere di ogni uomo è di adoperarsi a “vivere fuori della menzogna”, l’atteggiamento della cultura egemone verso di lui si è capovolto. Così mentre il primo volume del suo Arcipelago gulag ha avuto in Italia una grande tiratura (si parla di 500.000 copie), il secondo è uscito quasi alla chetichella, e il terzo volume oggi, dopo anni, mentre è ormai diffuso da un pezzo nel resto del mondo, in Italia seguita a non venire pubblicato. Ragion per cui la successiva opera di Solzenicyn “Dialogo con il futuro” ha finito con l’essere da lui affidata alla minuscola Casa di Matriona, una cooperativa editrice di gente coraggiosa e cristiana, molto bersagliata dalla cultura egemone”.
Oggi la situazione sembra leggermente cambiata, ma è innegabile che persista una vera e propria censura sulle idee e sulle notizie, che viene praticata in modo sistematico dalla cultura dominante filomarxista, che detiene direttamente il controllo, o si è infiltrata in modo determinante in quasi tutti i mass media; la reazione scomposta, talvolta violenta alle opere di Gianpaolo Pansa è solo la punta dell’iceberg. Per tornare a Solzenicyn, è innegabile che è stato lui a mostrare al mondo la menzogna ideologica del marxismo. E’ stato lui a stabilire incontestabilmente che gli enormi crimini del regime comunista non potevano essere ridotti a “culto della personalità”, agli eccessi di un tiranno folle come è stato dipinto Stalin post-mortem. In “Arcipelago Gulag”, Solzenicyn ha pagato tributo alla memoria dei milioni di cittadini, russi e non, che vi hanno trovato la morte. Ricordiamo anche i tanti italiani, comunisti, che hanno pagato con la vita il minimo tentativo di dissenso, o semplicemente perché Togliatti, “il Migliore”, aveva sospetti che fossero poco ortodossi nella fede rossa. “Arcipelago Gulag” è un ammonimento continuo, è la rappresentazione reale, documentata, concreta, sconvolgente dell’inferno dei gulag sovietici. L’inferno del comunismo sovietico con tutti i suoi infimi e disumani gironi di milioni di anime dannate. Sofferenze di decine di milioni di persone che non si possono misurare e che abbiamo il dovere di non far cadere nell’oblio, così come l’orrore dei parenti delle vittime del Gulag, quotidianamente costretti a convivere con il pericolo delle denunce forzate, del terrore continuo d’essere a loro volta arrestati, ingoiati per sempre nel vortice degli innumerevoli campi di quell’Arcipelago mostruoso. Ma è bene ribadire ulteriormente che l’eliminazione, prima sociale, poi morale e infine fisica degli avversari politici non è una degenerazione del comunismo sovietico sotto Stalin, come ancora oggi si sente ripetere dai guru della nostra sinistra, megafoni di un Paese che ha addirittura tre partiti comunisti, oggi al governo: il terrorismo come sistema, le esecuzioni di massa, i campi di lavoro forzato e di sterminio sono parte integrante dell’ideologia marxista. Già prima della Rivoluzione, Lenin aveva scritto di mirare, nelle dispute, non alla confutazione dell’avversario, ma alla sua eliminazione.
E Lenin aveva fatto tesoro del pensiero di Marx, di quello storicismo ateo che al posto di Dio, del Dio misericordioso dei cristiani, aveva sostituito la statolatria, il progresso storico, al punto da arrivare a sostenere che “la storia ci guiderà verso la giustizia senza l’aiuto di Dio” e le terribili conseguenze di un tale storicismo non sono altro che la riduzione in schiavitù dell’uomo sull’uomo. Alcune, crude cifre della “giustizia senza l’aiuto di Dio” dei gulag sovietici: secondo la maggior parte degli storici e degli studiosi della macchina repressiva dell’URSS, la cifra delle vittime dei gulag sovietici si aggirerebbe da un minimo di 35 ad un massimo di 45 milioni. E questo riguarda soltanto i campi entro i confini delle repubbliche sovietiche, perché il costo umano del comunismo nei paesi dell’Europa dell’Est, occupati dall’Armata Rossa e divenuti poi satelliti di Mosca, continua ad essere ancora oggi aggiornato attraverso nuove documentazioni e testimonianze, a fatica, in quanto sono ancora viventi, in alcuni casi ancora al potere, quegli stessi protagonisti che gli effetti della inumana ideologia supportarono o che, addirittura, servirono con dedizione. E’ davvero quasi incredibile pensare che fu solo nel 1986, ieri, storicamente parlando, che Gorbaciov, cominciò finalmente a smantellare i campi sparsi per i 12 fusi orari dell’Unione Sovietica. Gli studenti, i nostri giovani, hanno il diritto di conoscere anche questa pagina tragica di quel secolo disperato e folle, che fu il novecento dei totalitarismi e noi, indiretti testimoni di quei fatti, abbiamo il dovere morale, ancor prima che storico, di spiegare loro la verità dei fatti.
Le spie della Germania dell’est.
Le vite della Stasi: ex spie a congresso
Berlino, per la prima volta si raccontano i capi dei servizi segreti della Ddr
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO ? Ci sarà Gabriele Gast, per anni alto papavero della Bnd, lo spionaggio federale, in realtà agente al servizio della Stasi, la famigerata polizia segreta della Germania Est. La sua relazione si intitola “Infiltrazione della Bnd”. Verrà Rainer Rupp, il leggendario Topaz, la spia che svelò al Patto di Varsavia tutti i segreti militari della Nato. E vivrà un insperato momento di gloria anche Werner Grossmann, numero due di Erich Mielke e ultimo capo dell’intelligence della Ddr, che come allora sarà accompagnato dal suo vice, l’ex generale Horst Vogel, già responsabile dello spionaggio economico e tecnologico. A raccontar le loro tresche, ci saranno perfino alcuni Romeo, gli ex sciupafemmmine della Guerra Fredda, specializzati nel sedurre le segretarie di Bonn, per poi carpir loro documenti riservati del governo occidentale.
Sarà come una riunione di famiglia, dopo anni di lontananza e di diaspora. E si ritroveranno proprio qui a Berlino, la città senza ombre che definì il loro destino di ombre. Ma questa volta non avranno bisogno di barbe finte, passaporti falsi, segni di riconoscimento, valigette col doppiofondo, doppi e tripli giochi. Saranno finalmente loro, con le loro facce, le loro vere identità e, cosi sperano gli organizzatori, i segreti del mestiere.
Diciassette anni dopo la caduta del Muro e la fine della Germania comunista, gli ex protagonisti del più efficace servizio segreto della Guerra Fredda saranno a congresso il 16 e 17 giugno nella capitale tedesca, per sottoporsi alle domande e alle curiosità di un pubblico di studiosi. Organizzata dall’Università danese di Odense, è il primo tentativo accademico di indagare da vicino il mondo fin qui raccontato e romanzato da Le Carré o dal cinema, ovvero giustamente messo sotto processo per le sue malefatte.
“Vogliamo sapere in che che modo questa gente lavorava”, spiega il professor Thomas Wegener Friis, che a Odense dirige il Centro per lo studio della Guerra Fredda. E aggiunge: “Noi non vogliamo sentire alcuna dichiarazione ideologica. Ci interessa conoscere come funzionavano nella realtà i servizi della Ddr, poiché su questo non si sa veramente nulla”.
? così riuscito agli studiosi danesi, quello che i loro colleghi tedeschi hanno tentato inutilmente per oltre tre lustri: tutte o quasi le ex spie della Ddr si erano infatti sempre rifiutate di apparire in pubblico. Nel congresso di giugno terranno relazioni personaggi decisivi come Kurt Gailat, che nella Stasi aveva la responsabilità di assicurare ai vertici della Germania Est informazioni dettagliate su quanto succedeva all’interno dei partiti occidentali, dalla Spd alla Cdu-Csu, dalla Fdp ai Verdi. Oppure Karl Rehbaum, capo dello spionaggio militare del regime di Honecker. O Rainer Rupp, appunto, che forse racconterà una volta per tutte in dettaglio le imprese sue e di Anne Christine Bowen, la funzionaria inglese della Nato di cui lui, giovane studente di Mainz appena reclutato dalla Stasi, si innamorò e poi volle sposare. Diventarono Topaz e Turquoise, una coppia di spie che causò all’Alleanza danni strategici gravissimi. E sarà un peccato che Markus Wolf, l’uomo senza volto, morto pochi mesi fa, non sia della partita: l’ex capo del controspionaggio era stato il maestro di tutti o quasi tutti quelli che parteciperanno al congresso.
“Ognuno ha bisogno di raccontare la sua storia, anche le spie”, dice il professor Friis. Una necessità che sembra stringente, visto che i partecipanti non riceveranno compensi, né rimborsi. “? tempo di affrontare le domande dei ricercatori, perché questa vicenda possa essere raccontata fattualmente e senza animosità”, spiega Werner Grossmann.
Ma il congresso delle ex spie venute dal freddo suscita anche critiche e polemiche. “? irresponsabile e di cattivo gusto che i criminali vengano considerati testimoni del tempo e si ricorra a loro per far luce sulla Storia”, ha detto Alexandra Hildebrandt, direttrice del berlinese Museo del Muro, facendo anche notare che la data scelta è particolarmente infelice, il 17 giugno ricorrendo l’anniversario dell’insurrezione del 1953, quando il regime comunista represse nel sangue la pacifica protesta dei lavoratori. “Questa è Oral History ? è stata la risposta di Friis ? e noi come studiosi siamo tenuti ad usarla. Queste persone sono tutte sopra gli ottanta, fra dieci anni saranno quasi tutte scomparse e ci pentiremmo di non averlo fatto”.
Marco d’Aviano il “medico spirituale dell’Europa”.
Capita talvolta durante un viaggio di trovarsi di fronte a luoghi talmente carichi di storia e di suggestioni che quasi restiamo increduli, storditi, commossi. E’ successo recentemente che, dovendo recarmi a Vienna per lavoro, ho voluto ritagliarmi un po’ di tempo per compiere una sorta di pellegrinaggio sulle tracce di quel gigante del XVII? secolo che fu Marco d’Aviano, anima della liberazione di Vienna nel 1683. Un gigante dicevo, eppure ancora oggi in gran parte d’Italia poco noto, tenuto nascosto quasi come un parente scomodo che, per timore del giudizio altrui, si tiene in cucina quando arrivano ospiti.
Padre Marco è sepolto nella Chiesa dei Cappuccini a Vienna, sopra la celebre Cripta che ospita le spoglie mortali degli Asburgo, unico non appartenente alla dinastia ad aver avuto questo privilegio; eppure nelle guide ufficiali che accompagnano il turista italiano medio a conoscere la città, vedi per esempio il celeberrimo “libro verde” delle Guide d’Europa del Touring Club Italiano, neppure una parola, un accenno, un rimando: Marco d’Aviano semplicemente non esiste. Solo ignoranza? Non è da escludere, ma se dietro questa “dimenticanza” ci fosse invece la volontà di occultare la memoria scomoda, almeno da noi, di colui che ancora oggi è venerato come un santo non solo in Austria, ma anche in Ungheria, Slovenia e in altre regioni danubiane? La figura di padre Marco certamente spaventa le anime belle del dialogo ad oltranza e del pacifismo che si fa codardia, sottomissione a culture e religioni altrui in nome di una tolleranza che svilisce e avvizzisce le nostre radici. Queste anime belle dimenticano certamente che senza l’azione ferma, decisa, incrollabile nella Fede del frate friulano, forse oggi la nostra pavida Europa, o almeno gran parte di essa, sarebbe certamente islamizzata, una realizzazione compiuta di quella “Eurabia” che tanto spaventava Oriana Fallaci.
Marco fu, non dimentiachiamolo mai, in primo luogo uomo di Fede, animato da una volontà tenace di restituire alla cristianità le terre ormai sottomesse all’Islam, in Europa ed in Terra santa. Uomo del suo tempo, avvertiva i pericoli delle divisioni interne alla cristianità di fronte all’espansionismo turco e si prodigò girando gran parte d’Europa sorretto dalla Parola, predicando e compiendo guarigioni miracolose e prodigi che ben presto lo fecero conoscere ovunque nel continente. Numerosi furono i regnanti e i nobili europei, dalla Germania al Belgio, dalla Boemia alla Francia, alla Svizzera, che richiedevano la presenza e la parola del frate friulano e particolarmente devoto a padre Marco fu Leopoldo I d’Asburgo, che lo volle sempre accanto nei momenti di difficoltà e crisi anche politica, diventandone con il passare del tempo, confidente, padre spirituale ed amico. Ai confini del suo regno, l’Impero turco si stava preparando per sferrare l’assalto decisivo al mondo cristiano: nell’aprile 1683 un esercito turco di 150.000 uomini più circa altrettanti ausiliari e trecento cannoni, con 50.000 carri, si mise in marcia sotto il comando del sultano Maometto IV il quale dopo aver raggiunto Belgrado, lasciò la responsabilità dell’armata al gran visir Kara Mustaf?. Da un punto di vista strettamente militare si trattò davvero di un’impresa epica, la più grande spedizione militare mai organizzata dai turchi. Il 12 luglio 1683 l’armata turca raggiunge Vienna dopo aver occupato e saccheggiato gran parte dei Balcani e messo a ferro e fuoco oltre 400 città. Di fronte alla minaccia islamica si mobilitò in primis Papa beato Innocenzo XI tentando di coalizzare i principi cristiani in una Lega Santa contro la mezzaluna. Alla chiamata del Santo Padre risposero la Polonia di re Jan III Sobieski, alcuni volontari italiani ed alcuni principati germanici come Baviera, Turingia, Holstein, Renania e Sassonia, cattolici e protestanti insieme. La Francia, come altre volte, restò sorda all’appello del Pontefice, attendendo di godere i frutti dell’auspicata sconfitta degli odiati Asburgo.
Il comando delle truppe cristiane, che contavano circa 70.000 uomini, fu affidato dapprima a Carlo V di Lorena, cognato dell’Imperatore e discepolo di padre Marco, ed in seguito al Re di Polonia Sobieski. Vera guida della coalizione cristiana fu in realtà padre Marco, che riuscì, inoltre, ad impedire che i dissidi fra i vari principi mandassero in fumo la già fragile alleanza tra loro. Il giorno 11 settembre, le truppe cristiane occuparono il Kahlenberg, il colle che guarda Vienna da occidente. Fu da questa altura che padre Marco infiammò le truppe con i suoi incitamenti, con le sue prediche, instancabile incoraggiò e benedisse tutti i soldati e loro comandanti. Sulla parete della piccola chiesa, la Josefskirche, una targa ricorda la visita di papa Giovanni Paolo II su questo colle nel 1983: il papa polacco sostò in preghiera sul luogo della celebrazione della Messa da parte di padre Marco a Jan Sobieski e agli altri principi cristiani. All’alba del giorno 12 settembre, dopo aver celebrato la Santa Messa e benedetto le truppe della coalizione, seguì l’evolversi della battaglia correndo da un punto all’altro dell’epico scontro. Nonostante il numero nettamente inferiore di soldati, le schiere cristiane sbaragliarono il poderoso esercito turco, già in serata padre Marco entrò in Vienna liberata e il giorno seguente volle celebrare il Te Deum nella cattedrale di Santo Stefano. Dopo Vienna guidò con impegno e fede incrollabile la riscossa cristiana nei Balcani fino alla liberazione di Belgrado nel 1688. L’incessante impegno e gli sforzi continui minarono la sua salute: il 25 luglio 1699 fu costretto a letto a Vienna vegliato dai membri della casa d’Austria, ed il 13 agosto morì assistito dalla famiglia imperiale, dall’imperatore Leopoldo e dall’imperatrice Eleonora. Dal 1703, come ricordato, riposa in una cappella nella chiesa dei Cappuccini.
Numerosi sono i documenti e le testimonianze che riportano guarigioni e miracoli dovuti all’intercessione di padre Marco d’Aviano; il processo di canonizzazione fu avviato da S. Pio X nel 1912 e fu papa Giovanni Paolo II a concludere la causa di beatificazione, proclamandolo beato a Roma il 27 aprile 2003, suscitando anche numerose polemiche all’interno di un certo mondo cattolico progressista che considerava e considera padre Marco troppo combattivo e una minaccia per il dialogo interreligioso. Marco d’Aviano e Giovanni Paolo II, due figure immense della cristianità, combattive, generose, mai dome, sorrette da una Fede solida, scevra da ogni compromesso, in quel giorno di quattro anni fa una di fronte all’altra, due campioni della Fede di fronte alle minacce dei loro tempi. Marco d’Aviano fu comunque un uomo che si attirò anche il rispetto dei musulmani della sua epoca, non dobbiamo dimenticarlo, proprio per la sua incrollabile Fede, per la coerenza delle sue azioni. Mai, inoltre, nelle sue prediche scaturì un sentimento di odio verso le schiere avversarie, i prigionieri turchi furono trattati con giustizia, secondo il volere dello stesso Marco. Il messaggio che padre Marco ci invia, oggi più forte che mai, è proprio rivolto ad ognuno di noi, cittadini di quest’Europa che si vergogna di riconoscere le proprie radici cristiane, a seguire il suo esempio nell’opera di riappropriazione di quelle nostre radici, dei nostri valori morali e spirituali. Il male principale della nostra epoca, il laicismo imperante, un nemico forse ancora più subdolo e pericoloso della minaccia islamica che atterriva l’Europa di allora, sarà sconfitto solo seguendo l’esempio di abnegazione e di Fede del piccolo grande frate di Aviano, il quale amava definirsi, non a caso, il “medico spirituale d’Europa”. Ditelo anche ai redattori, e alle redattrici, della guida turistica del Touring Club Italiano…
Il nunzio apostolico in Israele e Tornielli sul caso Pio XII.
La notizia che il nunzio della Santa Sede in Israele, mons. Antonio Franco, non andrà domenica alla cerimonia per la commemorazione della Shoà al museo Yad Vashem(lunedì 16 è il giorno in cui Israele ricorda appunto l’Olocausto) è oggi sulle prime pagine dei giornali italiani.
Al centro della controversia, una didascalia sotto la foto di Papa Pio XII proprio nel memoriale della Shoà. In una lettera il nunzio pontificio ha spiegato le ragioni della mancata partecipazione: “La mia assenza non significa mancanza di rispetto per il ricordo e per le vittime di questa tragedia. Lo Yad Vashem sostiene che non si può cambiare la verità storica. Ma ai fatti viene data un’interpretazione contraria a molte altre verità storiche”.
La vicenda dell’annunciata diserzione alla cerimonia ha fatto riesplodere in tutta la sua virulenza la polemica sulla figura e sul ruolo di Papa Pacelli, che viene dipinto dagli autori della didascalia quasi come un fiancheggiatore del nazismo.
Per Andrea Tornielli, vaticanista del quotidiano Il Giornale e storico di Papa Pacelli (il prossimo 22 aprile esce per i tipi di Mondadori Pio XII, un uomo sul trono di Pietro, una ponderosa biografia di 660 pagine contenente molti documenti inediti), data la situazione è sacrosanto che mons. Franco non vada alla cerimonia.
Tornielli, nel testo dello Yad Vashem si ripropongono i silenzi (e l’ignavia) di Pio XII…
La didascalia sotto la foto contiene diverse inesattezze. Si dice che il Papa abbia nascosto un’enciclica redatta dal suo predecessore, nella quale si toccavano i temi dell’antisemitismo… Bisognerebbe dire invece che per fortuna non l’ha pubblicata, perché proprio quella lettera conteneva accenni antisemiti. Si dice che non ha protestato, denunciato… Ma nel 1942 in un radiomessaggio parlò di moltissime di persone che “senza colpa propria solo a motivo della nazionalità” venivano condotte a morte. Si dice che nell’ottobre del 1943 non intervenne in alcun modo… ? documentato che fece tre interventi, e grazie a padre Pancrazio Pfeiffer, superiore generale dei salvatoriani, riuscì a intervenire sulle autorità militari tedesche per fermare la razzia nazista nel ghetto di Roma.
La didascalia afferma ancora che Papa Pio XII non diede direttive al clero… ? invece attestato e documentato anche attraverso testimonanze, che Papa Pacelli ordinò ai conventi di Roma di accogliere gli ebrei nell’ottobre 1943.
Nei libri scritti da lei su Pio XII, penso in particolare a Il Papa che salvò gli ebrei, si denunciano menzogne, omissioni ed eclatanti svarioni….
Viene coltivata una leggenda nera che tende a presentare Pio XII come filo nazista e antisemita. Oggi grazie a qualche ricerca più recente siamo in grado di capire che questi attacchi vengono dalla Russia e da ambienti del cattolicesimo progressista francese. Dietro la campagna di accuse contro Pio XII, culminata con l’uscita del dramma Il Vicario di Rolf Hochhuth rappresentato per la prima volta a Berlino nel 1963, ci sarebbe stato direttamente il Kgb e un’operazione di disinformazione gestita dai servizi segreti della Romania per conto di Mosca e finalizzata a screditare la Santa sede. L’Unione Sovietica non aveva perdonato a Papa Pacelli il grande e personale impegno profuso nel 1948 per impedire la vittoria del fronte social-comunista in Italia. Sul fronte opposto, sappiamo anche che Hitler e i nazisti lo consideravano proprio avversario. Sono attestati i contatti di Pio XII con un gruppo inglese per cercare di abbattere Hitler.
Gli storici israeliani chiedono con insistenza l’apertura degli archivi segreti vaticani. C’è ancora qualche verità da raccontare?
Si tratta di una richiesta del tutto pretestuosa e a senso unico. Si è parlato recentemente di una lettera con presunte rivelazioni di Roncalli a un dignitario ebraico… Materiale che si troverebbe in archivio in Israele e che non viene reso noto… Un archivio viene aperto quando il materiale è catalogato e consultabile, un lavoro immane ed enorme. Finora il Vaticano ha aperto l’archivio segreto fino a tutto il pontificato di Pio XI e non è ancora disponibile il pontificato di Pio XII. Ma bisogna ricordare che Paolo VI, dopo le accuse contenute nel “Vicario”, volle pubblicare tutti i documenti del periodo della seconda guerra mondiale. Quindi quello che c’è da conoscere sull’opera caritativa della Chiesa e di papa Pacelli negli anni della Shoà e in favore degli ebrei, è disponibile. Si tratta di una enorme mole di documenti che nessuno legge. Men che meno gli storici dello Yad Vashem.
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Milano – Siria. Largo alle donne!
Milano – Profilo. Il vescovo anglicano Suheil Dawani
Gerusalemme – Nel nome di san Lorenzo
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Messori, l’Europa, e gli Usa liberatori.
Se per qualcuno mi sono espresso male, lascio la parola ad un personaggio che si esprime meglio, dicendo però le stess ecose: Vittorio Messori, che mi sembra apprezzato, in questo sito, e dal mondo cattolcio in generale.
“Il cosiddetto “american way of life” non è certo il mio ideale. “Ci hanno salvati due volte”, dicono spesso i fanatici dell’Usa-mania, riferendosi alle due guerre mondiali. Ma, a ben guardare, i motivi degli Stati Uniti per intervenire non erano così limpidi, e proprio certi loro errori furono all’origine dell’emergere dei fascismi.
Poiché amo la mia cultura – quella, cioè, di italiano “padano” nonché di cattolico – rispetto ogni altra cultura e tradizione. In effetti, come dimenticano spesso certi “dialoganti” confusionari, l’amore di sé è condizione indispensabile per l’amore verso gli altri. Solo chi è consapevole della sua identità e non vuole essere offeso in ciò che gli è caro, si guarda dall’offendere ciò che è caro ad altri. Dunque, alla pari di ogni altro Paese, rispetto anche gli Stati Uniti e quella loro cultura, della cui bontà sono così convinti da farne un’ideologia da esportazione mondiale, dandole un nome: american way of life. Rispetto, dunque. Ma, a differenza di tanti, oggi, non faccio del Nord America il mio ideale, non ho alcuna intenzione di abbandonare le mie tradizioni per adottare le loro. Il mio “istinto” cattolico si sente estraneo a un Paese che è figlio prima del protestantesimo radicale, poi della massoneria (tutti i Padri della Patria erano massoni e vollero riempire dei loro simboli non soltanto il dollaro ma ogni altro emblema, a cominciare dalle bandiere dei singoli Stati), infine di un ebraismo, soprattutto ashkenazita, che è sceso in profondo attraverso la cultura, i mass media, lo spettacolo. Mi ha sempre sorpreso il totale oblio che ha avvolto la lettera apostolica Testem benevolentiam del 1899, con la quale Leone XIII condannava quello che fu chiamato “americanismo” e denunciava una deriva che il cristianesimo stava prendendo (ma, malgrado gli avvertimenti, sempre più avrebbe preso) nel Nuovo Continente. Naturalmente, lascio che chi vuole sia affascinato dagli States sino a vestire, cantare, parlare come loro; e facciano pure se rischiano così la figura dei provinciali se non dei barbari nell’impero romano, ansiosi di adeguarsi a usi, costumi, lingua dei dominatori. Amando però la verità – e conoscendo un poco la storia – non accetto una sorta di ricatto cui si è spesso sottoposti quando si è sospettati, quasi fosse una colpa, di non volere confondere il doveroso rispetto anche per gli americani con l’ammirazione o magari l’entusiasmo: “Ingrati! Dovreste essere riconoscenti a quel grande Paese che, nel secolo scorso, ha salvato l’Europa almeno due volte”. Si allude, naturalmente, alle due guerre mondiali, nelle quali fu decisivo l’intervento statunitense. Varrà allora la pena di ricordare, almeno a grandi linee, come siano andate davvero le cose: cercare di ricostruire la verità storica e dare a ciascuno il suo non è forse tra i doveri del cristiano? Va detto, innanzitutto, che alla fine del 1916 gli americani rielessero come loro presidente il figlio di un pastore presbiteriano, secondo molti massone (come tutti o quasi i suoi predecessori), Thomas Woodrow Wilson. Lo slogan vincente della sua campagna elettorale era stato: “Vi ho tenuti fuori dalla guerra! “. In effetti, Wilson aveva subito proclamato la neutralità davanti all’incendio scoppiato in Europa nel 1914. Una decisione che piacque agli americani che, perciò, premiarono con un nuovo, trionfale mandato l’uomo che non voleva trascinarli nelle beghe sanguinose di un’Europa poco amata da un popolo la cui maggioranza aveva dovuto fuggire dal Vecchio Continente a causa della miseria o della persecuzione, religiosa e politica. I cattolici erano tra i più contrari alla guerra, soprattutto se a fianco di inglesi e francesi: non solo per amore religioso di pace, ma anche perché il nerbo del cattolicesimo americano era costituito o da irlandesi che non dimenticavano le persecuzioni britanniche o da austriaci, tedeschi o altre etnie dell’Europa centrale che non intendevano combattere contro le loro patrie d’origine. Quanto ai cattolici di provenienza italiana, erano stati ben contenti di affiancare la Penisola nella neutralità ed erano d’accordo con il Papa che definiva quanto stava avvenendo una “inutile strage”. Se gli irlandesi detestavano l’Inghilterra persecutrice, nessun credente amava la Francia, con il suo governo tra i più anticlericali del mondo che da poco aveva sciolto le congregazioni religiose e cacciato frati e suore. Invece, pochi mesi dopo la rielezione, il 6 aprile del 1917, Wilson rinnegava le promesse elettorali e dichiarava guerra alla Germania scegliendo per giunta (per alcuni non fu un caso) la ricorrenza del venerdì santo per la dichiarazione ufficiale. Naturalmente – come avviene dappertutto,ma in particolare negli Stati Uniti – pure quella volta la decisione di scendere in guerra fu ammantata di nobili ideali, a cominciare dal fatto che l’America “madre e custode della democrazia nel mondo” intendeva difendere con le armi quel grande valore minacciato. Motivazione stupefacente: accanto alla Gran Bretagna e alla Francia, combatteva la Russia zarista, cioè uno dei sistemi meno democratici e più totalitari, sino alla barbarie, del mondo intero. Inoltre, sia la Germania che l’Austria-Ungheria erano Paesi parlamentari, con libere elezioni e, tra l’altro, potenti partiti d’opposizione socialisti. Il sistema sociale tedesco a favore degli operai e dei lavoratori era, sin dai tempi di Bismarck, tra i più avanzati. Quanto all’Impero austro-ungarico, la prova della tutela culturale dei molti popoli che ne facevano parte e della loro fedeltà al comune sovrano fu testimoniata dalla compattezza e dal valore con cui quelle sue armate multietniche combatterono sino alla fine. E, come si sa, ci sono ancora molti (anche nelle provincie italiane che ne facevano parte) che sono nostalgici dell’Impero perduto. La propaganda di Wilson insistette pure, per giustificare l’intervento, nel riesumare il siluramento – avvenuto peraltro due anni prima e legittimo secondo il diritto di guerra – del transatlantico inglese Lusitania, sul quale erano morti un centinaio di americani. Non si esitò neppure a sfruttare una delle menzogne più odiose divulgate dagli alleati: l’accusa, cioè, ai tedeschi di mozzare le mani ai bambini belgi. La realtà, era, ovviamente diversa: tra i motivi dell’intervento c’era il timore che la sconfitta dell’Intesa impedisse il rimborso dei grandi prestiti fatti a Inghilterra, Francia, Italia, Russia. Accanto alla pressione dei finanzieri, c’era quella degli industriali nonché degli imprenditori agricoli: i commerci con i tedeschi erano impediti dal blocco della flotta inglese nel Mare del Nord, quelli con gli austro-ungarici dalle flotte francese e italiana nel Mediterraneo. Dunque, le gigantesche esportazioni dell’America ancora neutrale verso l’Europa erano dirette esclusivamente agli Alleati. In caso di loro disfatta (che appariva sempre più probabile) sarebbe ovviamente cessato quel lucrosissimo mercato e nessuno, per giunta, avrebbe pagato i debiti. La stampa americana che, unanime, aveva sostenuto Wilson nel suo neutralismo, cambiò all’improvviso atteggiamento e difese ora, senza esitazioni, il suo interventismo. Una svolta sorprendente che, stando a molti storici, trova spiegazione nella celebre “dichiarazione Balfour”. Questo Lord era il ministro degli esteri della Gran Bretagna: recatosi negli Stati Uniti per cercare di ottenerne l’ingresso nella guerra, dichiarò pubblicamente che, dopo la vittoria, il suo Paese, ereditando la Palestina dall’impero turco, vi avrebbe favorito la creazione di un “focolare nazionale ebraico”. In cambio di quella “dichiarazione” senza la quale, 30 anni dopo, non sarebbe nato lo Stato d’Israele, i trust ebraici americani, che possedevano i media più influenti (i giornali, ma anche le già potenti case di produzione cinematografica) decisero di appoggiare l’intervento. Non mancò neppure la pressione della massoneria, che contava negli Stati Uniti milioni di aderenti. Malgrado le logge inglesi e americane siano contrassegnate meno che le latine dall’anticlericalismo, i “fratelli” anglosassoni vollero manifestare solidarietà ai massoni europei che desideravano la distruzione dell’impero austro-ungaric
o, considerato l’ultimo erede dell’aborrito Sacro Romano Impero e bastione della Tradizione soprattutto cattolica. Qualcuno ha osservato che la storia sembra talvolta avere a che fare con le leggi della fisica: l’Europa era esplosa sotto la pressione di forze interne che dovevano ora trovare un nuovo equilibrio. Ma a questo non si poteva giungere, pur attraverso tanta violenza, se sul “sistema” irrompeva all’improvviso un elemento estraneo come la potenza americana. Questa, facendo pendere il piatto della bilancia da una parte, squilibrava l’Europa, impedendo che i rapporti di forza locali riassestassero durevolmente il continente. Mala pesante mano allungata attraverso l’Atlantico agì anche, forse soprattutto, alla fine della guerra. Sebbene cercassero di trattenerlo, Wilson, caldo di spirito umanitario, volle andare in persona alla conferenza di pace di Versailles: e, qui, con quei trattati sciagurati che vi furono imposti, contribuì in modo forse decisivo a porre le basi per lo scoppio, vent’anni dopo, della seconda guerra mondiale. A Versailles, come si sa, il presidente americano portò i suoi celebri “quattordici punti per una pace giusta”: l’aspetto era edificante e nobile ma in realtà quei “punti” erano un condensato di utopia, di moralismo puritano, di ignoranza della vera realtà europea, di “democraticismo” ridotto a ideologia. In nome, ad esempio, di un astratto “principio di nazionalità” (oltre che dell’odio massonico cui accennammo) si procedette alla distruzione totale dell’impero austro-ungarico, inventando persino Paesi come la Jugoslavia o la Cecoslovacchia che non a caso si sciolsero appena ne ebbero la possibilità. La nascita e l’affermazione del fascismo italiano, che avrebbe fatto scuola nel mondo (senza di esso, lo riconobbe sempre Hitler, non ci sarebbe stato il nazionalsocialismo) furono stimolate da quella che fu chiamata “la vittoria mutilata”. Wilson, infatti, in nome dei suoi schemi di “principio di nazionalità” e di “autodeterminazione”, oltre che di ignoranza della storia e della situazione concreta, favorì le richieste in Istria e Dalmazia, per secoli terre veneziane, di croati e sloveni che pure avevano combattuto sino alla fine con gli austriaci. Come si sa, davanti alla intransigenza ideologica americana, la delegazione italiana abbandonò polemicamente Versailles. D’Annunzio, con un colpo di mano, occupò Fiume, dove inventò tutto l’armamentario che sarebbe stato adottato dal fascismo nascente. Sta di fatto che fu il trattato di Versailles – misto di spirito francese di vendetta e di dilettantismo britannico, ma anche di utopismo e moralismo americani – che permise a Mussolini di ascendere al potere. Ma fu lo stesso trattato, così pesantemente condizionato dagli Stati Uniti, che – con la sua carica di ingiustizia brutale e insieme di ingenuo irrealismo – pose le condizioni perché Hitler conquistasse il potere “democraticamente”, portato al cancellierato con libere elezioni dalla disperazione tedesca. Se questi, a grandi linee, sono i fatti, c’è da chiedersi se – tra 1917 e 1919 – l’America abbia davvero “salvato” l’Europa o se non ne abbia aggravato i problemi, contribuendo per giunta a porre le basi per la tragedia successiva. Quando poi questa giunse, la scelta degli Stati Uniti fu netta: stroncare il totalitarismo nazista ma, al contempo, favorire il totalitarismo marxista. Mai l’Urss avrebbe fermato i tedeschi davanti a Mosca e Leningrado senza l’enorme fiume di materiali, munizioni, viveri, denaro che le giungevano dagli States. E mai i russi avrebbero potuto occupare tutta l’Europa orientale e parte di quella centrale se gli americani non avessero respinto l’invito dei più realisti inglesi: dopo avere sgominato i nazisti, fermare i comunisti almeno nei loro confini, se necessario con le armi. O, più semplicemente, con un semplice avvertimento: solo gli Usa, allora, avevano una potenza nucleare. Mai, poi, gli uomini con la stella rossa avrebbero potuto assurgere alla dignità e al prestigio di giudici della barbarie altrui se gli americani non li avessero voluti in quella Norimberga dove si vide uno spettacolo tragicamente grottesco: Stalin che, virtuosamente, giudicava Hitler. ? verità storica che la potenza militare americana salvaguardò l’Europa dall’aggressione sovietica. Ma è altrettanto vero che il “socialismo reale” non avrebbe raggiunto quella potenza e quello status senza le scelte americane tra il 1941 e il 1948. Insomma, che ciascuno faccia ciò che gli pare: quanto a me, mi guarderò sempre dall’insolentire qualunque popolo, dunque neppure quello americano. Ma neanche accetterò di considerarlo “salvatore” del continente di cui la mia terra è parte”.
Vittorio Messori, Jesus, 2004
La questione palestinese nella Redemptoris Nostri di Pio XII.
I luoghi santi della Palestina
15 aprile 1949.
La passione del nostro divin Redentore, che nei giorni di questa settimana santa si ripresenta come in una viva scena al nostro sguardo, richiama con intensa commozione la mente dei cristiani a quella terra che, prescelta per divino consiglio a essere la patria terrena del Verbo incarnato, e testimone della sua vita e della sua morte, fu bagnata del suo sangue preziosissimo.
Ma quest’anno, al pio ricordo di quei luoghi santi, il Nostro animo è profondamente addolorato, per la loro critica e incerta situazione.
Già nello scorso anno con due Nostre lettere encicliche, vi abbiamo caldamente esortato, venerabili fratelli, a indire pubbliche e solenni preghiere, per affrettare la cessazione del conflitto che insanguinava la terra santa, e ottenere una sua giusta sistemazione, che assicurasse piena libertà ai cattolici, e la conservazione e tutela di quei sacri luoghi.
Poiché oggi le ostilità sono cessate, o per lo meno sono sospese, in seguito agli armistizi recentemente conclusi, Noi rendiamo ardentissime grazie all’Altissimo ed esprimiamo il Nostro sentito apprezzamento per l’opera di coloro che si sono nobilmente adoperati per la causa della pace.
Ma, con la sospensione delle ostilità, si è ancora lungi dallo stabilire effettivamente in Palestina la tranquillità e l’ordine. Infatti, giungono ancora a Noi i lamenti di chi giustamente deplora danni e profanazione di santuari e di sacre immagini, e distruzione di pacifiche dimore di comunità religiose. Ci giungono ancora le implorazioni di tanti e tanti profughi, di ogni età e condizione, costretti dalla recente guerra a vivere in esilio, sparsi in campi di concentramento, esposti alla fame, alle epidemie e ai pericoli di ogni genere.
Noi non ignoriamo quanto è stato generosamente compiuto da pubblici organismi e da iniziative private per alleviare la sorte di questa provatissima moltitudine; e Noi stessi, continuando l’opera di carità, intrapresa sin dall’inizio del Nostro pontificato, abbiamo fatto e facciamo quanto è possibile per sovvenire ai loro più urgenti bisogni.
Ma la situazione di questi profughi è così incerta e precaria, che non potrebbe protrarsi più a lungo. Mentre perciò esortiamo tutte le persone nobili e generose a soccorrere secondo le loro possibilità questi esuli, sofferenti e privi di tutto, rivolgiamo un caldo appello a coloro cui spetta provvedere, perché sia resa giustizia a quanti, costretti dal turbine della guerra a lasciare le loro case, non bramano che ricostituire in pace la loro vita.
Ciò che più ardentemente desidera il Nostro cuore e quello di tutti i cattolici, specialmente in questi santi giorni, è che finalmente la pace torni a splendere su quella terra, dove visse e versò il suo sangue Colui che dai profeti fu annunziato come “il Principe della pace” (Is 9,6) e dall’apostolo Paolo proclamato “la Pace” (cf. Ef 2,14).
Questa pace, vera e duratura, Noi abbiamo ripetutamente invocato; e, per affrettarla e consolidarla, già dichiarammo nella Nostra lettera enciclica In multiplicibus “essere assai opportuno che per Gerusalemme e per i suoi dintorni – là dove si trovano i venerandi monumenti della vita e della morte del divin Redentore – sia stabilito un regime internazionale, che nelle attuali circostanze sembra il più adatto per la tutela di questi sacri monumenti”.(2)
Ora non possiamo che rinnovare quella Nostra dichiarazione, che vuole essere anche invito ai fedeli di qualsiasi parte del mondo ad adoperarsi con ogni mezzo legale, affinché i loro governanti e tutti coloro ai quali spetta la decisione di così importante problema si persuadano a dare alla città santa e ai suoi dintorni una conveniente situazione giuridica, la cui stabilità, nelle presenti circostanze, può essere assicurata e garantita soltanto da una comune intesa delle nazioni amanti della pace e rispettose dei diritti altrui.
Ma è inoltre necessario provvedere alla tutela di tutti i luoghi santi, che si trovano non solo in Gerusalemme e nelle sue vicinanze, ma anche in altre città e villaggi della Palestina.
Poiché non pochi di essi, in seguito alle vicende della recente guerra, sono stati esposti a gravi pericoli e hanno subìto danni notevoli, è necessario che quei luoghi, depositari di così grandi e venerabili memorie, fonte e nutrimento di pietà per ogni cristiano, siano convenientemente protetti da uno statuto giuridico, garantito da una forma di accordo o di impegno internazionale.
Sappiamo quanto i Nostri figli desiderino di riprendere verso quella terra i tradizionali pellegrinaggi, che i quasi universali sconvolgimenti hanno da lungo tempo sospeso. E il desiderio dei Nostri figli si fa più ardente ora, nell’imminenza dell’anno santo; perché è naturale che in quel tempo i cristiani sospirino di visitare quella regione, che fu spettatrice dei misteri della divina redenzione. Volesse il cielo che questo ardentissimo desiderio fosse presto esaudito!
Ma perché ciò si verifichi, bisogna che siano adottate tutte quelle misure che rendano possibile ai pellegrini di accedere liberamente ai vari santuari; compiervi senza alcun ostacolo pubbliche manifestazioni di pietà; soggiornarvi senza pericoli e senza preoccupazioni. Né vorremmo che i pellegrini dovessero provare il dolore di vedere quella terra profanata da luoghi di divertimento mondani e peccaminosi: il che recherebbe ingiuria al divin Redentore e offesa al sentimento cristiano.
Anche le molte istituzioni cattoliche, di cui è ricca la Palestina per la beneficenza, l’insegnamento e l’ospitalità dei pellegrini, dovranno, com’è loro diritto, poter continuare a svolgere, senza restrizioni, quella loro attività, con cui in passato si sono acquistate tante benemerenze.
Non possiamo, infine, non far presente la necessità che siano garantiti tutti quei diritti sui luoghi santi, che i cattolici già da molti secoli hanno acquistato, che hanno sempre decisamente e ripetutamente difeso, e che i Nostri predecessori hanno solennemente ed efficacemente affermato.
Queste sono, o venerabili fratelli, le cose sulle quali abbiamo creduto opportuno richiamare la vostra attenzione.
Esortate perciò i vostri fedeli a prendere sempre più a cuore le sorti della Palestina e a far presenti alle Autorità competenti i loro desideri e i loro diritti. Ma specialmente con una insistente preghiera implorino l’aiuto di Colui che guida gli uomini e le nazioni. Dio guardi benigno il mondo intero, ma specialmente quella terra, bagnata dal sangue del divin Redentore, affinché sopra gli odi e i rancori trionfi la carità di Cristo, che sola può essere apportatrice di tranquillità e di pace.
Intanto, in auspicio dei celesti favori e in attestato della Nostra benevolenza, impartiamo di tutto cuore a voi, venerabili fratelli, e ai vostri fedeli l’apostolica benedizione.
Roma, presso San Pietro, il 15 aprile, venerdì santo, dell’anno 1949, XI del Nostro pontificato.
Note
(1) PIUS PP. XII, Epist. enc. Redemptoris nostri de sacris Palaestinae locis, (Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes), 15 aprilis 1949: AAS 41(1949), pp. 161-164.
(2) AAS 40(1948), p. 435; EE 6/662.
Martino aveva previsto tutto.
Anche ieri sono morti in Iraq altri 9 soldati americani. Siamo ormai ben oltre i 3000 morti americani, e alcune decine di migliaia di feriti. Ma nulla cambia. E’ interessante allora sentire quanto diceva il cardinal Martino, a nome del Vaticano, nel febbraio 2003. Sembra un profeta, ma non lo è. Bastava la ragione….e la conoscenza storica…
Intervista con l’arcivescovo Renato Raffaele Martino
“Una vera azione preventiva? Evitare la guerra”
Parla il nuovo presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. “La guerra preventiva è guerra di aggressione, non è giustificabile e non risolve nulla. Non bisogna abbandonare un approccio multilaterale alla crisi irachena”
di Gianni Cardinale
Dopo sedici anni passati al Palazzo di Vetro di New York, l’arcivescovo Renato Raffaele Martino è stato chiamato a guidare il Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. Dicastero che ha il compito primario di mirare a far sì che nel mondo siano promosse appunto la giustizia e la pace “secondo il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa”. Succede, in questo incarico, a personalità prestigiose come il cardinale francese Roger Etchegaray e il compianto cardinale vietnamita Fran?ois Xavier Nguy?n Van Thu?n.
Martino ha 70 anni. Originario di Salerno, è entrato nella diplomazia vaticana nel 1962 e ha lavorato nelle nunziature di Nicaragua, Filippine, Libano, Canada e Brasile. Tra il 1970 e il 1975 ha guidato il dipartimento per le organizzazioni internazionali della Segreteria di Stato. Nel 1980 viene promosso arcivescovo e pro-nunzio in Thailandia, delegato apostolico in Singapore, Malaysia, Laos e Brunei. Nel 1986 diventa osservatore permanente alla sede Onu di New York. ? il terzo ecclesiastico a ricoprire questo incarico, dopo monsignor Alberto Giovannetti e l’arcivescovo, oggi cardinale, Giovanni Cheli.
Nominato il 1 ottobre e insediatosi i primi di dicembre dello scorso anno, l’arcivescovo Martino si è gettato subito a capofitto nel suo nuovo incarico. Ha presentato il messaggio papale per la Giornata mondiale della pace che si celebra ogni capodanno, ha concelebrato la messa solenne del 1 gennaio nella Basilica vaticana e il giorno dopo è stato ricevuto in udienza privata da Giovanni Paolo II. Ha già compiuto degli interventi sulla situazione esplosiva del Venezuela e sul conflitto civile che sta vivendo la Costa d’Avorio. E soprattutto non ha fatto mancare la sua voce su quello che sta succedendo in Medio Oriente. Da qui parte l’intervista che il presule campano ha concesso a 30Giorni.
Eccellenza, come sta seguendo la Santa Sede l’evolversi della crisi irachena, con i venti di guerra che soffiano sempre più impetuosi su Baghdad?
RENATO RAFFAELE MARTINO: C’è grande apprensione. La guerra è distruzione, spargimento di sangue, miseria, espressione di odio. E non risolve niente. Ogni guerra è così. Anche quella annunciata contro l’Iraq.
Eppure un sondaggio condotto a dicembre dall’Università Lemoyne di Syracuse ? Stato di New York ? ha rivelato che i cattolici statunitensi sono in maggioranza favorevoli al conflitto.
MARTINO: Evidentemente si tratta di persone che non hanno mai visto la guerra. Ma se ci sarà l’attacco contro l’Iraq, le conseguenze toccheranno purtroppo anche il popolo americano. E se ne accorgeranno solo dopo, quando vedranno tornare a casa le bare dei propri cari. Perché non cercare di fare veramente di tutto per prevenire questa guerra? Una vera azione preventiva è cercare di non fare la guerra. Del resto la grande manifestazione svoltasi il 18 gennaio a Washington contro la guerra dimostra che anche negli Usa l’opinione pubblica si sta mobilitando e fa sentire la sua voce. Ho saputo che proprio in questi giorni [primi di febbraio, ndr], nell’aeroporto militare di Sigonella sono stati scaricati 100mila sacchi per cadaveri e 6000 bare… Il New York Times poi ha pubblicato un’inserzione di due pagine con l’appello per la pace di intellettuali e artisti che è stato sottoscritto da 45mila persone.
A proposito di manifestazioni pacifiste. Negli ultimi tempi, anche da autorevoli commentatori, viene ripetutamente affermato che il Papa “è per la pace, ma non è un pacifista”…
MARTINO: Di per sé si tratta di una affermazione ovvia. Ma questo non vuol dire che il Papa non sia in sintonia con i tanti cattolici e uomini di buona volontà che manifestano pubblicamente per la pace. Anzi… ricevendo sette nuovi ambasciatori lo scorso 13 dicembre il Papa ha detto: “Volere la pace non è un segno di debolezza, bensì di forza”.
C’è chi ha ipotizzato un suo viaggio, come inviato speciale del Papa, a Washington e Baghdad per scongiurare la guerra. Cosa c’è di vero?
MARTINO: Per ora non è previsto niente di tutto questo. Certo, se la situazione precipitasse, non è da escludere…
Per febbraio, l’ambasciata statunitense presso la Santa Sede ha organizzato un simposio per dimostrare che la cosiddetta “guerra preventiva” è giustificata dal punto di vista della dottrina cattolica. Crede sia possibile questa compatibilità?
MARTINO: No. Le espressioni usate dal Papa nei vari discorsi pronunciati tra dicembre e gennaio sono state chiarissime. Soprattutto in quello al corpo diplomatico del 13 gennaio. A questi discorsi si sono aggiunti interventi di autorevoli esponenti ed organi della Santa Sede che hanno pronunciato in modo univoco un secco no ad ogni ipotesi della cosiddetta “guerra preventiva”. Penso alle dichiarazioni dei cardinali Angelo Sodano e Camillo Ruini, a quelle dell’arcivescovo Jean-Louis Tauran, alla Radio Vaticana, all’Osservatore Romano, alla stessa Civiltà Cattolica che ha dedicato ben due editoriali [quelli del 2 novembre 2002 e del 18 gennaio 2003, ndr] a confutare in linea di principio la fondatezza morale e giuridica della cosiddetta “guerra preventiva”. Ed è bene ricordare che tutti questi interventi non sono stati fatti a titolo personale, né poteva essere altrimenti. La “guerra preventiva” è una guerra di aggressione, non giustificabile dal punto di vista morale e del diritto internazionale. Per intervenire bisogna avere le prove e la guerra deve essere sempre l’ultima ratio, “nel rispetto di ben rigorose condizioni”, come ha esplicitamente ricordato il Papa ai diplomatici il 13 gennaio. Continuava Giovanni Paolo II: “Né vanno trascurate le conseguenze che essa comporta per le popolazioni civili durante e dopo le operazioni militari”.
Eppure si afferma che queste prove esistono.
MARTINO: Non c’è la dimostrazione chiara e lampante che l’Iraq sia tra i responsabili del terrorismo internazionale. Né che sia dotato di armi di distruzione di massa tali da costituire un pericolo imminente per l’umanità. Se ci sono prove serie in questo senso sarebbe bene che venissero prodotte. Come fece ai tempi di John Kennedy l’ambasciatore Usa presso l’Onu, Adlai Stevenson, quando rese pubblici ventisei fotogrammi che documentavano la presenza di missili sovietici a Cuba. Altrimenti affermazioni di questo genere hanno lo stesso valore di quelle contrarie. Gli ispettori dell’Onu in base alla risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza sono là proprio per accertare l’eventuale presenza di armi di distruzione di massa, per distruggerle o renderle inoffensive.
Anche in occasione della guerra del Golfo del ’91, la Santa Sede espresse la sua contrarietà. Quali sono le differenze tra allora e oggi?
MARTINO: All’epoca c’era stata l’invasione di uno Stato sovrano, il Kuwait, e almeno dal punto di vista del diritto internazionale poteva essere considerata giustificata. Oggi no. Credo che non si debba abbandonare un approccio multilaterale alla crisi irachena, come indicato chiaramente nella risoluzione 1441. Quando infatti a decidere non è solo uno Stato ma più governi, è più facile che le soluzioni adottate siano accurate ed eque.
Comunque dopo gli attacchi dell’11 settembre è necessaria una risposta da parte della comunità internazionale…
MARTINO: Certamente. Ma, come ha scritto La Civiltà Cattolica nel suo ultimo editoriale, gli strumenti più adatti a combattere il terrorismo sono la diplomazia e l’intelligence. E non la guerra. E poi bisogna sempre ricordare che per eliminare il fenomeno terribile del terrorismo non basta rendere inoffensivi i singoli terroristi. Bisogna anche che i Paesi ricchi si mettano una mano sulla coscienza e riconoscano quanta responsabilità hanno nei confronti di quelle società, i cui giovani vivono un presente terribile e non hanno una speranza ragionevole per un futuro più dignitoso, anzi sono senza futuro, tanto che per loro vivere o morire è la stessa cosa. Il vivaio del terrorismo si trova in quelle realtà in cui domina la povertà, dove le promesse non sono state mantenute. Penso soprattutto alla situazione permanentemente esplosiva che vive la Terra Santa. La delusione per le promesse non mantenute è grande e non sempre si risolve in rassegnazione… Del resto, quando i Paesi ricchi si atteggiano a donors, anche con le migliori intenzioni, a malapena con quel che donano pagano gli interessi sui debiti accumulati con centinaia di anni di sfruttamento di quelli rimasti poveri.
Alcuni analisti affermano che il terrorismo odierno sia il frutto del fanatismo religioso…
MARTINO: Assolutamente no. Allora dovremmo definire terroristi anche quanti uccidono i medici che procurano gli aborti volontari ? e negli Stati Uniti ci sono stati casi di questo genere ? col paradosso di poter accusare di filoterrorismo anche i semplici pro-life che non hanno commesso alcun delitto… Il fanatismo, il fondamentalismo si trovano dappertutto. Ma non hanno niente a che spartire con la vera religione, col Vangelo, con il Corano, con la Torah. Si tratta di aberrazioni, strumentalizzabili, che si possono trovare in ogni religione.
Quindi non condivide la teoria dello scontro tra civiltà del professor Samuel Huntington…
MARTINO: Il conflitto tra civiltà è possibile, ma come fatto culturale, non religioso. Bisogna distinguere bene le cose. Comunque per evitare questo scontro l’Onu promuove il dialogo tra le civiltà e lo ha fatto con una risoluzione proposta dall’Iran.
Prima di chiederle della sua esperienza al Palazzo di Vetro, un’ultima domanda riguardante il suo nuovo incarico. Lo scorso anno sembrava imminente la pubblicazione, da parte del dicastero che ora presiede, di un compendio della dottrina sociale della Chiesa. A che punto siamo?
MARTINO: Penso che ci sarà un ritardo, dovuto alla mia nomina. Ovviamente non posso firmare nulla che non abbia letto, studiato, corretto. Ci vorrà ancora un po’.
Pensa potrà essere pubblicato nel 2003?
MARTINO: Dipende dal tempo che potrò dedicarvi.
Eccellenza, come può descrivere, in sintesi, il ruolo della Santa Sede nell’Onu?
MARTINO: Bastano poche parole: difesa della vita, difesa della famiglia, difesa della libertà religiosa, azione incessante per la pace nel mondo.
Qual è il ricordo meno piacevole dei 16 anni passati a New York?
MARTINO: Il ricordo più sofferto fu quello legato alla Conferenza sulla popolazione e lo sviluppo svoltasi nel 1994 al Cairo, dove si ebbe uno scontro molto duro con diverse delegazioni, tra cui quella Usa, la quale spingeva affinché l’aborto fosse riconosciuto come un diritto universale. Uno degli esperti statunitensi, poi, l’ex senatore Tim Wirth, ebbe anche atteggiamenti arroganti e irrispettosi. E la mia non è una valutazione esclusivamente soggettiva. Basta leggersi, a riguardo, le memorie dell’allora ambasciatore Usa presso la Santa Sede, Raymond Flynn, pubblicate di recente.
Il ricordo più lieto?
MARTINO: ? sempre legato alla Conferenza del Cairo perché alla fine, con l’appoggio di oltre quaranta delegazioni, riuscimmo a far passare nel documento finale il famoso articolo 8.25 in cui si stabilisce che l’aborto in nessun caso può essere considerato un metodo di pianificazione familiare. Un principio che ha resistito in questi nove anni, nonostante i circoli abortisti abbiano cercato di annullarlo nelle conferenze successive.
Comunque l’attività della Santa Sede non si è “limitata” ai temi riguardanti l’aborto e la contraccezione…
MARTINO: La difesa della vita non riguarda solo la giusta e sacrosanta lotta contro l’aborto. Un altro dei punti qualificanti della presenza della Santa Sede all’Onu è quello di promuovere il disarmo, di appoggiare i tentativi di ridurre il debito estero dei Paesi più poveri e ovviamente la promozione della pace.
Periodicamente hanno un certo risalto sulla stampa le richieste da parte di alcune Ong di espellere la Santa Sede dall’Onu. Si tratta solo di gesti goliardici?
MARTINO: Talleyrand diceva: “Calunnia, calunnia, qualcosa resta”. I gruppi Ong non incidono sulla posizione degli Stati membri. Anzi. Il Congresso Usa, ma anche il Senato cileno e quello filippino, hanno approvato risoluzioni in favore della presenza e del ruolo della Santa Sede nell’Onu e sulla scena internazionale. Questi gruppi comunque hanno una loro pericolosità perché possono influenzare l’opinione pubblica godendo di cospicui finanziamenti da parte di grandi fondazioni. Bisogna stare quindi molto attenti…
La Santa Sede sta pensando di elevare il suo status a membro effettivo dell’Onu?
MARTINO: Vi ha accennato lo stesso cardinale segretario di Stato Angelo Sodano. La questione è allo studio. Attualmente la Santa Sede è l’unica realtà statuale ad avere lo status di osservatore, fino a pochi mesi fa c’era anche la Svizzera. Se vi sarà adesione piena, questa sarà ovviamente nel solco del magistero dei pontificati del secolo scorso. Pensi che lo stesso Benedetto XV era favorevole all’ingresso della Santa Sede nella Società delle Nazioni, ma all’epoca fu l’Italia ad opporsi a questa eventualità. La questione romana non era stata ancora risolta…
Lei ha conosciuto tre segretari generali dell’Onu. Può tracciarne un breve ricordo?
MARTINO: Il primo è stato Pérez de Cuéllar. Rammento che dopo aver avuto due mandati poteva ottenerne un terzo, e gli chiesi se avesse pensato a questa opportunità. Mi rispose: “? meglio chiudere in bellezza…”. In effetti con lui l’Onu riuscì a riportare la pace in alcuni Paesi centroamericani, come il Guatemala, il Salvador e il Nicaragua.
Poi è stata la volta di Boutros-Ghali.
MARTINO: Ghali è sempre stato molto vicino alle posizioni della Santa Sede. Forse avrebbe meritato un secondo mandato. Ma, come è noto, non godeva più della fiducia degli Stati Uniti…
Infine Kofi Annan.
MARTINO: Persona squisitissima, che nonostante le difficoltà ha saputo finora affrontare positivamente i momenti di crisi in Iraq coagulando il multilateralismo e l’interdipendenza. La sua opera in questo senso è apprezzata da tutti. E poi è un vero credente e in particolare confida nell’efficacia della preghiera. A questo proposito vorrei raccontare un episodio illuminante.
Prego.
MARTINO: Erano i primi mesi del 1998, e anche allora spiravano venti di guerra verso l’Iraq. Gli ispettori sarebbero andati via, non cacciati, su iniziativa del loro capo, il signor Richard Butler. Ricordo che un sabato mattina ricevetti una telefonata del cardinale Sodano, il quale mi manifestava la preoccupazione del Papa per la situazione e mi chiedeva di contattare Annan per incoraggiarlo, a suo nome, a recarsi a Baghdad. Tutti ritenevano infatti che un viaggio del genere avrebbe fatto rientrare la crisi. Il giorno dopo, domenica, era in programma la messa del compianto cardinale O’Connor, l’allora arcivescovo di New York, per la celebrazione della Giornata della pace, alla quale avrebbe partecipato anche Annan. Approfittai dell’occasione per comunicargli oralmente il messaggio del Pontefice. Mi rispose che al momento non c’erano le condizioni per andare a Baghdad, mancando il consenso nel Consiglio di sicurezza, ma aggiunse che, siccome era il Papa a chiederlo, avrebbe fatto un ulteriore tentativo. Il mercoledì seguente, a sorpresa, Annan mi telefonò, e mi disse: “Domani parto, però chieda al Santo Padre di pregare per questa mia missione”. Annan si recò a Baghdad, parlò con Saddam ? senza arroganza ? e la crisi rientrò. Ma il fatto più commovente fu che all’uscita di quel colloquio decisivo, Annan disse pubblicamente: “Non bisogna sottovalutare il valore della preghiera”. E la stessa frase la ripetè giorni dopo al Palazzo di Vetro.
Cosa le ha detto Annan prima di lasciarla partire per Roma?
MARTINO: Mi ha salutato con questa parole: “Quanto mi dispiace che parta, perché quando vedo lei mi rassicuro, in quanto so che è una persona che prega per me”.
E lei cosa ha risposto?
MARTINO: L’ho rassicurato: “Non si preoccupi, continuerò a pregare per lei. E anche il mio successore, Celestino Migliore, lo farà”. (“30 Giorni”, febbraio 2003)