Alcune perle dal Museo: l’uomo differisce dalle scimmie, è
loro superiore (oso usare questo vocabolo non “scientifico”), per la
lunghezza del pene. Ma come mai? “Una delle ipotesi plausibili,
sostiene la didascalia, afferma che anche il pene dell’uomo sarebbe
diventato un organo da parata, come la coda del pavone o la criniera
del leone: una buona erezione segnalerebbe alla femmina la buona
salute
del maschio”. Insomma, una brava moglie, prima di sposarsi, dovrebbe
misurare col metro la lunghezza del membro del compagno: per il bene
della specie, chiaramente!
Sempre sull’amore: “Da un punto di vista evolutivo l’infedeltà è
vantaggiosa in quanto permette a un individuo di riprodursi di più”.
Categoria: Scienza
Progetto o beffardo scarabocchio?
Il dibattito sull’origine della vita e sull’origine dell’uomo, per fortuna, appassiona anche oggi e coinvolge tutti, uomini e donne, senza distinzione di età, di cultura o di religione.
Si tratta di un tema fondamentale per le ricadute importanti sul senso stesso dell’esistenza che ciascuno di noi trascorre, sia pur per breve tempo, su questo pianeta.
Non vale appellarsi all'”ipse dixit”: credo che in questo campo ci si debba appellare prima di tutto alla ragione e alla sua capacità di conoscere: la posta in gioco è troppo alta per poter delegare o, peggio ancora, per rinunciare a pensare.
La datazione dei fossili e delle rocce del nostro pianeta esclude la possibilità della creazione del sistema solare e della vita 6000 anni fa, come sostengono i “creazionisti fondamentalisti”, ma non esclude, di per sé, l’intervento di un Creatore, in tempi e modalità differenti.
L’ipotesi dell’evoluzione biologica non possiede, a mio avviso, dati e argomenti sufficienti a soddisfare le esigenze della nostra ragione.
Secondo tale ipotesi le farfalle, le balene, i cedri e gli uomini derivano da un antenato comune.
Questo antenato è costituito da un gruzzolo di atomi di carbonio, un gruzzolo di atomi di idrogeno, un pizzico di ossigeno e di azoto che, mescolati e ricombinati insieme in una pozza d’acqua di oltre tre miliardi di anni fa, sono diventati “viventi”, cioè capaci di metabolismo e di riproduzione, confinando la loro “novità” all’interno di una membrana, anch’essa vivente.
Senza alcun progetto preesitente, senza alcuna finalità, senza alcun potere previsionale sul loro futuro, senza poter ripetere il prodigio, queste molecole hanno dato inizio, a loro insaputa, al meraviglioso capitolo della biologia sulla Terra.
Per almeno tre miliardi di anni non hanno incontrato nessuno che fosse in grado di dare loro un nome e di riconoscere il merito che hanno avuto, rischiando anche di restare ignorate per sempre, perché l’uomo avrebbe potuto benissimo non apparire mai.
Non solo l’uomo, ma anche il cuore, i reni, il fegato, l’utero, le ali dell’aquila, le vertebre del serpente, il marsupio del canguro, l’occhio di un falco… tutto avrebbe potuto non accadere.
Se è accaduto, lo dobbiamo solo alla variabilità del materiale genetico e dell’ambiente.
“E’ stato l’ambiente a fare l’uomo e senza questo evento (la siccità in Africa tropicale) il genere Homo non avrebbe avuto alcun motivo di comparire, almeno lì e in quel momento” (Yves Coppens, Histoire de l’homme et changements climatiques, tr. Italiana Jaca Book, 2007).
La nostra ragione deve rassegnarsi: non c’è disegno, non c’è finalità, non c’è nulla di che stupirsi: tutte le “forme” della vita, compresa la nostra, sono un prodotto secondario dei cambiamenti climatici, quasi un effetto collaterale della scienza metereologica.
Eppure rimaniamo (come me, spero tanti…) ancora insoddisfatti da questa risposta; non sappiamo darci pace all’idea che per fare un computer ci voglia un ingegnere, ma che per fare un’aquila basti una bava di vento che la sollevi e che per fare un uomo basti un po’ di caldo e di siccità che lo costringa ad alzare la testa per vedere lo skyline sopra l’erba della savana.
In realtà, la macroevoluzione, ovvero la nascita delle differenti forme di classi di esseri viventi, non ha una spiegazione soddisfacente non perché dobbiamo aspettare ancora nuove ricerche, ma perché l’errore casuale (la mutazione) e la selezione dell’ambiente di vita non possiedono capacità morfogenetiche.
Detto in altre parole, le informazioni per costruire una colonna vertebrale all’interno di un corpo non possono ragionevolmente derivare da “errori” del DNA, perché sono di una complessità tendente all’infinito e come tale esige di essere trattata in termini di software e di brevetto.
Per “fare” la famosa giraffa, non basta allungare il collo, ma bisogna potenziare il cuore per spingere il sangue fin lassù, bisogna coordinare il movimento di tutti i muscoli, allungare i nervi, proporzionare le zampe e tutto nello stesso istante, altrimenti non “funziona” nulla.
Ogni volta cioè che si “ritocca” una parte di un organismo, si deve modificarlo tutto, perché un essere vivente non è un puzzle, ma una “complessità irriducibile” (un sistema la cui funzionalità non è presente nelle singole componenti, ma deriva dalla loro sinergìa).
L’inadeguatezza dei geni per spiegare le “forme” degli esseri viventi ha infatti fatto nascere recentemente un nuovo filone di ricerca che si spinge a cercare nuove risposte all’interno della biologia dello sviluppo (evolutionary developmental biology, evo-devo in sigla), cioè cambiando il punto di osservazione. Non più i geni, ma lo sviluppo dell’embrione.
La strada intrapresa è solo all’inizio, ma la dice lunga sulla pretesa di aver spiegato la vita a suon di mutazioni casuali e di clima variabile e volubile.
L’esplosione di quasi tutte le forme di vita nel Cambiano, nell’arco di soli 5-10 milioni di anni, ha inferto un duro colpo all’ipotesi dell’evoluzione graduale: prima compaiono tutte le grandi “architetture” e poi queste si differenziano nei dettagli.
L’evoluzione prevede un percorso esattamente opposto per la vita: le piccole variazioni sui dettagli portano, accumulandosi in tempi geologici, a differenze macroscopiche.
Le reazioni biochimiche che accadono in ogni singola cellula del corpo, perfettamente sincronizzate tra loro, coordinate nei reagenti, negli intermedi e nei prodotti finali, controllate continuamente dal fabbisogno reale di ogni molecola, costituiscono quella “complessità” che non si lascia “ridurre” ad alcuna delle sue componenti, perché postula quel surplus di “informazione” che solo è in grado di dare senso al sistema.
L’evoluzione della biochimica della cellula è ancora territorio vergine, ma la sensazione che lo scienziato ricava è che sia un’impresa senza senso: siamo in presenza di un disegno e non di un beffardo scarabocchio.
Credo che ogni tentativo di escludere l’idea di un “progetto” per la vita e per le sue forme mortifichi la ragione, che non sa accettare che una natura senza senso abbia potuto generare quell’ordine e quella logica che la animano quando pensa e indaga.
Umberto Fasol (biologo)
Odio gratuito e inverecondo.
Ugo Morelli, che evidentemente si arrabbia se qualcuno non lo considera solo una scimmia senza peli, ha sfogato oggi il suo odio sulla I del Corriere, riferendosi a noi così: ” Ma allora, se la cosa riguarda qualche nucleo integralista che sceglie di non vedere e propone l’oscurantismo, perchè occuparsene? E’ importante occuparsene perchè quelle posizioni oscurantiste, che offendono in primo luogo l’intelligenza umana (ma non è come quella delle scimmie?ndr) scegliendo l’ignoranza come progetto, rischiano di affermarsi nel penoso clima culturale in cui versano il paese e le sue realtà culturali da qualche tempo”. Ora, ripetizioni a parte, non saranno queste formidabili riflessioni a spaventarci….Gli intolleranti abbondano, purtroppo.
Il dogma evoluzionista
Trovo sconcertante che da parte di soggetti che si definiscono tutori della scienza, vi sia un’incapacità così marcata di alterare i dati della ragione, mescolando i piani della riflessione, affermando o suggerendo astutamente come Libertà e Persona persegua l’idea del creazionismo o addirittura del letteralismo per quanto riguarda l’interpretazione della Sacra scrittura.
Personalmente dopo gli studi in Sociologia, Scienze religiose e filosofia credo di possedere gli strumenti per valutare in modo equilibrato i risultati della moderna esegesi senza peraltro considerarli infallibili. Farci passare per dei fondamentalisti è ridicolo. Le guide della mostra ” La scimmia nuda” che con civismo hanno partecipato al nostro incontro, di fatto non hanno saputo contrapporre alle nostre osservazioni argomenti convincenti, anzi, in taluni interventi hanno rettificato certe idee distorte sulla presunta e lapalissiana derivazione dell’uomo dalla scimmia. Hanno inoltre ammesso che il cervello è un mistero. Per parte nostra, dati alla mano, con il supporto di autorevolissimi referenti abbiamo posto in rilievo l’improponibilità del caso quale origine, 1 dell’essere, 2 della vita, 3 dell’ordine finalistico della natura. Abbiamo inoltre rilevato come a dire di linguisti quali Chomski, il linguaggio non possa essersi prodotto per via evolutiva.
Noi non abbiamo proposto letture di tipo religioso e non abbiamo neppure esposto una qualche teoria alternativa all’evoluzionismo, che pur con i suoi limiti rappresenta la teoria scientifica più accreditata per la spiegazione della varietà delle specie viventi.
Abbiamo invece allargato lo sguardo uscendo dal dogmatismo, rilevando come persino nell’ambito degli studiosi neodarwiniani vengano proposte molteplici ipotesi, senza peraltro tacere delle incogruenze presenti dentro la teoria dell’evoluzione stessa.
Di cosa abbiamo paura? del conformismo, del pensiero unico, della componente ideologica che spesso muove anche la divulgazione scientifica.
Se esiste un fondamentalismo esso ha il volto dell’intollerante deriva laicista che non ammette altra verità che la materia e chiama integralisti tutti coloro che sollevano qualche dubbio. Desta peraltro amarezza la presa di posizione di Autiero, che pur qualche rapporto con la fede cristiana ha contratto durante la propria vita. Nel suo intervento rivela di non conoscere i termini del contendere, di non conoscere Libertà e Persona, di sottovalutare la funzione ideologica della tematica evoluzionistica quand’essa venga piegata a finalità che intendono mutare l’antropologia stessa e con ciò persino il senso della vita. E tutto questo subdolamente, mescolando verità e menzogna, dati scientifici e opinioni personali. Inoltre, Autiero, secondo l’uso oramai consueto di un certo cattolicesimo progressista, resta defilato, non prende posizione e quand’anche qualcosa si cerchi di desumere dal suo intervento, è evidente come egli non si sforzi neppure di conoscere le ragioni di chi condivide la sua stessa fede. Tutt’altro: egli, oltre ad assumere il tono dell’equilibrato paciere, sciorina una serie di ovvietà sulla necessità del dialogo. Inoltre, seppur non esplicitamente, ci invita a leggere la Bibbia secondo i dettami della moderna esegesi. Lezioni di questo tipo, con tutto il rispetto, le rimandiamo al mittente.
Non si strumentalizzi inoltre, l’alto magistero di Giovanni Paolo II affermando come egli abbia dato per scontato l’evoluzionismo. Il grande Papa infatti ha altresì ribadito la razionalità del creato, l’unicità dell’uomo, negando altresì l’ipotesi del caso e del cieco e fortuito prodursi dell’universo.
Questa è l’ipotesi che noi rigettiamo, perché irrazionale, perché indimostrabile. E’ bene che i cattolici e i credenti in qualsiasi Dio prendano coscienza che l’evoluzionismo può persino confermare e rafforzare l’ipotesi del creatore, ma non nella versione darwinista che noi rigettiamo per motivi razionali e di incompatibilità con l’esistenza di un creatore.
Si tranquillizzino i nostri critici, non molleremo l’osso, torneremo con nuove iniziative, articolate e sostenute da autorevolissimi relatori, scienziati, filosofi, teologi.
Facciamo chiarezza
Ultimamente in difesa del dogma evoluzionista si è tirato in ballo persino Giovanni Paolo II. Si legga quanto segue.
Sch?nborn chiede all’Europa di cominciare a discutere il Darwinismo
di Mihael Georgiev – 01/08/2005
In un recente editoriale, pubblicato su New York Times il 7 luglio 2005, l’arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Sch?nborn ha attaccato la teoria dell’evoluzione chiamandola un “dogma”. (http://www.afterthefuture.net/Mainlinks/Article%20Links/Schonborn.html). Il cardinale austriaco è stato allievo del cardinale Joseph Ratzinger ed è membro della Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta per oltre 24 anni dallo stesso Ratzinger.
Per il cardinale l’idea della presunta “accettazione – o quanto meno acquiescenza” da parte della Chiesa cattolica nei confronti della teoria dell’evoluzione, è basata su una lettera inviata da Giovanni Paolo II nel 1996, nella quale il papa dichiarava che “l’evoluzione è più di una mera ipotesi”. Sch?nborn nota che tale dichiarazione, definita “vaga e priva di importanza”, è sempre citata, mentre non sono citate altre dichiarazioni di Giovanni Paolo II, nelle quali egli aveva espresso meglio ed in modo più approfondito il suo pensiero sulla natura.
La prima, quella fatta durante una udienza generale del 1985, quando il papa dichiarava che “Tutte le osservazioni sullo sviluppo della vita portano ad una simile conclusione. L’evoluzione degli esseri viventi, della quale la scienza cerca di determinare le fasi e scoprire i meccanismo, presenta una finalità intrinseca che provoca l’ammirazione. Tale finalità che guida gli esseri in una direzione della quale essi non sono responsabili o fautori, ci obbliga a supporre una Mente che è il suo inventore, il suo creatore. A tutte queste indicazioni per l’esistenza di Dio Creatore, alcuni oppongono la forza del caso o dei meccanismi propri della materia. Parlare di caso per un universo che presenta una organizzazione così complessa dei suoi elementi ed una finalità così meravigliosa nella sua vita, equivarrebbe a rinunciare alla ricerca di una spiegazione del mondo che conosciamo. Infatti sarebbe equivalente all’ammettere effetti senza causa. Sarebbe come rinunciare all’intelligenza umana, che a questo punto si rifiuterebbe di pensare e cercare la soluzione dei suoi problemi.” Ed un anno più tardi Giovanni Paolo II concludeva che “? chiaro che la verità della fede sulla creazione è radicalmente opposta alle teorie della filosofia materialista, che considerano il cosmo il risultato di una evoluzione della materia, riducibile al puro caso e alla pura necessità.”
Per sgombrare il campo da eventuali equivoci, il cardinale Sch?nborn ricorda che il catechismo della Chiesa – del quale egli è stato l’editore ufficiale nel 1992 – è abbastanza chiaro sul tema: “L’intelligenza umana è ormai sicuramente in grado di trovare una risposta al problema delle origini. L’esistenza di Dio Creatore può essere conosciuta con certezza nelle sue opere, mediante la ragione umana. Noi crediamo che Dio ha creato il mondo secondo la sua saggezza. Il mondo non è il prodotto di una necessità, e nemmeno di un destino cieco o del caso.”
Il Cardinale Sch?nborn lamenta anche che fonti evoluzioniste hanno cercato di descrivere il nuovo papa Benedetto XVI come un “evoluzionista soddisfato”, citando una sentenza su “l’origine comune” in un documento del 2004 della Commissione Teologica Internazionale, quando Benedetto XVI – allora cardinale Ratzinger – era presidente della Commissione. Ma in quel documento la Commissione affermava che “la lettera (di Giovanni Paolo II del 1996) non può essere interpretata come una approvazione in bianco di tutte le teorie dell’evoluzione, includendo quelle neo-Darwiniste che negano esplicitamente la divina provvidenza ed il suo ruolo causale nello sviluppo della vita nell’universo.” Non solo, ma secondo quel documento “una evoluzione non guidata – una al di fuori dei limiti della divina provvidenza – semplicemente non può esistere.” Il cardinale Sch?nborn a questo punto nota che Benedetto XVI, nella sua omelia pronunciata in piazza San Pietro il 24 aprile 2005 alla Messa per l’inizio ufficiale del suo pontificato dichiarava: “Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione” (http://www.zenit.org/italian, codice ZI05042401).
Il cardinale conclude che “all’inizio del 21? secolo, messa di fronte ad affermazioni scientifiche come il neo-Darwinismo e l’ipotesi cosmologica del multiverso – inventate per evitare le schiaccianti prove trovate dalla scienza moderna, che indicano scopo e progetto – la Chiesa cattolica difenderà ancora una volta la ragione umana, proclamando che il progetto insito nella natura è reale. Le teorie scientifiche che cercano di scartare il progetto in favore del “caso e la necessità” non sono affatto scientifiche, ma, come detto da Giovanni Paolo II, una “abdicazione dell’intelligenza umana”.
L’editoriale riassunto sopra ha avuto un seguito sul settimanale Time del 1 Agosto 2005, dove è pubblicata un’intervista allo stesso Sch?nborn. Il cardinale si dichiara particolarmente contento della risonanza che il suo editoriale ha avuto in Europa, e afferma che è stato lo stesso Ratzinger ad incoraggiarlo, lo scorso anno, ad affrontare l’argomento dell’evoluzione. Anche se di questo non si è parlato dopo l’elezione del nuovo Pontefice, Sch?nborn è convinto che papa Benedetto XVI vuole che il dibattito sull’evoluzione diventi pubblico. E poiché, secondo il cardinale, l’Europa è “Cristofobica”, ci vorrà del tempo prima di convincere – persino i fedeli – a dubitare di Darwin.
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Con l’editoriale e la successiva intervista del cardinale Sch?nborn, la Chiesa cattolica per la prima volta sembra concedere il proprio patrocinio al movimento “Intelligent Design”, nato negli USA nei primi anni novanta. Per molti decenni, infatti, la Chiesa cattolica non ha fatto parte attiva del dibattito creazione/evoluzione, ma è rimasta nel ruolo dello spettatore. Ora il vento sembra cambiato e la Chiesa sembra pronta ad entrare nel dibattito.
Il pontificato di Giovanni Paolo II aveva probabilmente la priorità di ricucire lo “strappo” tra la Chiesa ed il mondo scientifico, culminato con il processo a Galileo. Papa Giovanni Paolo II ha infatti revisionato – dopo ben 400 anni – quel processo. Quattro secoli possono sembrare tanti. Ma la Chiesa cattolica, forte della sua millenaria storia, probabilmente non ha fretta. Il pontificato di Benedetto XVI sembra invece avere un’altra priorità, quella di ribadire il rifiuto della filosofia materialista e delle teorie scientifiche ad essa collegate, in primo luogo quella dell’evoluzione. Questa non è una sorpresa, conoscendo la posizione di Benedetto XVI sull’argomento.
L’editoriale di Sch?nborn non deve comunque illudere i creazionisti biblici: il racconto biblico sulle origini non è commentato, ci si ferma solo ad affermare che le teorie materialiste sulle origini non sono scienza, ma dogma (travestito da scienza). Si tratta di una distinzione dalle conseguenze importanti: il cardinale dichiara al Time di “credere nei dogmi della fede, ma non in quelli della scienza”.
Sito a cura dell’A.I.S.O. Associazione
L’ibrido uomo-scimmia, uomo coniglio….
La foto che giganteggia alla presentazione della mostra La scimmia nuda è quella di un ibrido tra uomo e scimmia. Si tratta solo di fantasia? No, sappiamo che da parecchi anni nei laboratori americani, cinesi, coreani ecc vi sono scienziati che mescolano materiale genetico umano con materiale genetico animale. La stampa e internet sono pieni di questi casi. Ora la mostra di Trento, eqiparando totalemente animali e uomini, giustifica implicitamente tali ibridi. Come fanno coerentemente tanti altri: “Nel 1987, la stampa italiana dedicò spazio a quello che venne battezzato l'”uomo-scimmia”.
Il professor Brunetto Chiarelli, ordinario di Antropologia all’Università di Firenze, affermò che la vicinanza genetica tra uomo e scimpanzè, unita alle moderne tecniche della procreazione artificiale, rendeva possibile la generazione di nuove chimere, di ibridi che sono un po’ uomo e un po’ scimmia, e possono essere adibiti a compiti sgradevoli o a serbatoio di organi da trapiantare negli umani.
Ciò poteva avvenire, disse, unendo in vitro ovociti di scimpanzè con seme umano.
Il dibattito sulla stampa si concentrò: 1) sulla questione se tale creazione di un ibrido androide era già avvenuta nella realtà o no; 2) sulla liceità di questo tipo di operazione.
I commenti furono negativi, sia da parte della morale tradizionale e cattolica, sia da parte di alcune voci “animaliste”.
? giusto condannare l’idea che era dietro l’intervento di Chiarelli, cioè lo scopo di creare una nuova razza di schiavi. Ma nei commenti di alcuni “animalisti” c’era di più, c’era l’espressione di una ripugnanza per questo possibile umanoide. Qui è dove, a mio avviso, gli “animalisti” hanno cessato di esserlo, e hanno manifestato per questa possibilità di incrocio un atteggiamento non dissimile a quello di chi un secolo fa si opponeva ai matrimoni misti e alle unioni sessuali tra bianchi e neri.
La specie non è una barriera, un limite invalicabile. Sul piano biologico, molte specie animali sono affini e possono riprodursi assieme: è il caso, per esempio, di leoni e tigri, di asini e cavalli. I nati da questi accoppiamenti inter-specifici sopravvivono il più delle volte, anche se spesso sono a loro volta sterili, e non danno vita a una nuova generazione.
La specie umana e la specie degli scimpanzè condividono il 98,5 % del proprio patrimonio genetico, una percentuale molto alta. Basti pensare che cavalli e asini, due specie il cui accoppiamento inter-specie è ben noto da molto tempo e ben riuscito, hanno in comune il 95% del proprio DNA, dunque assai meno. Quindi non vi è ragione biologica per cui non si possano accoppiare e dare vita a un incrocio. Posso immaginare che lo stesso valga anche per le altre specie di scimmie antropomorfe, quelle che in inglese si chiamano “great apes” (grandi primati): gorilla, orango e scimpanzè pigmeo (bonobo). Queste sono le specie vicinissime all’uomo per DNA.
La possibilità di questo ibrido tra un umano e un altro primate non solo non mi sembra affatto ripugnante, ma anzi vi vedo la dimostrazione concreta, letteralmente in carne e ossa, di come la barriera della specie, che gli umani hanno eretto in etica, è artificiale e arbitraria.
In questo ibrido si vede la forma palpabile, l’espressione vivente dell’anti-specismo.
Pensiamo a queste frasi di Sabino Acquaviva sull'”Espresso” del 24 maggio 1987: “Un tempo la natura umana era qualche cosa di preciso, o quasi… Ma ora? Dove mai finisce quest’uomo e dove comincia l’animale?”.
Questo è esattamente il punto critico.
Che cosa sarebbe l’ibrido, l'”uomo-scimmia”? Non ci sono problemi a definirlo biologicamente, praticamente l’abbiamo già fatto dandogli questi nomi. Il vero problema che sorge è quello etico. Perché il vero problema sarebbe come trattarlo: da uomo, o da animale? Questi sono i due grandi reami della nostra morale. Un essere che si pone a cavalcione tra i due sconvolge tutto il nostro sistema etico dalle fondamenta.
Questo è il significato della domanda che Marco Tosatti su “La Stampa” del 12 maggio 1987 rivolge al gesuita Padre Kiely: “Lo ‘scimpanzuomo’ avrebbe un’anima?”.
E sempre sull'”Espresso” del 24 maggio 1987, Giovanni Forti e Giovanni Maria Pace scrivono: “La proposta del professor Chiarelli ha suscitato irritazione ma soprattutto scandalo, forse perché viola tabù molto radicati, tra cui quello della unicità dell’uomo nel creato.”
E infatti è stata rifiutata su base specista, anche da personaggi come Gianni Vattimo e l'”animalista” Luisella Battaglia.
Mi stupisce che nessuno sembri aver capito che l’ibrido di umano e non-umano, non importa se esistente ma puramente possibile, deve far riconoscere che un sistema morale che usa la specie come barriera, come linea di demarcazione, è indifendibile.
Per rendersene conto, basta chiedersi che trattamento dovrebbe ricevere questo essere, e che “diritti” dovrebbero essergli riconosciuti. ”
La scimmia nuda e Cristo
La nostra epoca conserva uno spirito, un sentire comune? Dove risiede la tradizione di un popolo, lo stigma che lo caratterizza e lo distingue? Siamo ancora in grado di riconoscere la nostra specificità?
L’uomo è il vertice della creazione o il prodotto casuale dell’evoluzione ? In esso possiamo riconoscere il luogo dove la volontà creatrice di Dio ha condensato il fine dell’intero progetto?
A leggere i commenti rilasciati dal naturalista Mario Tozzi, in un’intervista apparsa in un inserto del quotidiano l’Adige, le cose paiono volgere in una direzione sostanzialmente materialista.
Tozzi è stato interpellato con riferimento alla mostra ” La scimmia nuda”, inaugurata presso il museo di scienze naturali a Trento.
La mostra – che resterà per molti mesi a Trento – vuole ricollocare l’uomo nel proprio habitat più opportuno, ovverosia la natura, mostrando come lo stesso non sia nulla più di una scimmia evoluta.
I curatori della mostra però si sono ben guardati dal formulare simili affermazioni, piuttosto hanno strizzato l’occhio ad una nebulosa dimensione umanistica -oltreché scientifica- cui la mostra si richiamerebbe. A conforto di tali propositi sui giornali abbiamo letto di come la teologia cattolica più avveduta riconosca senza alcun problema l’ipotesi evoluzionistica.
Quando però sentiamo dichiarazioni di questo tipo: ” l’uomo non è il vertice dell’evoluzione…. egli appartiene al regno animale, quella umana non è che una specie fra le tante”- questa è grosso modo la tesi di Tozzi- allora qualche dubbio sorge. Si tratta del sospetto che dietro l’apparente neutralismo, dietro lo sbandierato rigore scientifico della mostra, si celi una sottile motivazione ideologica. Quella di ridurre l’uomo ad prodotto casuale, frutto fortuito dell’evoluzione.
Non voglio analizzare gli argomenti che i teorici dell’evoluzionismo propongono; ad essi possono essere affiancati i molti buchi e le molte lacune che caratterizzano tale teoria.
Basti qui osservare come l’idea evoluzionistica si sfaldi nel momento in cui è costretta a confrontarsi con l’origine, con la causa prima, quella causa che ha tratto il mondo dal nulla.
Non solo, se ci peritassimo di verificare quante probabilità avesse il mondo di evolvere e di strutturarsi secondo l’ordine meraviglioso che lo caratterizza, credo ci stupiremmo e considereremmo l’ipotesi del caso come assolutamente irragionevole.
Simulazioni al computer hanno dimostrato come la provabilità che il mondo abbia avuto origine dal caso, sia la stessa che la Divina Commedia derivi dal battere a caso i tasti di un computer da parte di una scimmia (Scienza e Fede mimep docete, Pessano,1995, pag.13). Persino uno studioso dichiaratamente ateo come l’astrofisico Stepen Hawking ha dichiarato: “le leggi della scienza, quali le conosciamo oggi, contengono molteplici numeri fondamentali … il fatto degno di nota è che i valori di questi numeri sembrano essere stati esattamente coordinati per rendere possibile lo sviluppo della vita” ( Dal Big Bang ai buchi neri, Bur, Milano, 1997, pag.147).
Insomma anche uno scienziato che non riconosce la presenza del creatore è costretto ad ammettere l’assoluta improbabilità di un mondo frutto del caso.
Pensiamo solamente al contenuto di una cellula vivente: 53 miliardi di molecole proteiche, 166 miliardi di molecole lipidiche, 2900 miliardi di piccole molecole, 250.000 miliardi di molecole di acqua e in più gli acidi nucleici.
E’ interessante ricordare anche le parole di un grande esperto di fisica teorica, Grichka Bogdanov : ” affinché la formazione dei nucleotidi porti per caso alla elaborazione del Dna, utilizzabile, sarebbe stato necessario che la natura moltiplicasse i tentativi a casaccio nello spazio di almeno un milione di miliardi di anni, il che è un tempo 100.000 volte superiore dell’età di tutto il nostro universo.”
Credo questi esempi siano sufficienti per allargare la nostra capacità di lettura e confronto con la vulgata materialista.
Se dunque il caso non può spiegare lo strutturarsi del mondo – posto che ci si lasci interrogare senza pregiudizio dalla ragione – esso non può neppure spiegare la varietà del creato. Negli ultimi anni tra l’altro si sono affacciati sulla scena degli studi dei pensatori liberi svincolati dalle logiche accademiche . In un bel testo dal titolo L’errore di Darwin, viene addirittura posta in discussione l’età dell’universo. L’autore sostiene infatti che le datazioni sin qui proposte spostino l’origine troppo in là nel tempo. Oltre ad un corposo insieme di dati Zillmer presenta l’impronta fossile di un dinosauro accanto a quella di un essere umano. Se le tesi di Zillmer fossero vere l’evoluzionismo verrebbe minato alla radice.
Ma per comprendere l’elemento ideologico che traspare dalle parole di Tozzi basti osservare come non abbia alcun senso asserire che l’uomo non sia il vertice dell’evoluzione; negare questo dato elementare equivale a negare che un calcolatore elettronico sia il vertice di un’evoluzione che passando per il conteggio sulle dita e il pallottoliere arriva sino a noi.
E cosa pensare dell’affermazione che vorrebbe ridurre l’uomo ad un semplice animale? Tolta l’ipotesi di Dio le cose non potrebbero essere che queste. Ma allora cos’è la mente e la produzione del pensiero che ci distingue radicalmente da ogni altro essere vivente? Come possono i materialisti credere che le produzioni dello spirito siano il frutto della materia, di reazioni biochimiche, neuronali. La materia non può “produrre che se stessa”, il cervello semmai è la struttura che rende possibile l’operare dello spirito. Nessuno di noi infatti, vedendo la luce che entra da una finestra penserà che essa sia prodotta dal vetro, piuttosto dovrà ammettere che il vetro consente alla la luce di rivelarsi e di illuminare. Come argutamente osserva l’ing. Angelo Belussi sul numero 62 del Timone- Aprile 2007- : “la mente è un’entità spirituale, cioè sfugge alla valutazione in termini di concretezza fisica, è immateriale pur essendo inserita nella realtà, che è in grado di condizionare enormemente.” La mente, detto in altre parole, si distingue dalla dimensione materiale rappresentata dal cervello, ascoltiamo ancora Belassi: ” le prerogative fondamentali della mente, ciascuna delle quali si articola in molteplici aspetti particolari, sono: l’autocoscienza; la volontà; la memoria secondaria, la capacità di utilizzo di parametri valutativi innati che le consentono di apprezzare la bellezza, l’armonia. Il cervello invece consiste in una serie di apparati di natura totalmente fisica.”
A queste considerazioni ne va aggiunta un’altra, il fatto che la mente “ha la facoltà di intervenire sugli assetti neurologici del cervello, apportando loro notevoli modificazioni anatomiche e funzionali. Questo fenomeno, definito plasticità del cervello, comporta l’instaurazione di nuove ramificazioni, aggiunte a quelle già esistenti nel patrimonio genetico originario(…). In definitiva la distinzione fra mente e cervello è paragonabile a quella tra tecnico informatico e computer o tra pilota e vettura.”
Le indagini effettuate sul cervello attraverso i moderni microscopi a scansione rilevano come non esista nulla che possa anche remotamente spiegare le funzioni della mente.
Ma vi è un fatto ancor più interessante reso noto ancora dall’ing. Belassi: ” Ci sono casi in cui una persona, per malattia o un trauma, subisce una parziale compromissione della corteccia cerebrale, con conseguente amnesia più o meno marcata; ma poi -sia pure in tempi talvolta prolungati- si verifica la piena riacquisizione della memoria. Questo fatto avviene perché alcuni moduli corticali sono in grado di procedere alla formazione di nuovi circuiti, sostitutivi di quelli distrutti”.
Questo fatto attesta che i neuroni non sono la sede della memoria secondaria, con buona pace dei materialisti; infatti il tessuto neuronale distrutto -se fosse la sede di detta memoria- dovrebbe aver smarrito i dati in esso memorizzati, in realtà come dianzi detto ciò non accade.
Dunque, pure ammettendo che all’atto originario creativo di Dio segua l’evoluzione, così come le varie scuole evoluzionistiche si sforzano di mostrare, dovremmo comunque affermare che in un dato momento di quella che noi chiamiamo storia- ma che per Dio è solo un istante- si siano create le condizioni affinché la vita potesse prendere consapevolezza di se stessa. E’ questo l’attimo in cui emerge l’uomo. Da quest’istante l’essere umano non solo pensa se stesso ma pure Dio.
Questa è la differenza abissale fra l’uomo e l’animale, con buona pace di tutti i riduzionisti che sembrano desiderare tornare alla caverna per recuperare la propria radice prima.
Non è forse oggi, particolarmente viva in tanti ambienti “progressisti” una deriva primitivista, fatta di istinto, irrazionalità, disimpegno, vivere alla giornata.
Un primitivismo che vorrebbe legittimare i rapporti plurimi fra uomo e donna, la poligamia, la pedofilia, il diritto al sesso sicuro, la droga, lo sballo, l’assenza di ogni tradizione, radice.
Si tratta della stessa linea evolutiva che esalta il diritto a non avere figli, ad una vita senza l’onere dell’impegno, del sacrifico, persino dell’amore.
E agli illuminati cattolici che scuotono indifferenti le spalle di fronte alle celebrazioni del darwinismo e dell’animalismo, cosa rispondere?
Se l’uomo non è che una bestia stupidamente consapevole di sé, vittima della propria libertà, succube della propria coscienza, che significato ha l’incarnazione?
Chi è Cristo davanti alla scimmia nuda? Valeva la pena soffrisse e morisse per un semplice primate senza futuro?
La croce, la svastica e lo scienziato Fred Hoyle.
Nella Germania nazista la croce è sostituita dovunque dalla croce uncinata, o svastica, cioè da un simbolo solare induista (e non solo), che richiama l’eterno divenire delle cose, la concezione di un tempo ciclico, che si ripete di continuo, come un serpente che si morde la coda. Nell’ideologia nazista infatti confluiscono sincretisticamente filosofie e religioni precristiane, tutte, al fondo, panteiste, cioè fondate sull’idea dell’eternità e della divinità del mondo. La svastica è anche simbolo che richiama la reincarnazione: anche l’uomo non fa che ripetersi, in involucri diversi. Coerentemente Adolf Hitler, credendo nella svastica e nella reincarnazione, era un rigido vegetariano. La croce cristiana non poteva piacergli: essa non gira, stat crux dum volvitur orbis, e simboleggia il tempo lineare, l’incontro tra una verticale, Dio, e una orizzontale, la terra, l’uomo. Al centro vi è Cristo, Dio e uomo: come lui, gli uomini sono destinati non alla reincarnazione, impersonale vagabondaggio senza significato, ma alla resurrezione, glorioso trionfo della nostra unicità spirituale e corporea. Questa introduzione può aiutare a capire la discordanza che ci può essere, anche tra scienziati, su una particolare ipotesi cosmogonica, a partire da filosofie differenti. Agli inizi del Novecento un gesuita, Georges Lemaitre, teorizza la nascita dell’universo da un “atomo primordiale”. “Questa faccenda – gli dirà Einstein – somiglia troppo alla Genesi, si vede bene che siete un prete…”. Anche Einstein infatti fu per un certo tempo convinto che “l’universo non avesse storia, fosse eterno e infinito”, benché la stessa teoria della relatività fosse in disaccordo con una simile credenza (Franco Prattico, Dal caos…alla coscienza, Laterza). Un altro celebre scienziato, Fred Hoyle, ribattezzò la teoria di Lemaitre in modo dispregiativo col nome che tutti conosciamo: “Big bang”. “Sir Fred, ha scritto Giulio Giorello, non amava troppo la Genesi, per lui forse era meglio qualche principio (ciclico, ndr) tratto dal buddismo e dall’induismo” (Corriere della sera, 25/8/ 2001). Per questo, lasciando momentaneamente le vesti di scienziato obiettivo e indossando quelle del filosofo (quale uomo non lo è?), e volendo opporsi all’idea di una “creazione cristiana dal nulla”, inventò il cosiddetto “stato stazionario dell’universo”. Questa ipotesi “fu il prodotto dell’immaginazione degli astrofisici T.Gold, H. Bondi e F. Hoyle, i quali cominciarono a pensarci sopra dopo essere andati a vedere The Dead of Night, un film che finisce ritornando al punto di partenza. E se l’universo fosse così? si chiesero i tre studiosi. Essi sapevano che l’universo si sta espandendo, ma non amavano l’idea che il cosmo avesse avuto un principio, come l’espansione implicava” (J.Barrow, Le origini dell’Universo, Sansoni). Così inventarono un’ ipotesi, da un film, solo per opporsi al concetto di creazione: ma nel 1965 la loro ipotesi si rivelò definitivamente falsa e strumentale, e lo stesso Hoyle, con una sua scoperta, contribuì ad affossarla..
Hoyle si occupava anche di biologia, sulla scia di scienziati come il fisico Hermann von Helmholtz e Francis Crik. Come loro propose l’ipotesi della panspermia. “Una volta che tutti i nostri tentativi di ottenere materia vivente da materia inanimata risultino vani – aveva scritto von Helmholtz-, a me pare rientri in una procedura scientifica il domandarsi se la vita abbia in realtà mai avuto un’origine, se non sia vecchia quanto la materia stessa”. Il ragionamento, come si vede, è molto vero, nella sua parte prima, molto poco scientifico, nella seconda: l’unica conclusione scientifica del fatto che la materia viva non nasce da quella inanimata, è che non conosciamo, sperimentalmente, la Causa (per un credente spirituale, intangibile), di questo miracoloso apparire della vita! Hoyle partiva da questa riflessione: “sulla base del calcolo delle probabilità, perché le unità molecolari che sono alla base della vita si combinino tra loro per formare il più semplice sistema vivente occorrerebbero tempi d’una lunghezza incredibile: l’età comunemente attribuita all’Universo…è ridicolmente insufficiente. Non sarebbe sufficiente neppure a far formare attraverso processi casuali gli enzimi indispensabili per dare inizio ai primi processi vitali”. Per poter giustificare la nascita della vita, nella sua complessità e splendore, occorrerebbe quindi contraddire nuovamente il Big Bang, e ipotizzare un mondo eterno, mai nato, luogo di una “infinita serie di accoppiamenti casuali necessari a far sorgere la vita”. “In questo caso, però, non potrebbe essere la Terra la sede adatta per la sua apparizione: i suoi quattro miliardi e mezzo di anni sono una inezia davanti a processi che richiederebbero centinaia di miliardi di anni”: come per Crik, scopritore del Dna, che ipotizzò la panspermia guidata da parte di extraterrestri, anche Hoyle ritenne che la Terra fosse troppo giovane per ospitare una vita nata per caso. Non gli rimase che ipotizzare, senza fondamento, per pura ideologia, ancora una volta solo per negare la possibilità di un Creatore (ed affermare quella dogmatica del caso), che la vita fosse giunta sulla Terra dallo spazio, tramite semi della vita sparsi per l’Universo, nati per caso, non si sa bene come né dove. La realtà, invece, è che “nulla obbliga la chimica a produrre la vita” (Prattico, op.cit.), e che nulla, scientificamente, ci obbliga a credere al caso: anzi, al contrario…
Piergiorgio Odifreddi e le odifreddure.
Piergiorgio Odifreddi è professore di Logica all’Università di Torino, collaboratore di “Repubblica”, “Espresso” e “Le scienze”: per queste sue qualifiche ci aspetteremmo un dottor sottile, che lavora di fioretto, che distingue e analizza con la precisione dell’orefice. Purtroppo, leggendo il suo “Il Vangelo secondo la Scienza” (Einaudi), l’impressione è assai diversa. Ci si trova infatti di fronte ad uno sfoggio di ostentata erudizione, al di là del quale mancano approfondimento e comprensione, ma non colpi di scure, o di vanga, come questo: “il cristianesimo è parte integrante del potere capitalista, razzista e sessista, e come tale andrebbe abbandonato” (p.131). Quello che sconcerta un povero cristiano come me, non è questa avversione alla religione, quanto il disprezzo per la logica, materia che Odifreddi bistratta oltremodo, senza considerare che alle sue spalle vive, guadagna, e ha acquistato la sua notevole fama. Il florilegio di assurdità, riguardo alle religioni, è troppo vasto, ma occorre analizzare almeno qualche punto. A pagina 11 ad esempio, vengono collegate tra loro, come fossero consequenziali, la dieta non vegetariana dei cristiani, con le “ideologie di potenza e di guerra” e con i monoteismi. Non solo si dà per scontato che chi non è vegetariano sia un maledetto oppressore e un potenziale omicida, ma anche che le ideologie contemporanee, “di guerra e di potenza”, cioè il nazionalsocialismo ed il comunismo, siano corollari della fede biblica, e non, come è storicamente certo, sue mortali avversarie. Forse l’Odifreddi dimentica che lo stesso Hitler, lungi dall’essere un feroce mangiatore di bistecche, era rigorosamente vegetariano, come molti membri delle Sa, e aveva promulgato leggi in difesa degli animali, proprio mentre legalizzava aborto, eutanasia e sterilizzazioni forzate. Proseguendo nella lettura si scopre, a pagina 12, che “l’uomo dei tropici vive già nel paradiso e la reincarnazione lo condanna a rimanerci: l’unica sua speranza di liberazione può dunque essere l’uscita dal gioco, quel nirvana che non è appunto altro che lo svincolamento dal ciclo delle nascite e delle morti”. La realtà è esattamente l’opposto: per il buddismo la vita terrena è paragonabile piuttosto all’inferno, e proprio per questo la reincarnazione, costringendo l’uomo a rimanervi, è una condanna. Del resto si noti l’assurdo logico secondo cui un uomo che vive “già nel paradiso”, dovrebbe cercare una “liberazione” da esso! Dal buddismo al cristianesimo, le modalità del professore di logica sono le stesse: non conosce, ma disquisisce. A pagina 37 si legge: “il fatto è che per Agostino, Dio ha creato non solo la materia, ma anche lo spazio e il tempo: egli sta dunque oltre l’eternità, che non è altro che una durata temporale infinita”. Tralasciando l’espressione “oltre l’eternità”, che difetta di significato, occorrerebbe forse sottolineare che la visione di Sant’Agostino è perfettamente compatibile con la teoria della relatività di Einstein: il tempo e lo spazio, ritenuti eterni dai greci, e quindi assoluti, sono invece relativi, sia per il creazionismo agostiniano che per la scienza. Ma soprattutto va notato che definire l’eternità come “durata temporale infinita” significa non distinguere il panteismo di Aristotele dal cristianesimo, né conoscere l’Agostino che si sta citando. Pur tuttavia, Odifreddi dovrebbe giungere al concetto cristiano di eternità con la sola logica: se Dio infatti ha creato il tempo, ne è, per così dire, fuori. Di conseguenza l’eternità non coincide con una “durata temporale infinita”, ma con l’assenza di tempo! L’ esperienza umana può dirci qualcosa al riguardo: l’uomo infatti proietta di norma le sue speranze e desideri nel futuro, a dimostrazione del suo essere fatto per qualcosa di “oltre”. Al contrario, allorché vive quegli istanti di gioia pura che per Teresa d’Avila erano segno e pegno, quaggiù, di una eternità felice, gode e vede solo l’istante presente, senza aspirare né al passato né al futuro: agogna, inconsapevolmente, all’assenza di tempo, cioè all’eterno presente del Cielo! Per concludere, il libro di Odifreddi offre anche qualche spunto interessante. Dopo un breve cenno all’abate Lamaitre, sacerdote tomista cui dobbiamo la teoria dell'”atomo primitivo”, poi detta del Big Bang, spiega che l’avversione ad essa da parte di Fred Hoyle, creatore di un modello alternativo, non aveva motivazioni scientifiche, ma ideologiche: “il Big Bang gli sembrava fornire un illecito supporto scientifico alla religione” (lo aveva già detto Einstein: il Big Bang è similissimo al Genesi). “Illecito”, si vede, per chi ha già deciso, e costruisce a posteriori modelli e “logiche”, che con la scienza e logica non c’entrano affatto. La storia di Hoyle, infatti è molto simile a quella di Odifreddi: uno scienziato che travalica nella filosofia, e che vorrebbe presentare come scienza anch’essa. La sua storia è infatti assai interessante: egli è l’inventore di un escamotage, per negare una teoria che gli appariva troppo creazionista, in quanto presupponeva che l’universo avesse cominciato ad esistere, in un istante di tempo che ha dato vita al tempo stesso, e che non fosse sempre esistito. Hoyle infatti oppose alla teoria del Big Bang quella dello “stato stazionario dell’universo”, che il celeberrimo fisico inglese J. Barrow descrive così: essa “fu il prodotto dell’immaginazione degli astrofisici T.Gold, H. Bondi e F. Hoyle, i quali cominciarono a pensarci sopra dopo essere andati a vedere “The Dead of Night”, un film che finisce ritornando al punto di partenza. E se l’universo fosse così? si chiesero i tre studiosi. Essi sapevano che l’universo si sta espandendo, ma non amavano l’idea che il cosmo avesse avuto un principio, come l’espansione implicava”. Così inventarono una ipotesi, da un film, per dire che l’universo non era nato una volta sola, ma continuava a rinascere, dall’eternità e per sempre, solo per opporsi al concetto di creazione, ma senza alcun fondamento: nel 1965 la loro ipotesi si rivelò definitivamente falsa e strumentale (J.Barrow, “Le origini dell’universo”, Sansoni). Un’altra volta analizzerò il nuovo libro di Odifreddi, “Perché non possiamo dirci cristiani, e meno che mai cattolici” (Longanesi), che inizia così: “cretino” deriva etimologicamente da “cristiano”, ed effettivamente tutti i cristiani sono dei cretini.
Francis Crick, scopritore del Dna, preferisce gli extraterrestri a Dio.
Gli antichi presocratici, che non credevano ad un Dio creatore, cercavano nella realtà un principio primo, qualcosa di altro, tangibile e visibile, capace di rendere conto di tutto l’esistente: tutto deriva dall’acqua, o dall’aria, o dagli atomi….I moderni presocratici, alla Darwin, hanno provato a ripetere lo schema filosofico, non scientifico. Tutto, ma proprio tutto, deriva da altro: da un’ ameba originaria…Nella modernità che rifiuta Dio, l’acqua, o l’ameba, tornano a divenire dio, come nei tempi antichi, alla faccia dell’evoluzione, e l’uomo, di conseguenza, precipita a creatura inferiore all’acqua e all’ameba stessi, che ne sarebbero la causa! Al punto che evoluzionisti come Darwin e Spencer si oppongono alla vaccinazione, in quanto essa salva sì migliaia di uomini, ma determina anche un “impedimento al realizzarsi della libera competizione”. In realtà, da subito, molti evoluzionisti, tra cui Wallace, amico di Darwin, e per molti aspetti superiore, e Lyell, anch’egli amico e ispiratore di Darwin, si distaccano, insieme al grosso degli evoluzionisti, dal pensiero del loro celebre amico, per affermare l’esistenza di un salto evolutivo tra il bruto e l’uomo, e la presenza, nella natura, di un “disegno”, di un “piano”, di una “mente” superiore: l’esistenza di un Altro, con la maiuscola, che solo può spiegare la bellezza, la complessità, il “mistero della creazione”. Circa duecento anni più tardi, Francis Crick, scopritore della struttura a doppia elica del Dna, premio Nobel, e sostenitore di una moderna versione dell’eugenetica, deve fare i conti con qualcosa di straordinario: l’esistenza, in natura, persino nella forma di vita più meschina, di un principio informatore, di una misteriosa intelligenza intrinseca. Scrive così un’opera intitolata, in italiano, “L’origine della vita” (Garzanti), con prefazione del celebre scienziato Tullio Regge. In tale introduzione di appena tre pagine, torna almeno in due occasione il concetto di miracolo: di fronte al Dna, Regge parla di “reazioni chimiche che vengono miracolosamente regolate da una folla di enzimi specializzati la cui efficienza supera di gran lunga quella dei catalizzatori industriali”. Il Dna, insomma, secondo uno scienziato laico, oltrepassa l’opera intelligente, il disegno delle maggiori invenzioni umane. Nella seconda pagina della sua trattazione Crick, invece, esprime subito il suo atto di fede presocratico: tutto deriva da altro. Lo fa, però, introducendo un aggettivo poco scientifico, “misterioso”, al quale seguirà più volte la parola “miracolo” (ad es. a p. 52, 85…): “Il passo successivo è per ora misterioso: la formazione, a partire dalla zuppa (originaria, ma non si sa di quale provenienza, ndr), di un sistema chimico primordiale ma autoriproducentesi”. Nel capitolo intitolato “Aspetti della vita” Crick nega implicitamente la credenza darwiniana nel caso. Paragonando la struttura di una proteina, composta di tanti aminoacidi, ad una frase formata di lettere, scrive: “Anche se disponessimo di un miliardo di scimmie che sappiano scrivere a macchina è quasi nulla la possibilità che esse riescano a scrivere correttamente, durante un periodo pari all’età dell’universo, anche una sola terzina di Dante…abbiamo quindi scoperto che …esistono strutture complesse che si presentano in molte copie identiche, che hanno cioè una complessità organizzata, e che non possono essere nate per caso. La vita, da questo punto di vista, è un evento infinitamente raro, tuttavia la vediamo brulicare intorno a noi. Come è possibile che una cosa così rara sia così comune?”. A pagina 85 Crick conclude: “Un uomo onesto, munito di tutte le conoscenze attuali, può solo affermare che per ora, in un certo senso, l’origine della vita appare quasi un miracolo tante sono le condizioni che debbono essere soddisfatte perché il meccanismo si metta in moto”. Ma se la vita si è sviluppata sulla Terra, continua Crick, così “miracolosamente”, perché ciò non è avvenuto anche su altri pianeti, dove sarebbe stata più probabile, essendo essi più grandi e contenendo quantità immense di materiale organico? Non volendo ammettere l’esistenza e la necessità logica di un Altro, irriducibile a molecole di acqua o ad amebe, Crick finisce per cadere nell’assurdo: la vita non sarebbe nata sulla Terra, evento scientificamente troppo improbabile, troppo “misterioso”, ma “sarebbe arrivata non grazie ad un intervento divino bensì portata da una astronave lanciata da una superciviltà scomparsa da tempo” e abitata da “guardiani cosmici” che ci osservano senza essere visti… Che creduloni, questi scienziati “atei”!