Un creatore? Why not?

Nell’uovo, al momento della fecondazione, entrano il nucleo e il centriolo dello spermatozoo. Rimangono fuori tutto il citoplasma, la membrana cellulare e tutti gli organuli cellulari appartenenti allo spermatozoo. In pratica, entrano soltanto il centro organizzatore della mitosi (il centriolo, che poco dopo si duplicherà) e i cromosomi che contengono le istruzioni di origine paterna.
L’uovo deve fornire tutta la materia prima (il citoplasma), l’energia (i mitocondri) e le catene di produzione dei nuovi prodotti (ribosomi, polimerasi, enzimi) necessari alla nuova vita. I cromosomi paterni, da soli, non possono nemmeno esprimersi: sono come un libro che contiene un messaggio stupendo ma che rimane in attesa di essere aperto da qualcuno per poter “esistere”. Il citoplasma dell’uovo ha maturato sostanze che vanno a decondensare la cromatina e ad aprire i siti di inizio dei geni, per consentirne la trascrizione e poi la traduzione, ovvero la formazione delle proteine indispensabili alla nuova vita che si deve sviluppare alla perfezione. Detto in altre parole, è l’uovo, con le sue sostanze, che rende funzionali le istruzioni che erano contenute nello spermatozoo e quindi dà loro senso. E’ come se l’uovo fosse il direttore d’orchestra che decide quando deve suonare il violino e quando la tromba e quando il violoncello, che, altrimenti, rimarrebbero sì presenti in sala, ma perennemente muti.
 La domanda che tutti ci poniamo a questo punto è: “Come ha potuto l’uovo diventare direttore dell’orchestra che non ha mai conosciuto prima?”, ancora: “Come avrebbe mai potuto l’ambiente dell’uovo (per usare i termini cari ai darwiniani) costruire un sistema complesso (enzimi, energia, materia prima) in grado di interagire con l’ambiente del nucleo dello spermatozoo, che non ha mai visto prima della fecondazione e che proviene addirittura da un altro corpo?” Siamo di fronte ad un fenomeno che ha veramente dell’incredibile! L’ovocita “attende” uno spermatozoo, così come una persona va ad un appuntamento. Sono fatti l’uno per l’altro, eppure non si sono mai visti prima! Invocare, a questo punto, una risposta ragionevole come questa che dice all’incirca così: “l’uovo e lo spermatozoo sono stati progettati dall’esterno del sistema per realizzare una nuova vita individuale” significa uscire dall’ambito della Scienza (con la esse maiuscola, per carità!) e incorrere nella sanzione prevista dalla risoluzione del Parlamento europeo n° 1580 del 4 ottobre 2007, che invita “gli Stati membri e in particolare le autorità educative ad opporsi fermamente all’insegnamento del creazionismo come una disciplina scientifica”? Mi domando: sarebbe più scientifico affermare che le cellule riproduttive sono state selezionate dall’ambiente in tempi che si misurano a milioni di anni, realizzando a piccoli passi, ma in modo assolutamente fortuito e naturale, prima la meiosi, evento di loro esclusiva proprietà, che porta al dimezzamento del numero dei cromosomi attraverso due divisioni cellulari, poi la fecondazione, di cui mantengono l’esclusiva, quindi la mitosi e l’intero sviluppo embrionale, che prevede simmetrie, morfogenesi, organogenesi, sacca amniotica, mancata espulsione uterina, parto miracoloso ed immediato allattamento al seno? Perché dobbiamo abdicare all’uso della ragione proprio quando la stiamo utilizzando al massimo delle sue possibilità, cioè quando siamo alla ricerca della verità delle cose?
Come dire, esemplificando questa volta con l’aiuto dell’ingegneria: tutti vediamo il progetto del cantiere disteso sul tavolo dello studio di professionisti, ma solo la religione può nominare il suo designer; la scienza non può che analizzarne il tratto di matita segmentandolo in milioni di millimetri per cui può dire che si sono accumulati nel tempo, uno dopo l’altro, fortuitamente, selezionati dalla carta (il suo ambiente) e non dalla mano e dalla testa di chi l’ha pensato. Credo, invece, che tutte le volte che abbiamo la possibilità di “allargare la ragione”, conferendole fiducia nelle sue capacità di conoscenza e di intuizione, facciamo un profondo servizio alla nostra umanità, perennemente mendicante di verità.

Richard Dawkins: l’ateismo non consegue necessariamente all’evoluzionismo. II puntata

Il secondo inganno metodologico di Dawkins, il più furbescamente perseguito, è quello di voler presentare il darwinismo come la soluzione di ogni interrogativo sull’esistenza del creato, dell’ordine, dell’armonia e della bellezza della natura.

Anzitutto Dawkins tenta di proporre come un dogma che l’ateismo consegua necessariamente, storicamente e logicamente al darwinismo. Se il darwinismo è vero, ci dice più volte, Dio non esiste, di Lui non c’è necessità, tutto è spiegabile altrimenti. In realtà una simile affermazione è solamente sua! Infatti ogni evoluzione, la più casuale possibile, esige qualcosa che evolva, e quindi non si autofonda e non si autogiustifica: prima di poter evolvere, qualcosa deve esistere. Dawkins sa benissimo, con i suoi ragionamenti, di andare al di là del pensiero evoluzionista, e ammette che il famoso "mastino di Darwin", e suo grande amico, Thomas Huxley, è colui che ha introdotto il termine "agnostico", proprio per mettere in chiaro che le sue credenze in campo biologico non portavano necessariamente ad una posizione filosofica, né teista né atea.

Sappiamo anche che Darwin stesso, dopo aver citato il "Creatore", nel suo L’Origine delle specie", utilizzò proprio il termine "agnostico" per definire anche se stesso. E conosciamo bene dalla storia e da innumerevoli testimonianze che la crisi di fede di Darwin fu dovuta soprattutto alla morte di sua figlia Anna, in tenera età, un evento che lo sconvolse e che lo portò spesso a ragionamenti pessimistici di tipo gnostico. Ciononostante Darwin stesso non arrivò mai a teorizzare, a sostenere da naturalista l’esistenza o l’inesistenza di Dio. Anzi, nel 1879, mentre lavorava alla sua "Autobiografia", ebbe a scrivere: "Il mio giudizio è spesso fluttuante… e persino nelle mie fluttuazioni più estreme non sono mai stato ateo nel senso di negare Dio. Credo che in generale, ma non sempre, la mia posizione possa essere descritta più appropriatamente con il termine agnostico".

Inoltre Dawkins dovrebbe sapere che un evoluzionista un po’ più famoso di lui, il naturalista Alfred Russel Wallace, colui che propose, come scrive il suo amico Darwin, "esattamente la mia teoria" (Autobiografia), negli stessi anni, e identificò nella selezione naturale la causa dell’evoluzione, non si rassegnò mai all’idea che l’uomo fosse una semplice evoluzione della bestia, ed affermò sempre, al contrario, l’alterità tra l’uomo e l’animale, in nome della superiorità dello spirito sulla materia. In un’epoca di sempre maggior ateismo, Wallace, che dall’ateismo materialista proveniva, definendosi un "perfetto scettico filosofico", giunse persino a pratiche spiritistiche (insieme a madame Curie, Conan Doyle, Lombroso ecc….) pur di toccare "sperimentalmente" l’esistenza di una dimensione soprannaturale che gli pareva indispensabile. Wallace, come ricorda Giacomo Scarpelli nel suo "Il cranio di cristallo" (Bollati Boringhieri), "ipotizzava che la nostra specie si fosse sviluppata sotto il controllo di un ente trascendente, di natura divina". Scriveva infatti: "Un’intelligenza superiore ha guidato lo sviluppo dell’uomo in una direzione definita e per uno scopo speciale, proprio come l’uomo guida lo sviluppo di molte forme animali e vegetali".

Così la penseranno anche altri scienziati favorevoli ad un’ evoluzione finalizzata, e quindi aperta all’anima immortale e a Dio, talora veri e proprio pionieri e apostoli dell’evoluzionismo, come gli amici di Darwin e Wallace, il geologo Charles Lyell, che aveva per molti aspetti preparato il terreno alla teoria della selezione naturale di Darwin, e l’astronomo J. Herschel, per il quale "mente, piano e disegno provvidenziali escludevano qualsiasi accidentale concausa di atomi" (Scarpelli); il botanico George Henslow e il biologo St. George Mivart, ex allievo di Huxley e sostenitore di Wallace; l’italiano Filippo De Filippi, uno dei primi a portare "L’origine della specie" nel nostro paese, e Robert Chambers, "antesignano dell’evoluzionismo inglese", il quale sottolineava che in noi "esistono qualità psichiche esclusive e astratte, come la ragione, la speranza e soprattutto la disposizione ad adorare un ente supremo"; più avanti nel tempo il biologo italiano Daniele Rosa, il celebre scienziato francese Lecomte de Nouy, il biologo statunitense Edmund W. Sinnott, il gesuita Vittorio Marcozzi e tantissimi altri.

 Su Wallace si potrebbero dire infinite cose, che non si capisce come mai vengano sempre taciute, pur comparendo il suo nome in tutti i manuali di biologia accanto a quello di Darwin. Ho qui di fronte a me, per esempio, "I miracoli ed il moderno spiritismo" (Società editrice Partenopea), un suo testo in cui parlando della selezione naturale, da lui teorizzata, è bene ribadirlo, in accordo e in contemporanea a Darwin, scrive che però "non ivi è la causa onnipotente, assolutamente bastevole, unica, dello sviluppo delle forme organiche". Esiste poi un altro suo scritto, "Il darwinismo applicato all’uomo", in cui Wallace nega che si siano sviluppate per selezione naturale la natura morale e intellettuale dell’uomo, e le sue facoltà matematiche, musicali ed artistiche, che insieme alla capacità filosofica, di astrazione e alla possibilità di "concepire l’eterno e l’infinito", "non possono essersi generate dalla mera selezione biologica, la quale può puntare solo sull’immediato benessere dell’individuo e della specie" (Scarpelli, p.50). Affermava inoltre la sua "fiducia che l’immane labirinto dell’essere, che vediamo estendersi ovunque intorno a noi, non sia senza un piano"; e ancora: "la teoria darwiniana ancorchè spinta alla sua estrema conclusione logica, nonchè opporsi ci offre un valido appoggio alla credenza nella natura spirituale dell’uomo".

L’ingegner Angelo Belussi commenta la mostra la “Scimmia nuda”.

Ho recentemente effettuato una visita alla mostra allestita presso il museo di storia naturale di Trento con titolo “La scimmia nuda” e, prima di confutare le teorie darwiniane in essa addotte, intendo esporre, in via preliminare, alcune considerazioni di carattere scientifico che ritengo interessanti.

Consideriamo anzitutto la vita nella sua accezione biologica. Essa si manifesta in una miriade di specie animali e vegetali, secondo tipologie estremamente diversificate e si esplica mediante una procedura attuativa consueta per chi abbia esperienza a livello ingegneristico, consistente nelle tre seguenti fasi: – ideazione progettuale -reperimento dei materiali idonei alla attuazione del progetto – procedimento operativo per realizzare l’idea originaria Riporto, in proposito, alcuni esempi significativi desunti in campo animale e vegetale, che evidenziano l’impossibilità di interventi casuali nella loro realizzazione.

Il pipistrello. Animaletto notturno, praticamente cieco, che si nutre di insetti con l’utilizzo di un sofisticato apparato sonar. Di apparati analoghi risultano dotati molti altri animali, in particolare i cetacei. E’ il sonar un’apparecchiatura escogitata dall’uomo solo nel corso della seconda guerra mondiale. Pretendere che un simile accorgimento di sofisticata tecnologia si sia realizzato per caso, secondo la conclamata teoria sintetica dell’evoluzione darwiniana, non è ragionevolmente sostenibile. Le mutazioni genetiche migliorative tra loro interconnesse e mutuamente condizionate da sincronismi attuativi di assoluta precisione, crescono infatti con legge esponenziale all’elevarsi del livello evolutivo di un animale, secondo un programma attuativo finalizzato ad assicurargli ì’alimentazione e quindi la sopravvivenza

Il coleottero. Insetto esistente in svariate sottospecie, dotato di ali cartilaginee sottilissime, in grado di ripiegarsi sotto le elitre per poi dispiegarsi e consentire un volo prolungato. Il materiale con cui sono realizzate le ali, che presentano una resistenza eccezionale in considerazione della loro sottigliezza, dotate peraltro di nervature correttamente distribuite, non è stato ad oggi riprodotto sinteticamente dall’uomo. Sistemi di inseminazione in campo vegetale di particolare ingegnosità. Baccelli che, aprendosi improvvisamente a mo’ di piccola esplosione, spargono i semi a notevole distanza dalla pianta generatrice per consentire alle nuove pianticelle un più ampio spazio di crescita. Semi connessi a leggeri piumacchi trasportabili dal vento, oppure dotati di piccoli uncini con cui si aggrappano al pelo o alle penne degli animali per giungere anche a grande distanza dalla pianta d’origine. Ritenere che la realizzazione di simili esseri viventi dotati di apparati di stupefacente ingegnosità, atti a sortire specifiche funzioni essenziali per la loro sopravvivenza e la perpetuazione delle rispettive specie avvenga per casualità, appare del tutto irragionevole. Traspare invece un finalismo che si attua nell’ambito di una evoluzione ove la selezione naturale non è certo il fattore determinante, come pretenderebbe la teoria di Darwin. Evoluzione che costituisce lo strumento utilizzato dall’Ideatore e Creatore della vita, cioè da Dio.

L’incongruenza della teoria darwinana è evidenziata dalle maggiori conoscenze scientifiche oggi conseguite e sconosciute più di un secolo e mezzo fa. Tale teoria dava per scontata un’evoluzione spontanea, determinata dalla sola selezione naturale conseguente, questa, ad una serie di occasionali mutazioni genetiche di cui prevalevano solo le migliorative.

Significativo, al riguardo, l’esempio proposto dallo stesso Darwin e dai suoi seguaci, relativo all’allungamento del collo della giraffa. Tale fenomeno si riteneva conseguente ad una sequenza di mutazioni genetiche che privilegiarono, in una determinata specie di erbivori, gli individui ai quali, nel susseguirsi delle successive generazioni, si allungava il collo. Ciò consentiva a questi di cibarsi anche delle foglie più alte degli alberi e quindi di trovarsi avvantaggiati rispetto agli animali con il collo più corto. I primi, infatti, poterono sopravvivere a carestie di cibo essendo favoriti nel suo reperimento, mentre gli altri soccombettero. In realtà l’allungamento del collo della giraffa e, analogamente, qualsiasi altra modificazione sia anatomica che funzionale in animali ad un certo livello evolutivo, comporta tutta una serie di variazioni concomitanti quali, nel caso della giraffa, l’adeguamento del sistema circolatorio del sangue che deve permettere all’animale di mantenere una costante pressione ematica nel rapido innalzamento e abbassamento del capo, senza di che si verificherebbe la rottura dei vasi sanguigni del cervello. Esiste infatti, nelle arterie e nelle vene che si sviluppano nel collo della giraffa, un sistema di valvole di ritegno in grado di mantenere costante la pressione del sangue malgrado i rapidi movimenti del collo dell’animale che, data la sua lunghezza, determinano nella testa forze centrifughe rilevanti. Per sopperire alle perdite di carico idraulico dovute a tale sistema di valvole, il cuore della giraffa è di dimensioni eccezionali, con una lunghezza superiore ai 50 cm. ed un peso di circa 11 kg. E’ quindi chiaro come una “modificazione genetica” tale da variare l’assetto anatomico e la funzionalità di un organismo vivente, comporta il contemporaneo verificarsi di tutta una serie di “modificazioni genetiche” intelligentemente coordinate, atte a compensare gli inevitabili squilibri funzionali provocati dalla prima.

C’è di più: tali variazioni genetiche, in numero enormemente superiore alle poche anzi elencate per brevità, devono verificarsi secondo programmi cronologici di perfetta calibratura in assenza dei quali, ad esempio, l’ingrossamento del cuore in un animale senza il simultaneo aumento delle perdite di carico nei vasi sanguigni con la contemporanea creazione delle valvole di ritegno, provocherebbe la sicura morte dello stesso. Infatti l’attuazione di tutte le modificazioni parziali che, in una combinazione armonica a mo’ di puzzle, sono necessarie per sortire una determinata modificazione globale, debbono rispettare un programma attuativo nel quale ogni singola modificazione si sincronizzi con le innumerevoli altre in modo che, tornando al caso della giraffa, ad un piccolo allungamento del collo dell’animale venga a corrispondere un congruo incremento della grandezza del suo cuore, la formazione di un ben definito numero di valvole di ritegno nei vasi sanguigni e così via per le innumerevoli altre modificazioni che concorrono alla attuazione della mutazione globale. Si può stabilire che il numero delle mutazioni concomitanti con quella ritenuta principale o, quanto meno, la più appariscente al fine del processo evolutivo di un organismo vivente, cresce con legge esponenziale al crescere dell’affinamento tecnicistico dell’organismo stesso. Oltre alla stupefacente ingegnosità che caratterizza la costituzione di tutti gli esseri viventi in campo animale e vegetale, si debbono considerare altre fondamentali prerogative di cui sono dotati. Anzitutto quella di riprodursi come singoli individui e di perpetuare così le rispettive specie, talvolta per intere ere geologiche. L’adeguamento delle proprie attitudini anatomiche e funzionali al mutare delle condizioni ecologiche ambientali.

Un semplice esempio al riguardo, riscontrabile anche oggi, è dato dalla mutabilità stagionale da parte di lepri. ermellini, pernici del colore delle loro livree che da marrone diviene bianco per assecondare il mimetismo, in occasione dell’innevamento invernale. La capacità di autoripararsi, entro certi limiti, mediante la cicatrizzazione, la saldatura delle strutture ossee. l’incremento funzionale di determinati organi per sopperire all’indebolimento di altri. Attribuire queste prerogative ed innumerevoli altre che per brevità non riporto, ad una serie di processi evolutivi occasionali, determinati dalla semplice selezione naturale, appare tesi ben difficilmente sostenibile. Da quanto anzi illustrato, traspare un finalismo in tutta la fenomenologia biologica che determina il conseguimento di determinate funzioni atte alla sopravvivenza dei singoli individui e delle rispettive specie. Ciò si è determinato mediante un processo evolutivo generalizzato, certamente non casuale ma concepito nei minimi dettagli da un Ente Creatore ed Organizzatore della vita, Consideriamo, in questa ottica, come conciliare la sostanziale somiglianza del patrimonio genetico dell’uomo con quello dei primati, in particolare dello scimpanzé, che si differenzia solo per circa il 2%.

Tale corrispondenza cromosomica porterebbe a ritenere che i caratteri delle due specie fossero sostanzialmente uguali, sia morfologicamente che psichicamente. In realtà, malgrado esistano delle affinità anatomiche tra l’uomo ed i primati, sussiste tra loro una differenza sostanziale per quanto concerne lo sviluppo psichico. L’uomo ha conseguito livelli intellettuali che gli hanno consentito la realizzazione di opere grandiose sia sul piano tecnologico che artistico, la scimmia è rimasta ad uno stadio animalesco, seppur con qualche tendenza imitativa nei confronti dell’uomo, in ciò favorita dalle affinità morfologiche con questo. Esiste quindi una abissale differenza tra le due razze, non ascrivibile al rispettivo patrimonio genetico ma ad una entità non fisica, avulsa dalle caratteristiche cromosomiche di entrambe: la mente. La mente, entità incorporea identificabile con l’anima, presenta prerogative che elevano l’uomo, unico a possederla, al di sopra di qualsiasi altra creatura. Le principali sono : – La coscienza di sé o autocoscienza. – La volontà, che può affrancarla dai condizionamenti caratteriali ed emotivi del corpo. – La memoria secondaria, consistente nell’archivio mnemonico delle nozioni scientifiche, filosofiche, culturali e delle relative elaborazioni, inoltre dei ricordi della vita. – Disponibilità ad utilizzare parametri valutativi innati che le consentono di apprezzare la bellezza e l’armonia. – La possibilità di modificare l’assetto anatomico e funzionale dell’apparato cerebrale dell’uomo intervenendo sulla plasticità del suo cervello. E’ infatti a seguito di un atto volontario della mente che l’uomo può innescare questo processo atto ad accrescere le sue facoltà intellettuali ed attitudinali mediante la formazioni di nuovi complessi neuronici nella neocorteccia cerebrale. Pertanto, a seguito di una scelta personale spesso prolungate e sofferta, l’uomo può divenire uno scienziato, un artista, uno sportivo professionale. La memoria secondaria non trova inserimento nelle strutture fisiche del cervello, fatto che trova un riscontro clinico significativo. Nel caso infatti che in una persona per cause patologiche, in particolare traumatiche, risulti compromessa la corteccia cerebrale con conseguente amnesia, è risaputo che, in tempi talvolta prolungati, si verifica la riacquisizione della memoria.

Fatto questo che evidenzia il comportamento di determinati moduli corticali in grado di procedere alla formazione di circuiti neuronali sostitutivi di quelli distrutti dall’evento patologico e consentire così il ricupero dei ricordi conservati nella mente. Ciò significa che i neuroni cerebrali non sono la “sede” della memoria, il centro di produzione dell’attività mnemonica secondaria, come sostengono autori materialisti. Se così fosse, con la distruzione del tessuto neuronale originario, interamente sostituito da quello di neoformazione, i ricordi sarebbero distrutti per sempre. Da quanto anzi argomentato, emerge che è la mente a porre l’uomo in una condizione di assoluta superiorità rispetto ad ogni altro essere vivente sulla Terra., che gli consente di esplicare, in piena consapevolezza, una vistosa creatività sia di carattere intellettuale che tecnico-scientifico. Anche le altre creature, sia di elevata strutturazione organica, quali i mammiferi e gli uccelli che a livelli modesti quali le formiche, le api, le termiti, sono pienamente in grado di svolgere interventi operativi di piena efficacia, senza averne tuttavia consapevolezza, secondo programmi raziomorfi insiti nel loro genoma, definiti engrammi. Tornando all’argomento originario di questa disamina, Il fatto che sussista una somiglianza quasi completa tra i patrimoni genetici dell’uomo e dei primati, questa non consente tuttavia una affinità psichica tra le rispettive specie. I primati infatti, pur dotati di una certa intelligenza, sono privi della mente e non possono quindi fruire delle prerogative offerte da questa, in particolare della creatività consapevole. La loro capacità operativa è infatti di tipo imitativo e generalmente condizionata dalla loro istintualità, cosa peraltro comune in molti altri animali, ad esempio le volpi e le martore, talvolta in grado di cibarsi senza danno, con una scaltrezza sorprendente, delle esche applicate alle tagliole predisposte per ucciderle.

Consideriamo infine la condizione dell’uomo nel cosmo e cerchiamo di scoprire se esistono, su corpi celesti aventi caratteristiche chimico-fisiche adeguate, esseri viventi ad un livello di razionalità almeno pari a quello umano. Sono molti gli astrofisici, tra questi Robert Harrington, Paolo Maffei, Bart J.Bok che, basandosi su un discutibile calcolo delle probabilità, ne ritengono sicura l’esistenza sui pianeti o loro satelliti nell’universo, da loro calcolati in 35 miliardi nella sola Via Lattea, la galassia ove è inserita la Terra, e in 35 miliardi di miliardi in tutto il cosmo. Ciò nella ipotesi che la vita possa insorgere per semplice casualità, secondo la teoria darwiniana. Dovrebbero quindi esistere esseri raziocinanti dislocati nel cosmo ad un livello di cultura tecnico-scientifica almeno pari se non superiore al nostro, essendo questo di relativo recente conseguimento. Nella realtà dei fatti, si è invece accertata l’inesistenza nell’universo di tali esseri, circostanza risultante dai sondaggi effettuati già da alcuni decenni ad opera di autorevoli centri di ricerca astrofisica dislocati sulla Terra.

Malgrado infatti le approfondite ricerche esperite a mezzo di potenti radiotelescopi in grado di sondare anche le costellazioni inserite nelle galassie più remote, ove sicuramente esistono corpi celesti con caratteristiche analoghe a quelle terrestri, non si è ottenuta alcuna conferma dell’esistenza di esseri dotati di raziocinio. Poiché infatti la nostra galassia, la Via Lattea, è tra i complessi siderali più recenti, se il fenomeno della vita di esseri autocoscienti e raziocinanti si fosse manifestato in più antiche galassie, questi esseri, avendo raggiunto un livello evolutivo superiore al nostro, avrebbero sicuramente operato analogamente a quanto stiamo facendo noi, diffondendo cioè segnali atti ad essere captati anche alle distanze più remote ed in tempi di milioni di anni luce dalla loro emissione. Tali indizi dovrebbero quindi pervenirci da radiosorgenti disseminate nel cosmo, cosa che invece non si verifica. Gli unici segnali che giungono a noi sono costituiti dai cosiddetti “rumori cosmici” , provocati da svariate e ben individuate cause dovute a fenomeni naturali, compreso il “rumore di fondo” ascrivibile alla primordiale esplosione del big bang. Nulla quindi che, per particolari caratterizzazioni o per qualche anomalia, possa far supporre l’intervento di esseri intelligenti, desiderosi di manifestare la loro esistenza, anche in tempi futuri assai remoti. Non è quindi illusorio ritenere che l’uomo sia l’unico essere dotato di autocoscienza, di autonoma volontà e di creatività esistente nell’universo. La tesi, apparentemente ovvia, sostenuta da autori immanentistici, secondo cui, essendosi verificato il fenomeno della vita sulla Terra, è da ritenere scontato che esso si sia manifestato anche in altri pianeti o loro satelliti teoricamente idonei al suo insorgere ed alla sua evoluzione, nella realtà dei fatti, risulta errata. E’ questa una ulteriore prova della insostenibilità della teoria casualistica di Darwin e suoi seguaci, del suo carattere surrettizio.

L’unica alternativa, suffragata da seri riscontri scientifici, è costituita da una perfetta programmazione della vita, fondata sull’ideazione progettuale di base, sul reperimento dei materiali idonei alla attuazione del progetto, sul procedimento operativo per realizzarlo, sviluppantesi secondo una modalità evolutiva. Questo grandioso processo della vita deve scaturire da una finalità trascendente, che travalica la comprensione umana e non è valutabile in un’ottica immanentistica.

Alla luce delle argomentazioni anzi riportate, espongo alcuni rilievi che ritengo significativi sui concetti basilari sviluppati nella Mostra “La scimmia nuda”, desunti dagli articoli redatti da studiosi in materia, riportati sulla stampa locale, allestita dal Museo di Storia Naturale di Trento. Michele Lanzinger, Direttore del Museo ( da un’intervista da lui rilasciata). Domanda: Ci dà ancora un certo fastidio riconoscere che discendiamo dalle scimmie? Risposta: Gli ultimi studi di genetica dicono che noi condividiamo con gli scimpanzé più del 98% del nostro DNA. Abbiamo fortissime somiglianze nella struttura sociale, nelle alleanze tra gli individui, nella struttura di coppia e nella sessualità, nei rapporti tra madri e figli e nelle cure parenterali. Claudia Lauro, curatrice della mostra, asserisce essere uno degli scopi dalla mostra quello di evidenziare il fatto che gli esseri umani non debbono considerarsi al di sopra, bensì all’interno del mondo animale. Informa inoltre che recenti studi di biologia molecolare hanno dimostrato che più del 98% del patrimonio ganetico degli esseri umani coincide con quello degli scimpanzé. Da questo dato scientifico, informa la signora Lauro, prende le mosse la mostra “La scimmia nuda – Storia naturale dell’umanità”. Desmon Morris. Esorta ” Costruiamo un ponte tra cultura scientifica e cultura umanistica” e precisa : Gli esseri umani sono animali, possiamo talvolta essere dei mostri, altre volte individui meravigliosi, ma siamo pur sempre animali. Magari ci piacerebbe pensare di essere degli angeli caduti dal cielo, ma in realtà siamo scimmie in posizione eretta”. Jan Tattersall stabilisce che i nostri parenti più stretti sono le grandi scimmie e, a detta sua, in queste si riconosce la parte ereditata dal comune antenato, una creatura antica né scimmia né uomo che possedeva però gli elementi fondamentali di entrambi. Telmo Pievani ritiene che la nascita della specie umana sia stato ” un glorioso accidente della storia” e, al proposito, chiama in causa Charles Darwin e “la sua scomoda rivoluzione scientifica”. Darwin ha il merito di avere scoperto l’esistenza di una metodologia evolutiva a base della creazione di tutti gli esseri viventi nella biosfera e, certamente, non solo dell’uomo. Tuttavia l’asserzione che i processi evolutivi siano avvenuti per mera casualità e non secondo programmi attuativi di straordinaria razionalità diviene sempre più insostenibile con l’approfondirsi delle conoscenze scientifiche. Il meccanismo evolutivo darwiniano verte sul fatto, apparentemente ovvio, che se nelle casuali modificazioni genetiche prevalgono quelle migliorative negli assetti morfologici e funzionali ad esse precedenti, la progenie degli individui che ne vengono a beneficiare si troverà avvantaggiata nei confronti della specie originaria e, con il tempo, prevarrà su di essa determinandone l’estinzione; se invece è peggiorativa, sarà questa ad essere eliminata. Si verrebbe così a determinare un processo migliorativo a senso unico. Una teoria di tal genere, proprio per la sua facilità comprensiva, venne accolta con particolare entusiasmo dai fautori del materialismo riduzionista e crea tutt’oggi una suggestione difficile a superarsi malgrado le più approfondite conoscenze scientifiche, sconosciute all’epoca di Darwin, che ne evidenziano le incongruenze. La prima di queste incongruenze è data dal fatto che una modificazione genetica, tale da apportare variazioni anche modeste nei caratteri anatomici e funzionali di un individuo, implica tutta una serie di modificazioni interconnesse e concomitanti con quella ritenuta principale, come s’è visto nel caso dell’allungamento del collo della giraffa, in numero crescente con legge esponenziale al crescere del livello evolutivo dell’individuo. E’ quindi da escludere la casualità nella attuazione di questi fenomeni che coinvolgono tutte specie degli esseri viventi sulla Terra in una tipologia praticamente infinita, e riconoscere l’unica alternativa logica possibile: quella di una ideazione e di una realizzazione sapientemente programmate nei minimi dettagli. E’ dunque il metodo evolutivo utilizzato dal nostro Creatore che ha consentito di conseguire quei risultati straordinari e di luminosa evidenza, che sarebbe paradossale attribuire al caso. L’indagine sulle “cosiddette facoltà superiori della mente umana vengono oggi indagate in profondità da un punto di vista evoluzionistico” informa il filosofo Pievani e, come scriveva il paleontologo J. Gould , ” Siamo figli di pura storia e risultato contingente di una sequenza di processi naturali che non avevano nulla di speciale in sé …….”. Affermare che i processi naturali non hanno nulla di speciale, significa non comprendere la grandiosità della Creazione, della vita in particolare. Asserire che ” La storia naturale della specie umana ha beneficiato largamente di questa evoluzione della teoria della evoluzione e a sua volta ha contribuito ad arricchirla” significa attribuire al processo evolutivo in sé il merito dei risultati conseguiti e non al sommo Artefice che di esso si è magistralmente servito. Come dire che il risultato di un intervento chirurgico è merito del solo bisturi e non del chirurgo che, utilizzando questo strumento, l’ha effettuato. Le considerazioni di maggior rilievo che si possono effettuare, alla luce degli argomenti addotti dagli studiosi anzi menzionati, sono a mio avviso le seguenti: Il fatto che i patrimoni genetici dell’uomo e dei primati siano sostanzialmente uguali, pur con le enormi differenze intellettuali esistenti tra le due specie, dovrebbe indurre a ritenere che esiste un “fattore aggiuntivo” al corredo cromosomico del genere umano, non inseribile nella fisicità del suo patrimonio genetico, responsabile della indubbia priorità di questo rispetto a quello dei primati. Fattore aggiuntivo che può essere definito mente o anima. E’ evidente il sistematico finalismo che sussiste in tutti gli esseri viventi, teso alla sopravvivenza dei singoli individui e alla perpetuazione della relativa specie. E’ indubbiamente riduttivo che, nell’inserire il genere umano nel novero di quello dei primati, si ignori totalmente un finalismo superiore a quello animalesco anzi menzionato, e si giunga a designare l’uomo “una scimmia in posizione eretta”, come pretende Desmond Morris. La finalità della mostra “La scimmia nuda” , come asserisce la sua curatrice Claudia Lauro, è quella di evidenziare che gli uomini non debbono considerarsi al di sopra ma all’interno del mondo animale. Sicuramente l’uomo deve rispettare tutte le creature viventi nel mondo, non considerarle semplici oggetti di cui disporre a suo piacimento, tuttavia ritenersi al livello dei primati, considerarli dei parenti più o meno remoti, è cosa fuorviante. Secondo il finalismo anzi menzionato, se l’uomo è assurto ad una condizione intellettuale abissalmente superiore a quella degli animali, anche delle specie più evolute, è mistificante disattendere questa obbiettiva realtà e tendere a svilirne il valore. Ritenere che l’uomo ed il primate discendano da un unico antenato, “Una creatura antica né scimmia nè uomo, in possesso degli elementi fondamentali di entrambi”, come stabilisce Jan Tattersall, può rientrare in una procedura evolutiva stabilita dal nostro Creatore, tuttavia inserita in un finalismo che ci ha condotti oggi ad essere uomini ben distinti dai primati. Lo scopo della mostra non è tuttavia solo quella di voler inserire l’uomo, pari tra pari, nel mondo animale. Appare invece un pretesto per propinare una concezione culturale immanentistica, presentando la teoria darwiniana come fattore di superamento di una accezione trascendente, nella quale l’uomo è considerato una creatura privilegiata di Dio e non un “glorioso accidente della storia”. A questo scopo vengono evidenziati i caratteri della
fisicità umana di maggior somiglianza con quelli scimmieschi, generalmente con penose forzature, ignorando gli aspetti più qualificanti dell’uomo, sopra tutto a livello intellettuale e morale. E’ quindi da ritenere che la mostra “la scimmia nuda” esplichi una funzione mistificante e del tutto diseducativa, in particolare sui giovani, rischiando di incrinare in loro il sentimento più sublime dell’uomo, quale è l’amore verso il Padre Creatore. Desta pertanto preoccupazione l’intento dei promotori della mostra di allestirla anche in altre città.

CHI HA PAURA DEL CREATORE DEL MONDO?

Il Parlamento Europeo stabilisce come e quando a scuola si può parlare dell’origine del Mondo: risoluzione 1580/2007

La risoluzione n. 1580 del Parlamento europeo, approvata il 4 ottobre 2007 recita così: “Per alcune persone la Creazione, quale argomento di credo religioso, dà senso alla vita. Tuttavia, l’Assemblea parlamentare è preoccupata. … Se non stiamo attenti, il creazionismo potrebbe diventare un pericolo per i diritti umani, che sono una priorità per il Concilio d’Europa” (2).

Più avanti, la risoluzione esplicita che il Creazionismo è una forma di fondamentalismo che presenta la sua versione più sottile nel “Disegno intelligente” che è sostanzialmente in contrasto con la teoria dell’Evoluzione. I diritti umani sono dunque seriamente minacciati dall’idea di una Creazione del mondo, condivisa – si noti – da miliardi di persone sparse nel mondo intero. Che cosa è realmente in pericolo? Risponde la risoluzione: “Il totale rifiuto della scienza è uno dei più seri attentati ai diritti umani e civili” (12). E più avanti, si afferma addirittura che “se viene negato ogni principio di evoluzione, è impossibile il progresso della ricerca medica nella lotta contro l’AIDS e contro i rischi dei cambiamenti climatici.” (11). Vorrei esprimere due considerazioni a proposito di questa dichiarazione ufficiale del Parlamento Europeo, “indirizzata a tutti gli Stati membri e specialmente alle loro autorità nel campo dell’educazione” (19).

La prima riguarda il concetto di “creazione”; la seconda riguarda il concetto di scienza. “La creazione – si dice – dà senso alla vita”: non mi pare poco! Subito dopo però si precisa che deve rimanere confinata nell’ambito del proprio credo religioso, e non deve avere nessuna ricaduta sulla “democrazia”, sui “sistemi educativi” e sulla didattica della scienza. In questi ambiti, infatti, si deve lasciar posto solo all’Evoluzione, l’unico sapere scientifico ammesso. Volevo osservare, a questo proposito, che il concetto di creazione non è antitetico a quello di evoluzione, ma a quello di “nulla”. L’evoluzione di qualcosa ha senso solo se prima il soggetto ha iniziato ad esistere. La creazione, in altre parole ancora, vuol essere la risposta alla domanda: “perché esiste il mondo?”; l’evoluzione invece, è l’interpretazione delle differenze presenti nel mondo e del loro dispiegarsi nel tempo. L’evoluzionismo è il contrario del fissismo, non del creazionismo e questo concetto appartiene al sapere largamente condiviso.

Se l’intento della risoluzione era quello di isolare e colpire i creazionisti fondamentalisti, ovvero coloro che ritengono che i primi versetti del libro della Genesi abbiano un significato letterale di tipo scientifico, bisognava dirlo con maggior chiarezza, distinguendoli dalle centinaia di milioni di persone che invece credono semplicemente che il Mondo abbia un suo Creatore, pur accettandone o non, l’evoluzione. La seconda considerazione che propongo è invece di natura epistemologica. Il messaggio che il Parlamento europeo vuole lanciare è molto chiaro e dice all’incirca così: “Gli europei possono pur credere in un Creatore, purchè lo facciano solo nella loro sfera privata, di tipo religioso; è per loro vietato parlarne in pubblico e soprattutto insegnarlo a scuola in un orario che sia diverso da quello dell’ora (facoltativa o assente) di religione”. “A scuola – prosegue il comunicato – si parla solo di Evoluzione, cioè di continuità tra il mondo inorganico e il mondo organico, realizzatasi grazie al duplice meccanismo della mutazione e della selezione naturale”. In realtà, vorrei osservare che se la scienza è un processo che ricerca le cause dei fenomeni attraverso un metodo rigoroso e sperimentale, non si può arrestare di fronte al problema della causa ultima, dicendo che non ha senso parlarne, perché esula dal suo campo di indagine. Si utilizza l’indagine rigorosa e sperimentale per scoprire le cause di ogni fenomeno, e di causa in causa si arriva all’inizio. Perché vietare agli insegnanti di parlare di una Causa incausata capace di rendere ragione di tutte le cause successive individuate e appena studiate? E’ preferibile ammettere che la scienza non sia in grado di rispondere alla “domanda delle domande”, adducendo come motivazione il suo statuto epistemologico? Possibile che non si possa parlare di un Creatore almeno come un’ipotesi da affiancare a quella, evidentemente preferita dal Parlamento europeo, che non prevede proprio nulla? Non è lecito, a questo punto, che sorga un dubbio?

Non è che l’Europa abbia paura che nelle sue scuole sia consentito ai bambini di giungere ad un Creatore attraverso un pensiero razionale, che non sia cioè quello di tipo mitico che si ritrova nelle religioni? Non è per caso che si voglia relegare il pensiero di Dio nella sfera “irrazionale”, in modo che perda di credito nelle future generazioni? Mi auguro che il sospetto non sia fondato, ma mi ricorda molto da vicino il monito che Benedetto XVI ha lanciato a Ratisbona, nella sua celebre lezione magistrale, nel passaggio in cui si riferisce all’attuale contesto epistemologico: “Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. Il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come ascientifico o pre-scientifico. Con questo però ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.” Che cosa tolgo alla biologia – ha detto il nostro Vescovo – se dopo aver analizzato e descritto tutta la biochimica complessa di una cellula, spiegandone i meccanismi e tutte le cause intermedie, nomino la Ragione (Logos) come sua causa ultima? E’ proprio curioso: il Parlamento Europeo che si occupa di promuovere i diritti umani, invita le autorità preposte all’educazione a non nominare mai il Creatore ai loro giovani cittadini, perché, non si sa mai, “potrebbe dare senso alla loro vita”(2). Parola del Parlamento Europeo, evoluto ma non creato!

Il razzista abortista e determinista Watson.

Elementare Watson! Perchè elementare? I giornali di oggi riportano tutti, stupiti, la notizia che il celebre scienziato ateo Watson è un razzista: bella scoperta! Lo è esattamente come tutti i suoi predecessori che hanno ridotto l’uomo al suo dna, negando la libertà e l’anima umana, e che, di conseguenza, hanno appoggiato l’eugenetica, l’aborto, la selezione embrionale ecc.Watson è solo un dei tanti esponenti del neopositivismo odierno, solo che è più coerente e dice tuto quello che pensa, anche sui neri (non solo sugli handicappati e sui bambini non pefetti da eliminare). E’ razzista come lo furono, a tratti, Darwin, suo cugino Galton, il suo discepolo T.Huxley (lo dice anche Dawkins nel suo ultimo libro) e tutti gli eugenisti anglosassoni e tedeschi alla fine dell’ottocento e per metà del Novecento.

Corriere della Sera – NAZIONALE – sezione: Cronache – data: 2007-10-18 num: – pag: 29 autore: Guido Santevecchi categoria: REDAZIONALE

Nuova provocazione del padre del Dna. «Senza fondamento e offensiva» Watson: «Neri meno intelligenti dei bianchi» Frase choc del Nobel. La Montalcini: indignata DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA – Può un monumento vivente della scienza, un Premio Nobel paragonato a Darwin e Copernico per la scoperta della struttura del Dna, dire impunemente che i popoli di pella nera sono meno intelligenti dei bianchi? Può attribuire questa teoria ai dati della genetica? È quello che si sta chiedendo la Commissione per i diritti umani di Londra dopo che il professor James Watson, 79 anni, americano, ha deciso di aprire la sua mente a un giornale britannico. «Sono pessimista sulle prospettive dell’Africa – ha detto lo scienziato – perché tutte le politiche sociali dell’Occidente sono basate sul fatto che la loro intelligenza sia uguale alla nostra, mentre tutti i test svolti dicono il contrario». E ancora: «La gente che deve trattare con dipendenti neri sa che (il fatto che abbiamo pari intelligenza, ndr) non è vero». Non c’è speranza che la frase sia sfuggita inconsapevolmente al dottor Watson o sia stata riportata fuori contesto nel colloquio con il Sunday Times. Perché il premio Nobel del 1962 ha appena scritto nel suo ultimo libro di memorie Avoid boring people (Evitate le persone noiose): «Non c’è alcun motivo di credere che le capacità intellettuali di popoli geograficamente separati nella loro evoluzione si siano evolute in modo identico. Il nostro desiderio di considerare una uguale forza della ragione come eredità comune a tutta l’umanità non basta per fare in modo che sia così». L’esternazione ha suscitato reazioni politiche e scientifiche sdegnate. Per Keith Valz, presidente della Commissione Interni di Westminster, è «triste vedere uno scienziato di questo livello dire cose così prive di fondamento e offensive». Non c’è da credere che Watson si faccia impressionare, perché già in passato aveva invitato «gli accademici a lasciare la correttezza politica ai politici di mestiere». Anche i suoi colleghi però sono amareggiati. «Sono veramente indignata – commenta Rita Levi Montalcini -. Macché genetica, a influenzare l’intelligenza è l’ambiente. Il fatto che una persona sia nera non conta niente, il cervello è uguale se non migliore del nostro». La premio Nobel italiana conclude: «È stato lui a dire questo? Io speravo fosse stato uno Storace». Di sicuro quest’ultima battuta non dispiacerebbe a James Watson. Da quando 45 anni fa ricevette il Nobel per lo studio sul Dna, definito il più grande passo in avanti della scienza genetica nel ventesimo secolo, il professore ha corteggiato la controversia. Ha cominciato litigando con i colleghi di Cambridge con cui aveva condiviso la scoperta e il premio. Ha fatto infuriare i movimenti femministi dicendo che la dottoressa Rosalind Franklin, che non ottenne il Nobel nonostante i suoi appunti fossero stati cruciali, aveva il difetto di essere brutta e quando gli fu chiesto di spiegare il significato del pronunciamento rispose: «L’aspetto fisico è importante ». Dieci anni fa ha suggerito che le donne in attesa di figli con geni omosessuali dovrebbero avere il diritto di abortire». E, accusato di essere degno degli scienziati dell’eugenetica nazista replicò: «Era un ragionamento ipotetico. Dicevo solo che, se si potessero individuare i geni dell’omosessualità prima della nascita, molte donne sceglierebbero l’aborto. Perché la maggior parte delle madri vogliono anche diventare nonne. Non è senso comune?». Poi si è detto a favore dello screening genetico sostenendo che la «stupidità» un giorno sarà curabile ed evitabile. Nel 2000 Watson si era già occupato di geni e colore della pelle. Suggerendo un collegamento tra forte libido sessuale e neri. Allora gli scienziati americani insorsero, dicendo che il vecchio collega «sfruttava i successi passati per promuovere opinioni senza alcuna base». Invece ci furono accademici britannici che difesero il diritto a discutere in termini politicamente scorretti e Susan Greenfield, direttrice della Royal Institution, affermò: «La scienza dev’essere libera da preoccupazioni su genere e razza, niente dovrebbe fermarla sulla via della ricerca della verità». Forse però non è questo che vuole James Watson. Forse cerca solo davvero evitare di «essere noioso», come ammonisce il suo libro pubblicato dalla Oxford University Press. A costo di rovinarsi la reputazione. D’altra parte, con le sue conferenze e il suo nome, ha raccolto 100 milioni di dollari in donazioni per il laboratorio di Long Island negli Usa. Di sé dice: «In realtà non ho mai avuto una mente eccezionale». E conclude: «Mi piacerebbe se dal mio libro fosse tratto un film divertente». Chi vedrebbe nel suo ruolo? «Sacha Baron Cohen», l’attore più politically uncorrect del momento. Fosse possibile un test genetico per l’orientamento sessuale, per le madri dei gay sarebbe giustificabile l’aborto Nel futuro potrebbe diventare realtà la manipolazione dei geni in modo da far nascere solo ragazze belle

Uno splendido articolo (un po’ molto polemico), su Odifreddi e gli scientisti.

E’ verso il 1890, spiega Ortega y Gasset, che “assume la guida intellettuale d’Europa” lo scienziato mediocre. “Un tipo di scienziato senza esempio nella storia: un uomo che, di tutto ciò che occorre sapere per essere una persona intelligente, conosce soltanto una scienza determinata, e anche di questa conosce bene solo la piccola parte di cui è investigatore attivo.

Egli arriva a proclamare come virtù questa sua carenza d’informazione per quanto rimane fuori dall’angusto paesaggio che coltiva specificamente”. La scienza avanza veramente non grazie a questo tipo umano, ma a scienziati grandi e veri: quei pochi che, di tanto in tanto, sentono che la scienza “ha bisogno, come organico ordinamento del suo stesso sviluppo, di un lavoro di ricostituzione” su nuove basi. Questo “lavoro”, altamente intuitivo, “è di volta in volta più difficile e ogni volta ricollega regioni più vaste del sapere totale”. Questi veri scienziati esercitano dunque la forma più difficile dell’intelligenza, l’arte della “sintesi”. Newton fu uno di questi: non smontò la visione del mondo aristotelica, ma la spiegò come caso particolare all’interno di una teoria più ampia. Einstein fu un altro: e la teoria della relatività include la teoria di Newton come caso particolare (“ricollega regioni sempre più vaste del sapere”) e fornisce una nuova, rivoluzionaria concezione dell’universo.

Dopo Einstein, il tempo dei fisici è una dimensione dello spazio: qualcosa di inimmaginabile per l’uomo comune. In quanto intelligenza sintetica, Einstein si riconosceva un matematico mediocre (o meglio, “impaziente” nel minuzioso lavorio matematico), e si affiancò al matematico Levi Civita, simpatico ebreo napoletano, per formulare con rigore la sua teoria. In compenso, Einstein si saturò di Kant e Mach: ritenne necessario, per far avanzare la fisica, tuffarsi nella filosofia della conoscenza, ai limiti estremi della gnoseologia. Un altro raro genio del genere fu Gregorio Mendel, il monaco che, coltivando piselli, scoprì le leggi della genetica, e senza il quale non sarebbe stato possibile capire le funzioni del DNA. Un altro ancora fu Pasteur, che identificò nei microrganismi la causa delle malattie infettive, e cambiò la medicina da capo a fondo. Un altro ancora fu Mendeleieff, che intuì che tutti gli elementi inorganici minerali possono essere posti in una scala continua grazie al loro peso atomico.

Un altro ancora fu Wallace, contemporaneo più grande e misconosciuto di Darwin, scopritore della misteriosa linea geografica che, sul nostro pianeta, divide i mammiferi placentati dai marsupiali. Una volta che questi rari genii sintetici, insieme scienziati, filosofi e umanisti, hanno messo la scienza su nuove basi, subentra – per riempire di dati i campi aperti dai veri rari genii – lo stuolo degli scienziati mediocri di cui parla Ortega. Costoro, lavorando con il metodo inventato da Einstein, Mendel o Pasteur “come si lavora con una macchina” o un computer, riempiono i vuoti di dati più o meno “nuovi”. Grazie alla stabilità e all’esattezza – e insegnabilità – di questi metodi, tutto un esercito di mediocri fa progredire la scienza parcella per parcella. Gran parte del lavoro cosiddetto scientifico in fisica o biologia “è lavoro meccanico del pensiero che può essere eseguito più o meno da chiunque”: pensate ad esempio al lavoro di sequenza dei geni, ripetizione infinita degli stessi processi di laboratorio che consente la mappatura generale del DNA di ogni specie.

Ripetitivo, parcellizzato, disarticolato. Per operare, questi mediocri manovali della scienza non hanno bisogno di una vera intelligenza, anzi nemmeno “di possedere idee rigorose sul significato e fondamento del metodo” che stanno usando. Non hanno bisogno di ripensare in proprio e radicalmente ciò che hanno già intuito Einstein o Mendeleieff. Tutto ciò che devono sapere riguarda il settore piccolissimo e speciale su cui lavorano. Altri poi un giorno dovranno riordinare tutti questi frammenti in una nuova, ardua sintesi. Lui, lo scienziato mediocre, può ignorare “tutto il resto di ciò che costituisce veramente il sapere”. Il guaio è che quest’uomo mediocre, che ha lo status prestigioso di “scienziato”, su tutte le questioni che ignora (la maggior parte) si comporterà non già da ignorante qual è, ma “con tutta la petulanza di chi nel suoi problemi speciali è sapiente”. (1) Un biologo che fa la sequenza dei geni o un professore di matematica, ad esempio, “in politica, in arte, nei costumi sociali e nelle altre scienze prenderà posizione da primitivo, da ignorantissimo: però dirà la sua con la sicumera e l’aria di sufficienza dello scienziato” che è. Un simile biologo cercherà di ridurre i problemi sociali a biologia (“E’ tutta una questione di enzimi e di ormoni”); il matematico dirà che la pittura può spiegarsi benissimo in termini di lunghezze d’onda; e che la storia intera può essere ridotta ad un algoritmo. “Il fatto paradossale”, dice Ortega, “è che questo primitivo scientifico nemmeno riconoscerà che negli altri campi esistono degli specialisti”. Nelle altre questioni della vita, assai più complesse e importanti di quanto intuisca la sua povera mente specialistica, dirà la sua negando che esista bisogno di ascoltare e studiare prima chi ne sa di più. Che in politica, arte e religione non esistono i problemi che vedono gli studiosi di quei campi, che tutto è semplicissimo e che lui sa bene come risolvere tutto.

Penso che avrete riconosciuto qui il ritratto di quel certo Piergiorgio Odifreddi. Questo c…, avendo una laurea in matematica, sta dicendo la sua su: teologia e religione, creazionismo ed evoluzionismo, paleontologia e genetica, linguistica ed etnologia, storia e filosofia. E poiché Odifreddi è più c… persino di quanto sia c… un normale manovale della scienza, non stupisce che esso abbia largo spazio nelle massime tribune del cretinismo corrente, la TV e la stampa quotidiana. Quelle che della superficialità presuntuosa fanno la loro massima, la più vantata virtù. E’ un c… di grande successo, Odifreddi. Invitatissimo, specie da quando ha scritto libri del tipo “Perché non possiamo essere cristiani e tantomeno cattolici”. Naturalmente, essendo riduzionista al più ridicolo livello (ossia riduttore delle grandi questioni alle anguste pareti del suo personale cervello), Odifreddi scopre – con tre secoli di ritardo sugli atei materialisti europei – che la religione è una falsità, il cui scopo è la repressione delle masse che vengono atterrite con immagini dell’inferno. Una sua sotto-teoria, che vale la pena di citare, è questa: i polacchi sono cattolici – la più stupida delle religioni – perché hanno una lingua piena di consonanti; se parlassero una lingua più vocalica come gli inglesi, sarebbero protestanti (che è già meglio) o atei come i farmacisti francesi dell’800. Giorni fa m’è capitato di leggere su Repubblica uno scritto di questo c… presuntuoso, dov’egli fa finalmente piazza pulita del mito di Eva e di Adamo.

Mai esistiti, naturalmente. Lo ha scoperto grazie all'”orologio cellulare”, quell’accumularsi di “errori di trascrizione” nei mitocondri del DNA da cui si può – dice – stabilire senza ombra di dubbio la data di nascita dei nostri progenitori. Odifreddi ha letto da qualche parte che l’orologio molecolare si basa su un ritmo che è pari a “un errore di trascrizione ogni 10 mila anni”. Naturalmente gli sfugge del tutto la natura altamente ipotetica di questo orologio. Perché mai un errore ogni diecimila anni? In certi periodi, la cadenza poteva essere stata più o meno irregolare. Degli “errori”, per definizione, non possono avere un ritmo certo: sono imprevisti. L’ipotesi dell’orologio molecolare è un’invenzione di qualche biologo che vuole, con questo strumento saltellante, comprovare una teoria non accertata, ossia l’evoluzionismo. Ma questo non preoccupa il c…. Non ha il minimo dubbio, visto che l’ha letto in qualche libro, riguardante una materia che non è la sua. Probabilmente ignora che il DNA ha vari livelli di “correzione degli errori”, per cui è la materia più stabile dell’universo: squali e coccodrilli esistevano prima dei dinosauri e 300 milioni di anni dopo sono ancora fra noi, identici ai loro antenati fossili. Gli “errori” non corretti, e che perciò restano nel DNA, sono quelli che avvengono nelle zone del DNA che non hanno influenza sull’organismo, non lo rendono mostruoso né migliore: sono le mutazioni “neutrali” di Kimura. Odifreddi ignora tutte le ansie, i dubbi e lo sgomento dei veri biologi molecolari, quelli che stanno nella prima linea avanzante della loro scienza, sulla natura sempre più complessa della cellula: un essere vitale unicellulare è complesso come “un organismo pluricellulare”, dunque non è una vita “primitiva e più semplice”. Ignora la cautela ipotetica con cui questi avanzano a tentoni nel buio: prende questo avanzare tentoni come oro colato e verità ormai accertata. Per Odifreddi, la Eva mitocondriale (con l’orologio saltellante) è nata 150 mila anni fa. L’Adamo cromosomico, 75 mila anni fa. Gli pare chiarissimo e non bisognoso di spiegazioni che il suo Adamo abbia potuto “conoscere” una Eva vissuta 75 millenni prima Semplicemente, Eva era già sposata, dice, ma con Adami “che hanno avuto una discendenza che prima o poi si è arenata”. E passi. Il bello arriva quando da esperto di biologia, l’aritmetico salta a giudicare la “mitologia”. La “mitologia antica”, quella della Grande Madre, era “giusta” perché conferma ciò che dice quello che Odifreddi crede essere la “scienza”: ossia sottolinea la “centralità primordiale della donna, la sua profusione di fertilità e di abbondanza”. Solo dopo, assicura, gli uomini, avendo preso il potere, hanno affiancato a Iside e ad Afrodite “figure femminili di morte, da Kali ad Eva, il cui mito non è altro che una delle innumerevoli variazioni sul tema della subalternità, biologica e morale, della donna rispetto all’uomo”.

E così, l’intero scibile delle “cose prime” è sistemato: è tutta una questione di maschilismo repressivo. Facilissimo. Come mai nessuno ci ha pensato prima del c…? In realtà ci hanno pensato. Già lo sapevano i farmacisti massoni dell’ottocento; solo che il c…, non essendo al corrente (ignorantia elenchi, direbbe Aristotile) non lo sa. Siccome Odifreddi è un materialista del tipo più rozzo e antiquato, e inoltre il perfetto mediocre descritto da Ortega, quello che non ammette specialisti nei campi in cui fa le sue puntate da c…; sarà ovviamente inutile ricordargli come hanno “letto” questo rapporto della femminilità con la morte i grandi studiosi di etnografia religiosa. Il pensiero mitico è un pensiero eminentemente metafisico, una sfera che sta un po’ troppo al disopra del cranio di Piergiorgio. Coloro che lo elaborarono non partivano da orologi molecolari e dal primato della materia. Per loro, la Dea Madre era fin dal principio anche Kali che danza sui campi crematori, vestita di teste e mani di cadaveri. Ciò perché il “femminile” dà la vita biologica, e ciò che ha vita biologica, ineluttabilmente, morirà. Una nozione che non si studia nei laboratori, ma che fa parte della comune esperienza umana. Solo che gli uomini e le donne, un tempo, non si contentavano di questo destino biologico. Cercavano una vita che fosse al di là della vita, che fosse liberazione dalle catene dell’esistere zoologico. Ragionarono che ogni cosa che esiste di qua ha un lato “materiale” – la sua composizione fisico-chimica – ma anche un lato “formale” o essenziale, che è più importante. Un coltello può essere fatto di quasi ogni “materia” dura, ferro o pietra o rame; ma ciò che lo rende “coltello”, ossia intelleggibile, è la “forma” che gli ha dato il fabbro – non la forma materiale, che può essere varia, ma l’intenzione razionale, il “logos”. E questa forma non è nella materia, ma è prima “pensata” nella mente dell’artigiano.

Allo stesso modo, un seme ha dentro di sé la potenzialità superiore di essere albero (non occorre studiare il DNA, basta essere intelligenti contadini): e questa potenzialità è dentro il seme, ma è cosa totalmente diversa dalla sua materia. Quando quella potenza si attua, diventa atto, essa rivela un’intelligenza assoluta, inimmaginabile a priori. Dunque, gli uomini (e le donne) cercavano questa vita che è sopra la vita, che è invisibile perché è intelligenza. Diedero a questa vita il carattere simbolico di virilità, perché nella famiglia umana, se è la femmina a dare la vita biologica, è il padre ad insegnare al figlio a diventare umano: dalle arti della caccia al pronunciare la giustizia in tribunale. Fare giustizia significa applicare al caso specifico una norma generale, che non è originariamente nei codici, ma “scritta dentro”. Ognuno sa, se non inganna se stesso o non persegue un interesse egoistico, quali azioni sono giuste e quali ingiuste. E ognuno può stabilire chi ha torto e chi ha ragione in una disputa, in base a giustizia, con accurata ricerca. Il mondo della caccia, come del tribunale, è tutto un esercizio dell’intelligenza impersonale. Viene da una sfera che non è biologica, ma oggettiva. I geometri greci – al contrario di Odifreddi, che non si lascia stupire da nulla, che ha capito già tutto – seppero ancora meravigliarsi del fatto che gli angoli di un triangolo fanno sempre 180 gradi: e che questa verità è “lì” anche prima che l’uomo la conosca, anzi indipendentemente dal fatto che la conosca. Come dice non un profeta biblico, ma Max Horkheimer, la ragione era un ordine presente non solo nella mente dell’uomo, ma nel mondo oggettivo. In quei tempi antichi (dove gli Odifreddi sarebbero stati esposti al ludibrio che loro spetta, incapaci di capire persino i principii della loro stessa scienza), dice Horkheimer, “il grado di ragionevolezza di una vita umana dipendeva dalla misura con cui si armonizzava con la totalità” della Ragione presente oggettivamente nel mondo. Per esempio, dei giudici disonesti possono fare deliberatamente ingiustizia al litigante che ha ragione, dando ragione a chi ha torto; ma questo non indebolisce per nulla la legge oggettiva della giustizia, rende solo quei giudici indegni, e traditori della verità. “La struttura oggettiva era la pietra di paragone per saggiare la ragionevolezza dei pensieri e della ragione individuale”, dice Horkeimer. (2)

Invece oggi, aggiunge, la ragione è divenuta un fatto soggettivo, “e interessa soprattutto il rapporto dei mezzi ai fini, l’idoneità dei procedimenti adottati per giungere agli scopi”. Quanto a tali scopi “si danno per scontati e si ritiene che si spieghino da sé”. Come vedete, qui Horkheimer sta dicendo la stessa cosa di Ortega e dei sapienti metafisici antichi: e indica la differenza fondamentale dallo scienziato c… – ossia Odifreddi – che si occupa di procedure e mezzi, e dallo scienziato sapiente (Einstein, Mendel, Pasteur) che si occupa dei fini. Esattamente di quei fini che Odifreddi, il c… scientifico, ritiene “si spieghino da sé” e che non ci sia bisogno di domandarsi se sono veri o no, giusti o no. Di questo si occupa la religione di cui un Odifreddi, in quanto c…, non sa giustamente che farsene. E per questo Cristo è “vir”, e non femmina. “Ciò che nasce dalla carne [della donna] è carne, ciò che nasce dallo spirito è spirito” e quindi oggettivo. Quindi eminentemente “sottratto alla morte”. La funzione del padre, di ogni padre, è quella di inserire il figlio biologico nella realtà superiore alla biologia, nell’impersonale, eterna verità oggettiva. C’è un’acqua femminile, l’acqua di pozzo della Samaritana, che chi la beve torna ad aver sete; e c’è un’acqua che zampilla da sempre e per sempre, che toglie per sempre la sete. Ma non parlate di Cristo al c…. Il c… risponde: “Del Gesù ‘storico’ c’è poco da dire, letteralmente, perchè di lui non ci sono praticamente tracce nella storia ufficiale dell’epoca: in tutto una ventina di righe nelle opere di Plinio, Tacito, Svetonio e Giuseppe Flavio, tra l’altro di incerta interpretazione (il ‘Chrestus’ di Svetonio) o dubbia autenticità (la lettera a Traiano di Plinio). Se dunque veramente Gesù è esistito, dev’essere stato irrilevante per i suoi contemporanei, al di fuori di una ristretta cerchia di parenti, amici e seguaci”. E’ bello sapere che la corrispondenza fra Traiano a Plinio, la cui autenticità è ritenuta certa da fior di storici professionali, ci sia invece dichiarata dubbia da uno che si occupa di logaritmi.

Ma nelle sue letture storiche e del primo cristianesimo Odifreddi è rimasto evidentemente fermo a un secolo fa, a Renan. Da allora quella “ventina di righe” si sono parecchio moltiplicate, con le più profonde e specialistiche ricerche storiche. Odifreddi non sa ad esempio nulla del cosiddetto “editto di Nazareth”. (3) Una lastra di marmo in greco, conservata a Parigi, che contiene un “diatagma Kaisaros”, un ordine di Cesare. Il Cesare in questione è Nerone, e l’ha scritta è del 62, un trentennio dopo la crocifissione) in cui Nerone dà ordini molti strani: 1) Vieta “l’adorazione di uomini” (“tòn anthròpon thriskèias”) come empietà contro gli dèi, e dice che sarà considerata una colpa religiosa. 2) Vieta la violazione delle tombe per estrarne cadaveri. 3 ) E la vieta, fatto ancora più strano, con carattere “retroattivo”. Infatti dice, nella lapide: “Se qualcuno denuncia che uno ha tirato fuori defunti con inganno e li ha trasferiti ad altro luogo, o spostato pietre tombali, [il colpevole] va condannato a morte”. Insomma, nel 62, Nerone vieta un delitto che pare sia stato già commesso: qualcuno ha portato via un corpo spostando la pietra di un sepolcro. Per questo, commina una pena d’inaudita durezza, la pena capitale. E fa affiggere questo suo ordine non in tutto l’impero in generale, ma proprio a Nazareth. Ciò, all’insaputa di Odifreddi, dice qualcosa agli storici che l’hanno studiata. La lapide di Nazareth ha una spiegazione chiara, se si legge quello che dicevano gli ebrei nei Vangeli, e ciò che ripete in assai più di venti righe il Talmud, in scritti di quegli anni. Sostanzialmente questo: “I suoi discepoli hanno portato via il Nazareno dalla tomba subornando le guardie”. E’ la scusa con cui i giudei cercavano di smentire la resurrezione di Cristo. Ma perché Nerone se ne occupa? Come Odifreddi non sa ma come gli storici specialisti hanno da tempo appurato, alla corte di Nerone – più precisamente attorno a Poppea, la giudaizzante – agiva già la potente e nota lobby. E’ quasi certamente questa ad aver dettato il “diatagma Kaisaros”, e a farlo affiggere a Nazareth, non poniamo a Selinunte o ad Atene.

Ecco una “traccia nelle fonti ufficiali dell’epoca” che il c… matematico, matematicamente ignora: e che conferma i Vangeli e le polemiche degli ebrei su Gesù con estrema precisione storica. Ancora 30 anni dopo l’esecuzione di Gesù, i farisei si sforzavano di tappare la bocca chi sosteneva che Gesù era risorto, evidentemente perché la voce continuava a diffondersi. E il fatto istruttivo per noi contemporanei è vedere come gli ebrei facevano, allora, a tappare le bocche: facendo emanare leggi ad hoc dall’autorità costituita. L’editto di Nazareth, sostanzialmente intima: è vietato per legge dire che Cristo è risorto. E’ illegale. Lo ordina l’imperatore. Chi lo dice sarà perseguito come violatore di tombe. Molto istruttivo: anche oggi, dire la verità è esporsi ai rigori delle leggi Mancino e Mastella. Sono i Neroni che la lobby può permettersi con questi chiari di luna. Ma Odifreddi non sa. Ignora che anche la ricerca storica ha fatto passi avanti, non è rimasta al teorema di Fermat. Oddifredi non crede a Gesù, e fa benissimo: Gesù non è venuto per scimpanzè geneticamente modificati. Ma si perde il meglio come specialista. Non sa ad esempio che quel Nazareno di cui bisogna dire (come dice Odifreddi) che è stato sottratto dalla tomba rigido, era uno scienziato. Non uno scienzato alla Odifreddi, sia chiaro, non un manovale delle equazioni. Stiamo parlando dello scienziato del primo tipo, dei genio delle grandi sintesi. Come? La prova è proprio nel Vangelo. Là dove Gesù dice che Abramo esultò a vedere il suo giorno, e i farisei: non hai nemmeno cinquant’anni, ed hai visto Abramo? Lui risponde: “Prima che Abramo fosse, Io Sono”. I farisei sono pur sempre più intelligenti di Odifreddi: capiscono benissimo che Gesù si dichiara Dio (“Io-Sono” è il nome che si dà YHVH nel roveto ardente) e perciò si provano a lapidarlo. Ma quel che sfugge loro perché la fisica allora era ancora quella classica – è che questa enunciazione di Gesù è una conferma della fisica post-einsteiniana. Come si diceva all’inizio, dopo Einstein, per i fisici d’avanguardia, lo spazio-tempo è un tutto unico. Il tempo è una dimensione dello spazio, come l’altezza e la profondità. Lo spiega Louis De Broglie, premio Nobel: “Nello spazio-tempo, tutto ciò che per ciascuno di noi costituisce il passato, il presente, il futuro è dato in blocco. Ciascun osservatore, col passare del suo tempo, scopre per così dire nuove porzioni dello spazio-tempo, che gli appaiono come aspetti successivi del mondo materiale; ma in realtà l’insieme degli eventi che descrivono lo spazio-tempo esiste già prima di essere conosciuto”. O come dice Hermann Weyl: “Il mondo oggettivo non avviene, semplicemente è”. Stiamo parlando qui di grandi scienziati, che sono il contrario di Odifreddi anche in questo: non sono presuntuosi, ma umili. Ma ciò che De Broglie umilmente intuisce, e che ci trasmette con faticose parole traducendo le formule fisico-matematiche, è né più né meno che lo sguardo di Dio sul mondo. Noi passiamo dal passato al futuro, strisciando sulla dimensione-tempo come lumache sul terreno, in un senso solo. Per Dio, passato e futuro “sono” nel Suo eterno presente. Abramo conosce Gesù, in questa visione. I dinosauri sono ancora fra noi, solo in un angolo spazio-temporale a noi ormai inaccessibile; e anche ciò che per noi ancora non è, il futuro, è “già” qui. Gli evoluzionisti darwiniani (Odifreddi non può mancare nel novero di tali c…) si immaginano che gli antidarwinisti (“creazionisti”, spregiativamente) abbiano in mente un Dio – ingegnere, un fabbricante che ha fatto prima la mosca, poi i mammiferi, poi l’uomo, progettando minuziosamente ogni vivente, elitra, pinna ed occhio, come un ottimo artigiano solo più potente, tutto immerso nel mondo materiale. Ma questa è una caricatura del Dio a cui crediamo – o meglio, a cui non crediamo – che sappiamo Essere. Dio, è quello che ci dice in uno sprazzo De Broglie: per lui, tutto è “compresente”. Non ha fatto prima gli insetti, poi i rettili e poi i mammiferi e gli Odifreddi quadrumani con pollici opponibili: ha fatto tutto insieme. Ha fatto tutto “ora”. Questo vastissimo “ora” di Dio, dove non solo Abramo parla con Gesù, non solo i dinosauri non sono estinti, ma ancor più, dove il futuro influisce sul presente e lo fa essere quel che è, almeno quanto sul presente influisce il passato – il passato per cui siamo ciò che siamo oggi. Ci pare normale che il passato abbia influito su di noi; ma impossibile che il futuro – ciò che saremo, che saranno i nostri nipoti – stia già influendo su di noi “adesso”. E’ ciò che i cretini chiamano “finalismo”, vietato (per legge) nella scienza sorpassata del XIX secolo. Ma nello spazio-tempo post-einsteiniano, ciò è la pura verità. Là dove i cretini vedono una “evoluzione”, Dio (e un pochino anche l’umile, modesto De Broglie) vede una “architettura”. Per lui tutto è presente, tutto è stato fatto “ora”, nulla si sta facendo, nulla è incompleto. “Prima che Abramo fosse, Io-Sono”. E dice la stessa cosa quando assicura: “Non sono il Dio dei morti, ma dei viventi”. De Broglie lo capirebbe al volo (anzi lo capisce, nel Presente in cui ora vive per sempre). Tutto questo, si capisce, supera di troppo il c… televisivo. Il quale non ha capito nemmeno la fisica post-ensteiniana, che dovrebbe essere un campo vicino al suo. Bene, a questi è affidata ora la realtà presente. Agli Odifreddi, agli Augias, agli Scalfari: a loro non la si fa. Applausi. Maurizio Blondet ——————————————————————————– Note 1) Josè Ortega y Gasset, “La ribellione delle masse”, capitolo “La barbarie dello specialismo”. 2) Max Horkeimer, “Eclisse della Ragione”, citato da Giuseppe Sermonti, “Crepuscolo dello Scientismo”, 2002, pagina 136. 3) Marta Sordi, “I cristiani e l’impero romano”, capitolo “I cristiani e Nerone, dalla tolleranza alla persecuzione”. (Maurizio Blondet, www.effedieffe.com)

Mutazione ed evoluzione.

La mutazione è la fonte della variabilità genetica all’interno di un individuo e quindi della specie. La mutazione crea novità, rimescola le carte, fa uscire nuovi assi, fluidifica il DNA; senza di essa tutto rimarrebbe così com’è, rigido, uguale a se stesso di generazione in generazione. La prima cellula non avrebbe potuto modificarsi e avrebbe popolato il Pianeta di organismi unicellulari tutti uguali tra loro. Il primo pesce avrebbe continuato a generare pesci e non avremmo avuto alcun vertebrato terrestre. Insomma, senza la mutazione la vita rimane rigida, congelata nelle sue forme e nei suoi meccanismi; con la mutazione diventa come una plastilina che assume le forme in cui l’ambiente la modella.

Ma cos’è la mutazione? E’ un errore nella duplicazione del DNA in vista della formazione dei gameti per cui si crea un nuovo DNA che non è esattamente uguale all’originale e quindi può trasmettere qualcosa di nuovo alle generazioni successive. L’errore avviene con un ritmo di circa uno su un miliardo di battiture. E’ un tasso infinitesimale, trascurabile. Perché avviene? Perché le basi azotate, adenina, citosina, guanina e timina, sono abbastanza simili tra loro da un punto di vista chimico (appartengono alla stessa specie di molecole) e possono quindi intercambiarsi durante la duplicazione, per errore. L’errore in realtà è un meccanismo fisiologico di flessibilità del sistema; può accadere perché il sistema non è rigido. Non si tratta quindi di qualcosa di imprevisto che non dovrebbe accadere mai: è un evento contemplato dal sistema stesso. Se questo fosse rigido, le basi azotate non sarebbero legate con legami a idrogeno e quindi non potrebbero separarsi facilmente per consentire la duplicazione del DNA.

In altre parole la possibilità di cui il DNA dispone di potersi autoduplicare, così come un originale può essere fotocopiato, è unica tra tutte le macromolecole biologiche ed è necessaria in funzione della riproduzione; tuttavia questa proprietà ha un prezzo: il DNA dev’essere apribile, come le pagine di un giornale, e quindi i legami tra le basi azotate devono essere deboli. Questa debolezza di legame rende possibile qualche raro errore. Evidentemente però, questo errore non ha nulla a che fare con il senso della duplicazione, che rimane intatto. Di fatto, ogni genitore ha figli della stessa specie. Si tratta di un meccanismo fortemente conservativo, che non ammette variazioni significative, cioè che riguardano la sostanza. Non si capisce come si possa fondare su questo mirabile sistema autoconservativo un’ipotesi scientifica di spiegazione della nascita delle forme. Sarebbe come pretendere che gli inevitabili refusi di stampa dei Promessi Sposi fossero in grado di generare una nuova trama per Renzo e Lucia!

D’accordo, questa è solo la mutazione puntiforme, ma esiste anche la possibilità di delezione, di traslocazione, di inserimento, di crossing over di frammenti interi di DNA. E’ vero, ma in questi casi, che, ripeto, devono accadere proprio durante la meiosi, si producono variazioni pericolose in quanto viene alterata una parte importante del messaggio, non solo una lettera, ma un paragrafo. Quando invece generano nuove combinazioni di geni, come nel crossing over, non fanno che arricchire la variabilità, ma sempre all’interno della specie. E’ come quando, osservando un bosco della nostra montagna, notiamo infinite sfumature di verde, ma sempre di foglie e di alberi si tratta. E’ da notare poi che la mutazione interessa circa il 2% del DNA, perché il 98% del DNA non codifica per alcuna proteina, quindi le sue eventuali variazioni non sono considerate significative. Ma, poiché conosco bene l’ostinazione con cui gli evoluzionisti si aggrappano a queste infinitesime variazioni, voglio aggiungere una considerazione che mi riserbo come un asso nella manica, all’ultimo giro di una folle partita. Ammettiamo pure che una mutazione abbia prodotto una novità significativa in un gene che codifica per un enzima, durante la formazione del gamete che andrà a fecondare un uovo. Ammettiamo pure che sia una mutazione dominante (altrimenti deve avere una controparte uguale nell’uovo…). Che cosa potrà mai accadere di nuovo? Nulla. La novità si ferma lì, all’enzima prodotto. Perché? Perché l’enzima interviene in una reazione chimica che non è né l’unica dello zigote (la nuova vita che si sviluppa) né tantomeno è isolata.

Ogni reazione chimica della cellula appartiene ad un sistema, ovvero ad un network complicatissimo e collegatissimo, per cui la novità introdotta viene prontamente depotenziata dal contesto in cui viene ad operare. O arresta il sistema, così come un anello che manca in una collana può impedirle di chiudersi, oppure lo modifica in un dettaglio. E’ il sistema che occorre cambiare, se si vogliono novità, non il singolo “pezzo”. Come se nella catena di montaggio della vecchia “cinquecento” si fosse modificato solo il volante, o solo una candela, o solo l’autoradio… la nuova versione non avrebbe mai visto la luce. Insomma, la sensazione che abbiamo dopo la decifrazione del genoma umano, cioè dopo la lettura di tre miliardi di basi azotate, è che non abbiamo scoperto il segreto della vita che invece pensavamo di trovare, dopo aver sezionato invano il cuore, il cervello e ogni singola cellula. Anzi, sembra che il DNA si faccia gioco delle nostre pretese: una rana ne possiede molto di più di un uomo; molte sequenze di geni sono comuni tra animali enormemente differenti tra loro; un verme di 956 cellule ha circa ventimila geni come un uomo.

Il mistero della vita si è velato ulteriormente, come un dispetto ai nostri laboratori altamente tecnologici. Sezioniamo l’animale fino ad attraversarlo senza aver mai visto in faccia la vita. Perché la vita è altrove. La vita è l’organizzazione che viene donata al sistema dall’esterno, per cui ogni componente si mette a funzionare e a fare gioco di squadra. Senza questo ordine imposto dall’esterno, nessun pezzo fa quello che deve fare. I pezzi sono quasi indifferenti come numero e come tipo; quello che conta è il progetto che li rende vivi. Questo progetto è la vita, che si serve certamente dei “pezzi” come i geni, le proteine, gli zuccheri, i grassi, l’acqua, i minerali,… ma ne è sempre trascendente. “Cara mutazione ti scrivo, così mi distraggo un po’…” ma la vita, la cerco altrove.

La vita e le sue cause seconde.

L’autorevole antropologo cattolico Fiorenzo Facchini scrive dalle pagine de “L’Avvenire” (Agorà, 2 agosto 2007): “Di per sé nella visione darwiniana viene esclusa l’idea di disegno e anche l’uomo viene visto come un evento fortuito. Ma in una visione evolutiva aperta al trascendente, il progetto di Dio sulla creazione può realizzarsi attraverso le cause seconde, attraverso il corso naturale degli eventi senza dover pensare a interventi miracolistici, fermo restando l’intervento diretto di Dio per l’anima dell’uomo.”                                                        Non avrei alcun dubbio a credere che anche per gli esseri viventi Dio si sia servito di cause seconde per continuare la sua azione creatrice, così come ha fatto per le stelle o per le montagne, se però queste fossero quelle reali, non quelle fittizie. Per la teoria dell’evoluzione gli organi, gli apparati, le reti metaboliche, il codice genetico, la coscienza… sono solo “incidenti congelati” (Boncinelli; Mayr) ovvero casuali e fortuite combinazioni di materia che avrebbero potuto benissimo non aver mai visto la luce.

“Il nostro numero è uscito al lotto!” afferma perentorio il premio Nobel Jaques Monod nel suo “Il caso e la necessità” del 1970. E Stephen Gould, forse il più grande paleontologo dei nostri tempi (recentemente scomparso) rincara la dose: “se il gioco dell’evoluzione potesse ripartire da capo, noi potremmo benissimo non uscirne più fuori”. Insomma, queste benedette cause seconde non sarebbero “cause”, ma “eventi” irripetibili, senza alcuna razionalità, senza alcun progetto: in pratica non esistono. Le stelle hanno le loro cause seconde: la massa e la forza di gravità. Le montagne hanno i moti convettivi del mantello terrestre. Le automobili hanno i loro ingegneri. La “Gioconda” ha il suo genio. Perfino il graffito ignobile della metropolitana ha il suo autore: solo gli esseri viventi sono senza “firma”! E nessuno deve stupirsene, pena la scomunica dall’accademia della scienza!                                                                                                                                                 La cellula, così come ogni essere vivente, costituisce la massima “complessità” disponibile in natura, quindi esige la massima “informazione”, ovvero il massimo della “progettualità”; che cosa propone la teoria dell’evoluzione, a fronte tutto questo: la mutazione, che è un “errore” e la selezione naturale, che è l’ambiente. Nulla che abbia competenza morfogenetica! Con gli errori di battitura non si possono certamente spiegare i testi, così come il paesaggio non può in alcun modo determinare le forme degli esseri viventi. Abbiamo bisogno di una teoria che faccia i conti con questa complessità, che sappia inglobare la finalità presente in ogni struttura, che soddisfi le esigenze della nostra ragione.

Fin che il discorso rimane sulle generali, la teoria dell’evoluzione continua ad esercitare il suo fascino: è, in fondo, quell’idea di progresso che rappresenta lo stimolo quotidiano al nostro lavoro, ma quando si analizzano le applicazioni concrete della teoria, se ne scopre tutta l’inadeguatezza. Nessuno che osi anche solo lontanamente dare una spiegazione evoluzionistica della nascita della prima cellula, o dell’invenzione del codice genetico, o ancora del passaggio dall’acqua alla terraferma, o ancora della formazione della placenta, o, infine, della comparsa dell’uomo. L’uomo nasce – ci si vuole far credere – per ergersi diritto sopra le erbe della savana e fuggire di fronte ai felini! Si crede all’evoluzione perché non si sa a cos’altro credere! Questa è alla fine la posizione di molti scienziati. Ma non è serio ragionare così. Vogliamo dati concreti, vogliamo spiegazioni razionali, vogliamo comportamenti ripetibili, vogliamo delle leggi. La recente decifrazione del Genoma Umano ci consegna una nuova verità: speravamo che il segreto della nostra vita fosse scritto nella biblioteca del DNA (tre miliardi di caratteri, ovvero di coppie di basi azotate) ma non è così. Abbiamo solo ventimila geni, più o meno come un topo o come un verme; abbiamo meno DNA di una rana. Le istruzioni per fare il nostro corpo in tutta la sua complessità non si trovano nei nostri geni, così come il nostro pensiero non si trova nei nostri neuroni. Siamo fatti di geni e siamo fatti di neuroni, ma sia il progetto che il regista si trovano “altrove”. Credo che la nostra ragione postmoderna debba compiere il grande passo di riconoscere che non ci è possibile individuare le basi materiali del progetto dell’essere vivente, perché non esistono. La vita di un animale è proprio questo “disegno” individuale che si serve dei geni così come delle cellule, ma non è riducibile a loro. La cellula è come una grandissima orchestra formata dai migliori professionisti, ciascuno dei quali sa suonare perfettamente il suo strumento e la sua parte. Ma è il direttore che li fa suonare insieme. La teoria dell’evoluzione non ha nulla a che fare con questa “vita”. Umberto Fasol Biologo, preside Istituto Alle Stimate di Verona

Due perle dal Museo.

Alcune perle dal Museo: l’uomo differisce dalle scimmie, è
loro superiore (oso usare questo vocabolo non “scientifico”), per la
lunghezza del pene. Ma come mai? “Una delle ipotesi plausibili,
sostiene la didascalia, afferma che anche il pene dell’uomo sarebbe
diventato un organo da parata, come la coda del pavone o la criniera
del leone: una buona erezione segnalerebbe alla femmina la buona
salute
del maschio”. Insomma, una brava moglie, prima di sposarsi, dovrebbe
misurare col metro la lunghezza del membro del compagno: per il bene
della specie, chiaramente!
Sempre sull’amore: “Da un punto di vista evolutivo l’infedeltà è
vantaggiosa in quanto permette a un individuo di riprodursi di più”.

Progetto o beffardo scarabocchio?

Il dibattito sull’origine della vita e sull’origine dell’uomo, per fortuna, appassiona anche oggi e coinvolge tutti, uomini e donne, senza distinzione di età, di cultura o di religione.
Si tratta di un tema fondamentale per le ricadute importanti sul senso stesso dell’esistenza che ciascuno di noi trascorre, sia pur per breve tempo, su questo pianeta.
Non vale appellarsi all'”ipse dixit”: credo che in questo campo ci si debba appellare prima di tutto alla ragione e alla sua capacità di conoscere: la posta in gioco è troppo alta per poter delegare o, peggio ancora, per rinunciare a pensare.
La datazione dei fossili e delle rocce del nostro pianeta esclude la possibilità della creazione del sistema solare e della vita 6000 anni fa, come sostengono i “creazionisti fondamentalisti”, ma non esclude, di per sé, l’intervento di un Creatore, in tempi e modalità differenti.
L’ipotesi dell’evoluzione biologica non possiede, a mio avviso, dati e argomenti sufficienti a soddisfare le esigenze della nostra ragione.
Secondo tale ipotesi le farfalle, le balene, i cedri e gli uomini derivano da un antenato comune.
Questo antenato è costituito da un gruzzolo di atomi di carbonio, un gruzzolo di atomi di idrogeno, un pizzico di ossigeno e di azoto che, mescolati e ricombinati insieme in una pozza d’acqua di oltre tre miliardi di anni fa, sono diventati “viventi”, cioè capaci di metabolismo e di riproduzione, confinando la loro “novità” all’interno di una membrana, anch’essa vivente.
Senza alcun progetto preesitente, senza alcuna finalità, senza alcun potere previsionale sul loro futuro, senza poter ripetere il prodigio, queste molecole hanno dato inizio, a loro insaputa, al meraviglioso capitolo della biologia sulla Terra.
Per almeno tre miliardi di anni non hanno incontrato nessuno che fosse in grado di dare loro un nome e di riconoscere il merito che hanno avuto, rischiando anche di restare ignorate per sempre, perché l’uomo avrebbe potuto benissimo non apparire mai.
Non solo l’uomo, ma anche il cuore, i reni, il fegato, l’utero, le ali dell’aquila, le vertebre del serpente, il marsupio del canguro, l’occhio di un falco… tutto avrebbe potuto non accadere.
Se è accaduto, lo dobbiamo solo alla variabilità del materiale genetico e dell’ambiente.
“E’ stato l’ambiente a fare l’uomo e senza questo evento (la siccità in Africa tropicale) il genere Homo non avrebbe avuto alcun motivo di comparire, almeno lì e in quel momento” (Yves Coppens, Histoire de l’homme et changements climatiques, tr. Italiana Jaca Book, 2007).
La nostra ragione deve rassegnarsi: non c’è disegno, non c’è finalità, non c’è nulla di che stupirsi: tutte le “forme” della vita, compresa la nostra, sono un prodotto secondario dei cambiamenti climatici, quasi un effetto collaterale della scienza metereologica.
Eppure rimaniamo (come me, spero tanti…) ancora insoddisfatti da questa risposta; non sappiamo darci pace all’idea che per fare un computer ci voglia un ingegnere, ma che per fare un’aquila basti una bava di vento che la sollevi e che per fare un uomo basti un po’ di caldo e di siccità che lo costringa ad alzare la testa per vedere lo skyline sopra l’erba della savana.
In realtà, la macroevoluzione, ovvero la nascita delle differenti forme di classi di esseri viventi, non ha una spiegazione soddisfacente non perché dobbiamo aspettare ancora nuove ricerche, ma perché l’errore casuale (la mutazione) e la selezione dell’ambiente di vita non possiedono capacità morfogenetiche.
Detto in altre parole, le informazioni per costruire una colonna vertebrale all’interno di un corpo non possono ragionevolmente derivare da “errori” del DNA, perché sono di una complessità tendente all’infinito e come tale esige di essere trattata in termini di software e di brevetto.
Per “fare” la famosa giraffa, non basta allungare il collo, ma bisogna potenziare il cuore per spingere il sangue fin lassù, bisogna coordinare il movimento di tutti i muscoli, allungare i nervi, proporzionare le zampe e tutto nello stesso istante, altrimenti non “funziona” nulla.
Ogni volta cioè che si “ritocca” una parte di un organismo, si deve modificarlo tutto, perché un essere vivente non è un puzzle, ma una “complessità irriducibile” (un sistema la cui funzionalità non è presente nelle singole componenti, ma deriva dalla loro sinergìa).
L’inadeguatezza dei geni per spiegare le “forme” degli esseri viventi ha infatti fatto nascere recentemente un nuovo filone di ricerca che si spinge a cercare nuove risposte all’interno della biologia dello sviluppo (evolutionary developmental biology, evo-devo in sigla), cioè cambiando il punto di osservazione. Non più i geni, ma lo sviluppo dell’embrione.
La strada intrapresa è solo all’inizio, ma la dice lunga sulla pretesa di aver spiegato la vita a suon di mutazioni casuali e di clima variabile e volubile.
L’esplosione di quasi tutte le forme di vita nel Cambiano, nell’arco di soli 5-10 milioni di anni, ha inferto un duro colpo all’ipotesi dell’evoluzione graduale: prima compaiono tutte le grandi “architetture” e poi queste si differenziano nei dettagli.
L’evoluzione prevede un percorso esattamente opposto per la vita: le piccole variazioni sui dettagli portano, accumulandosi in tempi geologici, a differenze macroscopiche.
Le reazioni biochimiche che accadono in ogni singola cellula del corpo, perfettamente sincronizzate tra loro, coordinate nei reagenti, negli intermedi e nei prodotti finali, controllate continuamente dal fabbisogno reale di ogni molecola, costituiscono quella “complessità” che non si lascia “ridurre” ad alcuna delle sue componenti, perché postula quel surplus di “informazione” che solo è in grado di dare senso al sistema.
L’evoluzione della biochimica della cellula è ancora territorio vergine, ma la sensazione che lo scienziato ricava è che sia un’impresa senza senso: siamo in presenza di un disegno e non di un beffardo scarabocchio.
Credo che ogni tentativo di escludere l’idea di un “progetto” per la vita e per le sue forme mortifichi la ragione, che non sa accettare che una natura senza senso abbia potuto generare quell’ordine e quella logica che la animano quando pensa e indaga.
Umberto Fasol (biologo)