Il malessere di vivere

Un problema inquietante, soprattutto in America del Nord e in Europa Occidentale, ci è dato nello assistere a quel fenomeno definito il malessere di vivere.

Migliaia di suicidi, specialmente tra i giovani, devono aprirci gli occhi. Uno studio condotto in un’università canadese ha accertato che il tasso dei suicidi degli adolescenti è aumentato nell’ultimo decennio del 200 per cento. Il dato riguarda il continente americano, l’Europa, l’Australia e la Nuova Zelanda. Il suicidio uccide più ragazzi tra i 15 e i 19 anni delle malattie cardiovascolari, del cancro, della droga e dell’Aids. Le stesse morti per incidenti stradali del sabato sera ci interpellano in modo drammatico. Non si tratta di chiudere le discoteche due, tre ore prima dell’alba o appena dopo la mezzanotte, si tratta di approfondire il problema. Questi ragazzi, che trovano la morte uscendo dalle discoteche ubriachi o impasticcati, non sono riusciti a trovare un senso alla loro vita, non sanno perché vivono. Da dove proviene questo disgusto per la vita? Più questi ragazzi sono sazi di beni materiali e più la loro esistenza è vuota, noiosa, svalutata.

 È inconcepibile che alla primavera della vita decidano di farla finita per sempre, fenomeno unico nella storia dell’umanità, un’altra strage degli innocenti. Eppure il male di esistere è un assassino spietato che miete vittime senza sosta e che predilige coloro che sono agli albori della vita. Un altro problema sempre drammatico è quello del consumo di droga presente in gente di ogni ceto sociale. Finito una buona volta di sperare in un paradiso religioso al di là della morte, si cercano paradisi artificiali in questa vita, con la conseguenza di pagare costi altissimi per la società e per gli individui. Insomma, se non ci si rivolge più all’Infinito, lo si baratta con il finito. Si avverte da parte di molti il desiderio di fuggire in qualche modo dalla vita frenetica e nervosa che tutti, chi più e chi meno, conduciamo, e si finisce per diventare schiavi di dipendenze da cui si rimane segnati per tutta la vita, se si riesce a portare fuori la pelle. In una società che rimuove la morte, che non ne parla, che ha il culto della giovinezza e della vita, si annidano, quindi, segnali inquietanti di morte: suicidi, aids, droga, incidenti stradali, inquinamento atmosferico. Si è perso il gusto della vita; parliamo tanto di divertimento e crescono sempre più i disperati. Non saranno questi gli inconvenienti per aver allontanato dalle nostre strade l’Autore della vita? (At. 3,15).

 Nel nostro tempo la stessa scienza, spinta ai suoi limiti estremi con sperimentazioni e manipolazioni della persona umana, porta a domandarsi se l’uomo è un animale come gli altri che, per una serie di coincidenze e circostanze favorevoli, è dotato di coscienza e intelligenza. Si pensa di salvare tutti i valori e si uccide il valore per eccellenza: la vita! Così, dopo aver decretato la morte di Dio, ora si tenta di decretare quella dell’uomo. Per la verità nel secolo scorso comunismo e nazismo hanno messo a morte sia Dio che l’uomo. Oggi nuove forme di barbarie quali l’aborto e la manipolazione genetica (tanto cara già ai nazisti) minacciano l’uomo. Il tutto è fatto passare con nobili ideali, in nome della ricerca scientifica, e a beneficio degli individui. Chi di noi può sapere a che cosa porterà l’aver messo mano alla manipolazione dell’ordine della natura e al mistero della vita? Una civiltà si giudica dal grado di umanità che è capace di produrre. Il progresso degli ultimi anni, in campo economico e tecnologico, ha apportato all’uomo occidentale benessere materiale ma non una vita più umana, accompagnata da un progresso spirituale e morale.

Dobbiamo risvegliarci ai nostri desideri più profondi, non possiamo continuare ad accontentarci ora dell’ultimo telefonino, delle scarpe da ginnastica all’ultima moda, di un’automobile di lusso, noi siamo fatti per qualcosa o meglio Qualcuno di infinitamente più grande di questi surrogati. Anziché servirci delle cose, e metterle al nostro servizio, diventiamo dipendenti di queste e si riduce il nostro vivere ad una serie di bisogni materiali da soddisfare. In questo nostro mondo attuale non siamo più noi i protagonisti, sono le cose. Daniel Ange scrive: “Il nostro mondo occidentale: economicamente super evoluto, spiritualmente sottosviluppato. Tragicamente. I mezzi per vivere soffocano le ragioni di vivere. Il godimento mina la speranza. La facilità atrofizza la volontà”. Siamo fatti per credere, come è attestato da tutta la storia dell’umanità e da tutte le culture e, come vediamo, se si abbandona la fede in Dio Creatore compaiono all’orizzonte veri e propri surrogati della speranza, forme di superstizione inammissibili per chi si definisce uomo moderno. Anziché guardare in alto, stiamo cominciando a guardare pericolosamente verso il basso, con il risultato di appiattire la vita e per dirla con Proust: “Abbiamo elevato a istituzione la nostra mediocrità”. (da Scommessa sull’uomo – editrice Elledici 2006)

il velo e la maschera

Alcuni mesi or sono andai a visitare un malato in un ospedale in gran parte gestito da religiose. Passavano silenziose da un letto all’altro, confortando, curando, alleviando il dolore fisico e morale dei pazienti. Erano per lo più donne esili e infaticabili avvolte in scuri mantelli con un copricapo bianco e inamidato che poteva evocare le sembianze di un cigno di carta. Il loro volto era raccolto in una fascia bianca come in un ostensorio;

immacolato, delicato, dallo sguardo a tratti timido, come di chi si senta un intruso davanti ai parenti dei malati in visita. Sorridevano spesso e parlavano con un filo di voce per disturbare il meno possibile. Una di loro, bellissima e giovanissima mi ha rivolto la parola per chiedermi se tutto era a posto. Le ho detto di sì e ho avuto- mentre rispondevo- la chiara percezione che per quelle suore non si trattasse di lavoro ma della loro stessa vita; il tempo per loro era scomparso, la dedizione al malato infatti coincideva con la loro vocazione, con il loro essere. Analogamente in questi ultimi tempi, per le vie delle nostre città ho visto altre donne, anch’esse velate. Sono le ragazze musulmane che cominciano a percorrere in gran numero le nostre strade.

 Parlavo con una di loro qualche giorno fa, una ragazza dall’ovale ben disegnato raccolto in un fazzoletto di seta scuro allacciato sotto il mento, un fazzoletto che – mi dice- durante la settimana cambia di colore abbinandosi alla varietà dell’abbigliamento. Anche questa, penso, è un concessione che la donna fa al proprio gusto, un delicato vezzo generalmente tutto al femminile. Ovviamente questa ragazza non era una religiosa, ma quel velo che indossava con estrema naturalezza evocò in me il ricordo delle “monache ospedaliere.” Quando chiesi alla giovane musulmana perché portasse il velo la sua risposta fu concisa e semplicissima: “Per rispetto verso me stessa e verso Dio”, rispose.

Allora compresi cosa accomunasse questi due tipi di donne pur così diverse fra di loro. Il velo, in entrambe, suggeriva chiaramente che loro, pur appartenendo al mondo non erano del mondo. Sappiamo bene come i capelli nella tradizione biblica e non solo, esprimano la dimensione della vitalità e della sensualità; quella dimensione tutta terrena dominata dal contrasto, dal peso delle passioni, dal desiderio mai pago, e in definitiva da una certa resa della volontà all’istinto. Il taglio dei capelli e il velo invece indicano un rapporto con il mondo liberato dai vincoli che ci appesantiscono. Perciò, il velo, non è un mezzo per nascondere bensì per rivelare. La donna velata esprime un’idea di libertà e di luce proprio perché si sottrae alle pretese invadenti del mondo.

 

Per comprendere al meglio questo ragionamento dirò ora di un terzo tipo di donna, di cui farò un semplice schizzo, una caricatura, che ci aiuti a meglio cogliere le differenze che intendo rilevare. Questa donna è un essere assolutamente autonomo, una donna pubblica permanentemente esposta alla luce dei riflettori. Preoccupata morbosamente del proprio aspetto, attenta ad ogni minima variazione nel campo della moda, disposta a mostrare ogni lato di sè per affermarsi, questa donna non ha veli e se per caso li indossa è solo un pretesto per toglierli platealmente. Questa donna non ha nulla da suggerire, nessun oltre traspare dal suo essere. Piuttosto essa esprime il desiderio incontrollato , la pulsione disordinata, la passione, l’attimo di una vita senza direzione. Fatto sta che una vita che si riduca soltanto a questo ha bisogno di maschere, di continui aggiornamenti, di nuovi copioni e nuovi costumi, perché una vita così divora se stessa. Le maschere sono i trucchi e i vestiti, i percing e l’estetica eretta a sistema. Le maschere sono i corpi scheletriti delle anoressiche o i ventri molli e gonfi delle bulimiche. Maschera è lo sballo e la ricerca di un’estasi farmacologica. Questo tipo di donna fugge sempre; in primis da se stessa, perché ha fretta di vivere, perché “l’uomo e la donna” non possono vivere di solo pane. Perciò fugge da tutto ciò che è durevole, impegnativo, per sempre, fugge dal sacrifico e dall’amore perché non ne è capace. Fugge e soffre. Si potrà dire che questo terzo tipo di donna è una caricatura estrema di un modo di essere, ed io posso convenire; ma tale schizzo credo riveli un opposto che chiamo: “la libertà purificante del velo”. Il velo se è una scelta libera indica una direzione, un modo di legarsi stabilmente, per non essere legati dalla terra e da tutte le sue apparenti e seducenti attrattive.

Forse non a caso è possibile stabilire un parallelo fra le “donne velate” e i bambini perché entrambi esprimono la libertà dell’innocenza e l’indisponibilità ad essere mercificati. Osserva al riguardo Marcello Veneziani: “In tutti i luoghi della dolce vita il filo conduttore è l’assenza di bambini. Un posto attraente è per definizione privo di bambini, passeggini, famiglie tradizionali e noiose con marmocchi. I bambini sono per definizione proletari, non sono utenti attivi della droga, del sesso, del potere.” Ebbene, se ci pensiamo bene, questi luoghi del piacere sono pure inadatti alle “donne con il velo”. Perché la libertà che dona una scelta religiosa, una scelta per Dio, rende queste donne “non disponibili” e non manipolabili dal sistema dei consumi, un sistema che si alimenta dell’infelicità umana. Perciò sarò sempre grato verso tutti coloro, uomini e donne che attestano con segni precisi, il valore della giustizia, della vita, della gratuità e dell’amore. Essi, anche oltre il semplice velo, inteso come un modo di testimoniare l’eterno nel tempo, ci dicono che esiste un oltre per il quale vale la pena di vivere e morire.

Elogio del peccatore

Berlusconi, Marazzo e adesso l’ormai ex-sindaco di Bologna Del Bono. Cosa hanno in comune questi tre signori?

Forse molto più di quanto possa apparire utilizzando le nostre misere categorie umane. A prescindere dalle indagini in corso resta il fatto che questi politici italiani, ognuno al suo livello istituzionale (Governo, Regione e Comune), avrebbero semplicemente agito come uomini che, in preda ai loro istinti, cedono al proprio piacere. Fin qui niente di particolare e nulla di nuovo sotto il sole, roba vecchia come il mondo.
Il gossip mediatico ovviamente si è scagliato a vari livelli sui tre personaggi, a livello politico, sociale e infine personale. Anche qui niente di nuovo, a parte l’accanimento a volte eccessivo e apertamente rivolto alla gogna pubblica, ma tant’è questo purtroppo è il clima del dibattito pubblico in Italia.
I commenti finiscono spesso per solleticare una curiosità pruriginosa, diciamo da “buco della serratura”, oppure affilano la lama per attaccare l’avversario politico rispetto al tema della moralità pubblica.
Tutto ruota intorno alla famigerata “questione morale”, ma generalmente chi la pone mi è meno simpatico dei tre signori che ho nominato e cercherò di spiegare il perché. Non entriamo nel dettaglio dei singoli casi che pur hanno delle differenze anche sostanziali, ma il punto di vista vorrebbe provare di osservare un po’ più dall’alto.
Gesù e la sua Chiesa ci insegnano che non è mai da giudicare l’uomo – perché il cuore solo Dio lo scruta nell’intimo – mentre altra cosa è la condanna del peccato, ma “l’accusa”, in questi casi che ho citato, anche applicando questa verità dottrinale, di fatto la smentisce a monte, proprio perché non riconosce la natura del peccato. Diceva Arnold Ghelen che la società è diventata via, via “la grande stalla della cultura, in cui gli animali feroci girano l’uno attorno all’altro sussurrando formule etiche”, ma in esse non resta nulla di “drammatico”, formule legate a nulla di Assoluto e quindi in definitiva vuote.
Anzi, nei casi in questione è molto facile trovare qualcuno che finisce per elevare a virtù una debolezza e il limite ad eccellenza, insomma in poche parole i moralisti che sollevano la “questione morale” sono sostanzialmente degli “a-morali”. C’è anche la versione ecclesiale, quella del “cattolico adulto” per cui parlare di “colpa d’origine” è quasi una vergogna e intanto predica una versione della carità svincolata dalla questione della responsabilità personale nella conversione, responsabilità che, invece, va rinnovata ogni giorno nelle scelte concrete.
Fondamentalmente è scomparso il discorso sul bene e sul male e come suggeriva Berlicche a Malacoda nel famoso pamphlet di Lewis: “Fa in modo che la sua intelligenza stia lontana dalla semplice antitesi di Vero e Falso”; ma questo diventa facile perché è scomparso Dio dall’orizzonte della libertà.
C’è in giro un sacco di anestetico che tende a ridurre la libertà a un suo surrogato, perché non c’è peccato, né colpa se non c’è Dio; se la libertà dell’uomo non osa confrontarsi con il “problema di Dio”, in definitiva cosa resta dell’uomo?
Ecco perché mi sono simpatici quelli che sbagliano, soprattutto quelli che sanno chiamare l’errore con il suo nome, quelli che non incolpano il “sistema”. Non so se i signori citati all’inizio rientrino in questa categoria, o siano anche loro iscritti tra gli ipocriti che fanno “come se Dio non ci fosse”, ma comunque li preferisco a quelli subito pronti con il dito puntato.
C’è in giro un sacco di gente che giudica, ma i più non vogliono ammettere la contraddizione che li abita, quella situazione che a guardarla bene è veramente “drammatica” perché – diceva il compianto Mons. Maggiolini – “la chiarezza su di sé, uno la raggiunge nell’esporsi indifeso a Dio”, altrimenti prima o dopo sarà la vittoria del non-senso.
L’alternativa a questo “dramma” è la “tragedia”, ossia risolversi a vivere come barche in balia delle correnti o, come diceva Camus, “fornicavano e leggevano giornali”.
C’è insomma bisogno di robusti peccatori, di quelli che lo fanno sapendo di peccare, se ce ne fosse di più forse ci sarebbero meno candidature come quella che va in onda per la presidenza della Regione Lazio. Sicuramente ci sarebbe in giro meno ipocrisia.
Per informazioni sul tema proporrei di consultare esperti in materia, ne cito tre: S.Paolo, S.Agostino e S.Francesco d’Assisi.

Sempre più soli!

Il Corriere del 13 gennaio dedica un’intera pagina ad una indagine choc. Il titolo e i sottotitoli sono sufficienti a gelare il sangue: “Milano, i single sorpassano le famiglie. Sono il 50,6 per cento. In crescita anche nel resto d’Italia. L’identikit: giovani, divorziati, anziani che restano soli”. L’articolo spiega che il fenomeno è in costante aumento: è la bellezza dei tempi, del progresso, immancabile, vincente, trionfante. La libertà si espande, i “diritti civili” trionfano!

Questo sarà forse il giudizio di chi, dinanzi ai fatti, non riesce a rivedere i pregiudizi; di chi antepone l’ideologia alla realtà. Personalmente il risultato di questa indagine mi ha enormemente rattristato e sconfortato.

Non sono riuscito, entrando in classe dopo averla letta, a non parlarne coi ragazzi: “Ragazzi, a me non piace fare il sociologo e parlare spesso d’ attualità…però oggi bisogna fare un’ eccezione. Invece che storia dell’ ottocento, facciamo storia di oggi”. Allora ho letto le prime righe dell’articolo, chiedendo ai ragazzi il loro parere. “E’ triste”, ha detto subito una ragazza, una di quelle che conserva ancora qualche sogno, qualche speranza. Aveva il volto sconsolato. Non ci si vuole impegnare, ha aggiunto un altro ragazzo. Sì, è vero, ho risposto, ma perché, ragazzi, perché oggi non si è più capaci di stare con altre persone, di condividere la propria vita, di intessere relazioni vere, fedeli, durature? Ho risposto io, perché mi sembrava che mi chiedessero questo.

Allora sono partito, con un po’ di irruenza: “Tutti questi single sono povere persone tristi, sole, nutrite dalle illusioni della cultura senza Cristo, cioè senza sacrificio, senza amore, senza gratuità, senza senso di colpa, senza perdono…Cercano la strada facile, magari non per colpa loro, ma perché gli è stato insegnato così. Nessuno li ha educati a dirsi di no; nessuno, neppure il loro parroco, li ha educati a confessarsi, a riconoscere la propria debolezza, a cercare in Dio forza, coraggio, speranza, capacità di rialzarsi, medicina alla propria debolezza. Intraprendono una relazione con la superficialità di chi ascolta tutti i giorni le canzonette della musica leggera; di chi guarda le telenovelas; di chi vive di romanticismo mellifluo e sentimentale. Così magari partono in quinta, con il motore a pieni giri, bruciano le tappe, trasportati dal sentimento, liberi dai vecchi vincoli del fidanzamento pensato e vissuto in un certo modo: ma poi, alla prima salita, quando bisogna scalare le marce, dalla quinta alla quarta, alla terza, alla seconda, e quando poi si deve ripartire, piano piano, non ce la fanno, non hanno marce interiori per farlo. La virilità dell’amore, ragazzi, è un’altra cosa: amare significa sapersi controllare, temperare, sapersi umiliare dinanzi al proprio coniuge, saper chiedergli perdono, saper controllare la propria ira, la propria istintività, almeno provarci…oggi invece siamo educati a divenire schiavi dei nostri sentimenti, schiavi delle nostre debolezze, e del nostro egoismo. Va dove ti porta il cuore, dicono tutti: e quando il cuore ha qualche sobbalzo, ci facciamo gettare a destra e a sinistra, salvo poi trovarci con un pugno di mosche.

La vita, diceva Chesterton, “è la più bella delle avventure, ma solo l’avventuriero lo scopre”: questo significa, ragazzi, che non bisogna avere paura di vivere la relazione, di mettersi in gioco, di mettere in discussione se stessi, il proprio carattere, i propri difetti… amare significa stare nella realtà, con la sua bellezza, con le sue difficoltà, come l’avventuriero che non si ferma dinanzi al primo ostacolo, che non pretende di raggiungere la cima della montagna attraverso una strada pianeggiante, che sa che le cose più belle si raggiungono e si mantengono con l’ impegno, la fatica. Una fatica santificante, che edifica, che costruisce, che dà gioia. E poi, ragazzi, c’è la paura, la paura che genera paura: il numero altissimo di divorzi produce generazioni di giovani che hanno paura, che non vogliono più scommettere sulla realtà, che patiscono ogni giorno sulla loro carne la disillusione provata nella famiglia di origine. Divorzio genera divorzio, e coloro che lo vivono come vittime, i figli, divengono spesso feriti che hanno paura di qualsiasi battaglia, che temono, non senza ragioni, di scommettere, di investire, di sperare. Abbiamo così creato una società di persone sole, di persone paurose, di persone tristi.

Lasciatemi fare il laudator temporis acti, il vecchio brontolone. Una volta non era così. Una volta non si parlava tanto di “diritti civili” ma si sapeva stare più assieme, si viveva molto meglio. Era più difficile nascere soli, vivere soli e morire soli” (Il Foglio, 15/1/2009)

Una ragazza sieropositiva scrive al Corriere…

Qualche giorno fa il nella cronaca di Milano il Corriere della Sera ha pubblicato la lettera di una ragazza, una studentessa della Bocconi, che a soli 18 anni si è scoperta sieropositiva.

Colpa della droga, di una leggerezza compiuta sotto l’effetto dell’alcool, di avventure di una notte con qualche giovane apparso irresistibile? No, niente di tutto questo; Michela, questo è il nome di fantasia che decidiamo di darle, stava col suo ragazzo da quattro anni, si fidava di lui, aveva rapporti solo con lui. Ma non altrettanto aveva fatto lui. Così è avvenuto che Michela è stata infettata da colui nei cui confronti aveva riposto la massima fiducia e da tre anni è in cura presso un centro specializzato nella città.

 "Se ci fosse stata una maggiore informazione o una rieducazione sessuale, io probabilmente non avrei fatto sesso non protetto con il mio ragazzo con il quale stavo da 4 anni, se gli uomini smettessero di tradire le proprie mogli e fidanzate, io ora non sarei malata di HIV, e non sarebbe per me così difficile tante volte trovare una ragione di vita", scrive Michela. Già, se … se, quanti se. Una vita, quella di Michela, tradita dalla menzogna. La menzogna di un ragazzo che mentre si univa alla sua fidanzata, a cui aveva promesso amore e fedeltà, nascondeva di non essere stato capace di onorare quella stessa promessa.

La menzogna di un gesto il cui significato intrinseco, come tante volte ha insegnato Giovanni Paolo II nell’intero di ciclo di catechesi sull’amore umano, esprime il massimo di unione possibile tra due persone e che invece era realizzato per realizzare il massimo di distanza: usare l’altra per soddisfarsi col suo corpo, violando quel principio kantiano di non ridurre l’altro a solo mezzo. La menzogna di una società che attraverso la tecnoscienza promette di potere manipolare a piacimento una forza esplosiva come la sessualità, che promette di sezionarla nelle sue dimensioni e prenderne solo la parte che in quel momento interessa.

Una promessa che nel doloroso silenzio di tanti uomini e donne che ne patiscono le conseguenze si rivela tragicamente falsa. Il sesso ha una potenza spaventosa, è un mezzo la cui energia permette una straordinaria accelerazione su quell’autostrada che è la vita umana, ma proprio perché è un bolide è necessario conoscerlo e rispettarlo. Se qulcosa deve essere insegnato è che la sessualità è una cosa seria della vita, non è riducibile a quel giochino pulsionale senza conseguenze, se solo si usa uno strato di lattice, una compressa, o, meglio ancora entrambi, come insegnano sin dai 13 anni nelle scuole olandesi, dove però il tasso di aborti è del 17% più alto rispetto alle coetanee italiane.

Non basta demandare alla scuola uno sforzo educativo di tal genere, le famiglie hanno il diritto di ottenere informazioni e di selezionarle in base al grado di maturazione dei propri figli, che non sono tanti piccoli Big Jim e Barbie tutti uguali, ma persone, esseri umani irripetibili. Le famiglie hanno anche il diritto a non ricevere un continuo bombardamento mediatico che ad ogni occasione ammicca al sesso. Ma la famiglia ha dei diritti perché prima ha dei doveri e non si può pretendere se non si è disposti a dare. Di questo avrebbe avuto bisogno Michela, ma ancora di più il suo ragazzo, il quale mentre pensava di compiere la propria libertà attraverso tradimento e menzogna, in realtà si consegnava come schiavo alle proprie pulsioni. A questi ragazzi sarebbe servito che qualcuno prima indicasse che esiste un modo di vivere diverso, che esiste una vita virtuosa che non soggioga, ma rende più liberi, che non intristisce, ma rende felici, che non brucia, ma irrora; avrebbero avuto bisogno di qualcuno che avesse indicato loro la via per amare l’amore umano.

Il papa e l’ambientalismo

Benedetto XVI, dinnanzi al tema sempre più dibattuto dell’ambientalismo, ha deciso di dedicarvi la prossima Giornata mondiale della pace, per meglio specificare la posizione cattolica sull’argomento. Il papa ha anzitutto ricordato che nel Genesi il creato è affidato all’uomo, affinché lo domini e lo custodisca.

L’uomo infatti, è “custode e amministratore responsabile del creato”. Ricordare questo è molto utile oggi, in un’epoca in cui manca la consapevolezza, come scriveva il grande biochimico Erwin Chargaff, nel suo “Mistero impenetrabile” (appena riedito da Lindau), che per la “prima volta nella storia del mondo uno stolto si trova nelle condizioni di poter contaminare irrimediabilmente la biosfera”.

Mentre infatti qualcuno si ostina a lanciare allarmi ingiustificati sull’apocalisse climatica prossima ventura, e si dibatte così, quantomeno, sull’opinabile, nel chiuso dei loro laboratori, nuovi Prometeo e nuovi Mengele lavorano indisturbati alla “creazione” di terrificanti batteriuncula, i cui effetti sull’ecosistema sono del tutto sconosciuti, e alla produzione seriale di poveri homunculi prigionieri dell’azoto liquido e di una provetta di vetro.

Con un totale disprezzo del mistero del creato- parola assai più bella e sacra dell’insulso termine “ambiente”- che porta con sé il rischio che le scienze naturali, come ammonisce sempre Chargaff, finiscano per servire all’opera gnostica di snaturamento della natura e di disumanizzazione dell’uomo.

Il papa ha poi ricordato che l’ecologismo contemporaneo si accompagna oggi, molto spesso, ad una divinizzazione della natura che sfocia in un “nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo”, e che in nome della difesa dell’ambiente finisce per considerare l’uomo il cancro del pianeta. Queste considerazioni ci permettono di analizzare due caratteristiche di buona parte dell’ecologismo contemporaneo: anzitutto la condanna del cristianesimo, accusato non di essere nemico della scienza, come fanno altre ideologie, ma al contrario di essere il pensiero che la ha partorita.

Per molti guru ambientalisti al pensiero biblico sono preferibili le religioni animiste, che annullando l’uomo nella natura, impediscono la nascita in lui dell’ubris scientifica e tecnologica. La concezione antropocentrica cristiana, notano costoro, gli ha dato consapevolezza della sua dignità spirituale, della sua possibilità di agire sulla natura e di dominarla. Questa concezione è sicuramente vera, benché parziale: in effetti, è innegabile che laddove l’uomo è terrorizzato dal fulmine, dal terremoti e dai vulcani, dove anche gli astri possiedono un’anima e diventano i veri artefici del nostro destino, la scienza e la tecnica non sorgono, se non episodicamente. Se non piove, al più si invocherà qualche divinità, facendo una qualche specie di danza, oppure, come avveniva presso gli aztechi o gli antichi germani, le si sacrificherà qualche essere animale o umano! Se qualcuno è malato, si farà come accade molto spesso ancora oggi nei paesi animisti: lo si lascerà morire, per non contrastare il Fato, o addirittura lo si respingerà con fastidio, ritenendolo colpevole di qualche offesa a qualcuna delle infinite e assai suscettibili forze naturali. Ma se è vero che la visione antropocentrica svela all’uomo la sua grandezza, è altrettanto certo che nel pensiero biblico il creato è affidato all’uomo come un dono, di cui egli è responsabile, perché in ultima analisi “al Signore, Dio tuo, appartengono i cieli e i cieli dei cieli, la terra e tutto quanto essa contiene” (Deuteronomio, 10,14).

La seconda caratteristica di magna pars dell’ecologismo è l’idea che proprio l’uomo, in quanto creatore della scienza e della tecnica, sia il cancro del pianeta: un “numero uscito alla roulette”, come voleva Monod, che diventa immediatamente “un refuso sfuggito al controllo della selezione naturale”, nell’ottica di quel nume del pensiero pannelliano che fu Aurelio Peccei. Analoga visione fu espressa molto bene dal principe Filippo di Edimburgo quando spiegò che si sarebbe voluto reincarnare nel virus dell’aids per sterminare un po’ di persone in eccesso; oppure dai radicali, allorché costoro auspicano il “rientro dolce” della popolazione mondiale da sei a due miliardi, arrivando addirittura, come fece Marco Panella, a “comprendere” i sistemi cinesi di pianificazione familiare obbligatoria con annessi aborti e sterilizzazioni forzate.

 L’idea dell’uomo cancro del pianeta è quella che permette agli ambientalisti pagani di trovare accordi con i più accesi sostenitori della tecnocrazia e dello scientismo: l’ambiente umano, dall’utero materno alla famiglia naturale, sono infatti un bersaglio comune, e non pochi “verdi” plaudono all’Ru 486, come raro esempio di chimica “buona”, di artificiosità utile al bene comune.

Esemplare di questa alleanza che ha come nemico acerrimo l’uomo, unica creatura a immagine e somiglianza di Dio, è, tra le tante, l’associazione denominata “Movimento per l’estinzione umana volontaria” (Vhemt). I membri di codesta aggregazione, nelle scuole, in internet, sui giornali, definiscono l’uomo un “parassita avido e amorale su un pianeta che era in buona salute”, e invitano tutti a non procreare, per non offendere oltre “Madre Natura”, o, con un antico nome pagano, non causale, Gaia. Perché essa possa star bene, insomma, “è necessaria la nostra scomparsa”. Si comprende, alla luce di questo modo, di ragionare, il significato di un versetto biblico: “Chi odia Me, dice la Sapienza, ama la morte”. (Il Foglio, 24/12/2009)

Nella foto il nuovo logo di Sinistra e libertà, la sinistra radicale di Vendola, da poco unitasi ad alcuni pezzi del vecchio partito dei Verdi.

Postilla: un amico, che è stato un pezzo grosso dei radicali, mi disse una volta che quando si sposò fu guardato molto male; quando ebbe un figlio, fu per lui la fine delle amicizie all’interno della dirigenza del partito. Matrimonio e figlio aprirono gli occhi a quell’amico, sulla bellezza della vita coniugale e sulla bruttezza della sterilità fisica e spirituale del radicalismo. Mi viene in mente questo aneddoto leggendo un articolo del solito radicale anti-famiglia, Marco Cappato, sul quotidiano ambientalista "Terra", in cui il nemico è sempre quello degli antichi catari: l’uomo.

Marco Cappato
IDEE. La crescita della popolazione mondiale è il fattore che ha maggiormente contributi nell’ultimo secolo ad aumentare il consumo delle risorse ambientali.

Nella preparazione del Vertice sul clima è stato finora rimosso il fattore che più di tutti ha contribuito, nell’ultimo secolo, ad aumentare il consumo delle risorse ambientali: la crescita della popolazione mondiale. Nonostante il tasso di fecondità sia in calo in molte parti del pianeta, si prevede che la popolazione mondiale supererà i 9 miliardi di abitanti entro il 2050. Questo dato, combinato alla crescita dei consumi nei Paesi in via di sviluppo, indica che il boom demografico continuerà nei prossimi decenni a determinare l’impronta ecologica della specie umana sulla Terra.
 
In quei Paesi è quasi inesistente la concreta affermazione del diritto alla salute riproduttiva e all’informazione sessuale, della contraccezione e della pianificazione familiare, servizi che potrebbero contribuire a contenere la popolazione mondiale sotto gli 8 miliardi, con un impatto enorme su risorse scarse come aria, acqua e suolo. Per diminuire i rischi di fallimento del Vertice, i cosiddetti “Grandi” della Terra dovrebbero superare i veti ideologici del fondamentalismo clericale e natalista – del quale il nostro governo è totalmente succube – e accogliere l’invito del Fondo Onu sulla Popolazione e lo sviluppo a promuovere i diritti della donna, la sua emancipazione e l’affermazione della sua piena libertà e responsabilità in materia sessuale e riproduttiva come priorità della comunità internazionale.
 
Bisogna subito invertire la tendenza di questi ultimi anni, che ha visto addirittura diminuire la spesa da parte dei Paesi donatori per la pianificazione familiare. Le nuove tecnologie e la penetrazione dei mezzi di comunicazione di massa nei Paesi in via di sviluppo rappresentano un’occasione unica per informare l’opinione pubblica mondiale sulle conseguenze della bomba demografica. Tenendo fermo il rifiuto delle pratiche illiberali e violente di controllo delle nascite “alla cinese” (frase che dopo le sparate dell’altro Marco, Pannella, occorreva d’obbligo, ndr), dobbiamo mettere in pratica quella strategia di “rientro dolce” – cioè basato sull’informazione, il diritto e la libertà – della popolazione mondiale, come scelta vitale per il futuro del pianeta. (Terra, 8/12/2009).

Qui invece il vecchio pezzo di Pannella elogiativo, seppure in modo subdolo, delle politiche cinesi:

Caro Grillo,

tu conosci quanto mi siano propri ispirazioni, obiettivi, urgenze che proponi e che tanta presa di coscienza, di dibattito e di consenso stanno suscitando; a cominciare dalle fonti rinnovabili per andare alla riduzione degli sprechi, al far tesoro della spazzatura che sommerge e inquina il mondo, alla promozione ed alla tutela dei produttori indipendenti. Scusami ma non ce l’ho fatta, con i casini nei quali sono stato impegnato, diciamo totalmente, a scriverti prima sul tuo documento sulle risorse energetiche.

Comunque non tutti i mali vengono per nuocere, il documento è utile, prezioso, ma (mi) urge anche “altro”.
Beppe, “quanto, cosa, come consumiamo – e produciamo” è il problema che con e grazie a te si può sperare ora di affrontare; per tentare di tappare le falle aperte da decenni di politiche energetiche sciagurate, dove il petrolio è stata la benzina della corruzione dei partiti e degli Stati, della creazione e del mantenimento di dittature sanguinarie. Ma alla base, all’origine di tutto, dobbiamo chiederci e sapere: tutto questo per chi è, di chi è? Insomma “Quanti siamo?” “Energia”, per chi? Quanti? per 3, 6, 9, e via crescendo, miliardi di “persone”, di consumatori?

Se il nazicomunismo cinese non avesse stabilito da generazioni di nazisticamente impedire la natalità, sterminando con la forza dello Stato feti e neonati, e genitori “colpevoli”, a che punto di già non saremmo*?
Se non imbocchiamo subito la strada di un “rientro dolce” della popolazione del pianeta da 6 miliardi di persone più o meno alla metà nell’arco di 4 o 5 generazioni, di un secolo, continueremo ad esser travolti dallo tsumani natalista, che ha visto alleati nei decenni precedenti sia i poteri fondamentalisti clericali, Vaticano in testa, sia il Potere dell’Impero sovietico e quelli fascisti, nazisti, totalitari di ogni tipo, che hanno imposto e impongono all’umanità di procreare, di moltiplicarsi bestialmente, irresponsabilmente, condannando centinaia di milioni di bambini a morire di fame, stenti, guerre…

Insomma, una energica, immediata politica demografica di “rientro dolce” mi appare come coessenziale per realizzare politiche di risparmio energetico e di investimento sulle fonti rinnovabili per il futuro del nostro paese il documento sulle risorse energetiche.
Lo ripeto: fascismo, nazismo, comunismo stalinista, fondamentalismi vaticani, talebani, e quelli nazionalisti e razzisti hanno rilanciato in questi giorni dissennate politiche nataliste.
Oggi, in questi giorni, in Italia i programmi elettorali, i congressi dei partiti recitano un dogma comune: la “difesa della famiglia”. E per “famiglia” intendono la riproduzione continua, intensificata, statalmente incentivata, con milioni di mancia ad ogni bebé, sovvenzioni e detassazioni alla famiglie più numerose… Non una voce si alza contro, a parte i… soliti… Radicali? Rosa nel Pugno? Margherita e Udc, Mastella e Lega trainano possenti, a rimorchio F.I. e in ginocchio perfino i DS, “Verdi” e Comunisti “distratti”.

La famiglia? Quale? Quali diritti sociali, “etici”, politici per i suoi “costitutori”, donne e uomini di ogni latitudine, colore, opinione, religione? Beppe: anche tu hai l’età per ricordare – siamo ancora in tanti – ma stiamo per essere travolti se gli “altri”, i “giovani” non sanno: “Dio, Patria, Famiglia”. La “bomba” non è quella “nucleare”, se non in termini di rischio, di pericolo. Ma la “bomba demografica” deflagra da più di un secolo e sul suo cammino distrugge tutto: natura, umanità, pianeta, appesta il mondo e i suoi dintorni.

Lanciamo anche questo SOS, questo MayDay? Io sono pronto, da tempo a dare una mano, e di più. Dai tempi del Club di Roma, quando proponemmo Aurelio Peccei (e chi sarà mai?) a Presidente del Consiglio…
Ma che disastro quella genìa di sessuofobi, di assolutisti, di disperati, di blasfemi accumulatori di ori e di poteri, di impotenti e prepotenti, sbarcati, di nuovo, da una sponda all’altra del Tevere, e che disperazione i potenti, prepotenti, impotenti di qui, che hanno loro spalancato porte e portoni del Palazzo e delle loro storie, e coscienze!”.

Marco Pannella

(http://www.rientrodolce.org/index.php?option=com_content&task=view&id=145&Itemid=127)

Al Guru e i suoi fratelli e la costosa eredità di Copenhagen

Così le comode paure di Al Gore sono diventate le sue scomode verità

Il prima e il dopo, nella storia del messianismo verde globale, è un film del 2004 di Roland Emmerich, The Day After Tomorrow, storia di un’improbabile glaciazione con Dennis Quaid. E’ guardando quella pellicola che all’ambientalista Laurie David viene in mente di fare dell’ecologismo materia di spettacolo. Ne parla con il regista Davis Guggenheim e ha già in mente una star: Al Gore, ex vice di Bill Clinton, la speranza democratica bruciata dalle poche centinaia di voti in più conquistati in Florida da George W. Bush. In quei mesi, Gore gira l’America da un auditorium all’altro e parla di clima. Ma non se ne accorge nessuno.

Eppure il messaggio è semplice: fa sempre più caldo, talmente caldo che i ghiacci si sciolgono, le acque salgono e presto inonderanno atolli lontani e città vicine. Pare l’apocalisse, ma – dice lui – è scienza: è l’uomo, con le sue attività industriali, l’artefice del Grande Caldo. Per farne un film, pensano David e Guggenheim, c’è tutto. Ci sono anche i soldi: a procurarli ci pensa lo stesso ex vicepresidente. “Una scomoda verità”, presentato nel 2006 come documentario (ma della tournée di Gore), diventa il manifesto di una nuova fede verde. Il sacro crisma arriva nel giro di pochi mesi: due Oscar nel marzo 2007 e il Nobel per la pace, in autunno, allo stesso Gore e all’Ipcc, l’assemblea politica dell’Onu sul clima. Il nuovo ecomessia è pronto e ha un pedigree di prim’ordine.

Nella sua biografia ci sono anche gli otto anni con Clinton, una famiglia di tradizione senatoriale (con il padre, Albert senior, e – dice la leggenda, peraltro non confermata – con un Thomas Gore, nonno materno di Gore Vidal), le primarie finite male dell’88 e quelle mai cominciate, per stare vicino al figlio convalescente, del ’92. Da quando è un guru, Gore non risparmia strali ai miscredenti: gli ecoscettici, chi non crede alle teorie catastrofiste da lui propalate, li chiama “negazionisti”, come quelli che negano l’Olocausto. E aggiunge: “Chi non crede allo sbarco sulla Luna non ha dietro i soldi degli inquinatori”, gli ecoscettici sì. Insomma, prezzolati e nazisti. Eppure, mentre a Copenaghen va in scena il summit che sulla carta avrebbe dovuto far impallidire quello di Kyoto del ’97, a doversi difendere da accuse e sospetti è proprio l’ex numero due della Casa Bianca. Adesso il guru dice che “i negazionisti del cambiamento climatico stanno facendo credere che queste mail abbiano un significato maggiore di quello che hanno”.

Però le e-mail ci sono, sono quelle che hanno dato il via al Climategate, lo scandalo dei dati climatici truccati per procurare l’allarme mondiale. E-mail che Gore aveva letto, grazie alla corrispondenza con il capo dell’Ipcc, Rajendra Pachauri. Sono centinaia, ne ha pubblicato stralci il New York Times: in una il professor Michael Mann della Pennsylvania State University dice di aver usato “un trucco per nascondere il declino” delle temperature dal 1981 a oggi. In un’altra Kevin Trenberth, del National Center for Atmospheric Research di Boulder, in Colorado, ammette: “Non possiamo spiegarci la mancanza di riscaldamento” terrestre.

Sono alcuni tra gli scienziati citati da Gore in film, libri, conferenze zeppi di paura, catastrofi imminenti, clima che cambia e caldo che uccide e che ora si scopre – ma l’aveva già detto, non ascoltata, l’Alta Corte di Londra due anni fa – sono basati su dati distorti, falsificati. Sono veri, invece, i premi, il messianismo e soprattutto i soldi incassati in questi anni. Se nel 2000 la famiglia Gore aveva un patrimonio di due milioni di dollari, adesso la stessa cifra andrebbe moltiplicata (almeno) per cinquanta. Ci sono gli incassi di “Una scomoda verità”, le conferenze (175 mila dollari ogni volta e poi, per una strana “sindrome”, dove ce n’è una fa sempre freddo o cade la neve) e gli investimenti nei business verdi – lautamente foraggiati dall’Amministrazione Obama grazie all’azione della lobby goriana Alliance for Climate Protection – attraverso il fondo Kleiner Perkins Caufield & Byers.

Adesso che non sa più cosa dire, l’ex vicepresidente annulla una conferenza stampa a pagamento (tremila biglietti, in prima fila da 1.209 dollari) in quel di Copenaghen. Dall’Academy Awards, ora, qualcuno già chiede che il leader ambientalista riconsegni l’Oscar. E qualcun altro, a Washington, potrebbe far lo stesso per i sussidi elargiti grazie alle comode paure spacciate al mondo da un guru d’essai. Da: Il Foglio 15 dicembre 2009

 

 

    LA COSTOSA EREDITA’ DI COPENHAGEN

 

   

 

    di Riccardo Cascioli

 

   

 

    L’obiettivo dichiarato del vertice di Copenhagen era arrivare a un Trattato che sostituisse il Protocollo di Kyoto, in scadenza nel 2012. Contrariamente a quanto previsto da Kyoto si voleva che il nuovo trattato impegnasse alla riduzione delle emissioni anche i paesi in via di sviluppo, a cominciare dai più grandi (Cina, India e Brasile) che sono ormai tra i più grandi emettitori. Come per Kyoto, l’impegno doveva essere vincolante, con obiettivi di riduzione delle emissioni ben definiti in modo da permettere il commercio dei crediti di carbonio (il cosiddetto sistema di “cap and trade”, che l’Unione Europea ha già adottato in ossequio al Protocollo di Kyoto).

Bene, non uno solo di questi obiettivi è stato raggiunto a Copenhagen, e questo dà l’idea delle dimensioni del fallimento del vertice, peraltro un fallimento annunciato.

Non solo, l’accordo raggiunto da USA, Cina, India, Brasile e Sudafrica – di cui gli altri paesi hanno preso atto – ha un che di surreale. Mentre si è rinunciato a indicare degli obiettivi di riduzione delle emissioni antropogeniche di CO2 (che almeno si possono misurare), si è stabilito di impegnarsi per non far aumentare le temperature di oltre 2°C rispetto all’era preindustriale. Cosa che ha dell’inverosimile perché nessuno è in grado di prevedere l’andamento delle temperature nei prossimi 10, 20, 50 o 100 anni. Potrebbero salire o potrebbero scendere, nessuno lo sa, e nessuno sarebbe comunque in grado di distinguere quanto è attribuibile all’attività umana. Né alcuno è in grado di stabilire di quanto crescano le temperature per un dato ammontare di emissioni di CO2 (vedi intervista al colonnello Malaspina). 

Del resto nessuno aveva previsto che dal 1998 le temperature globali non sarebbero salite (tanto che il famoso Climagate ha a che fare anche con il tentativo di coprire questo dato “inspiegabile” dalla teoria del global warming). Peraltro se parliamo di cambiamenti climatici è anche assurdo limitarsi alle temperature che sono soltanto un fattore del clima. Ma questa è l’ennesima riprova che la “politica del clima” ha ben poco a che vedere con la “scienza del clima”.

Quanto ai motivi del mancato accordo, il problema è essenzialmente economico. Mentre l’Unione Europea ha scommesso sulla “Diplomazia Verde” (cfr. R. Cascioli-A. Gaspari , Le Bugie degli Ambientalisti 2, Piemme 2006) come fattore di leadership mondiale e l’amministrazione Obama ha cercato di recuperare il tempo perduto, ai singoli paesi appare chiaro che il costo per ridurre in modo significativo le emissioni è tale da distruggere le economie dei paesi ricchi, e impedire lo sviluppo degli altri.

Se la crisi economica da cui tanto faticosamente si sta uscendo e che tanto ha preoccupato il mondo, ha fatto sì che le emissioni antropogeniche di CO2 diminuissero di appena il 3% si può facilmente intuire – all’attuale livello di sviluppo tecnologico – di che crisi ci sarebbe bisogno per diminuire in pochi anni le emissioni del 20 o del 50%. I profeti ecologisti e i fanatici politici cambioclimatisti – Ermete Realacci, tanto per citarne uno – dovrebbero spiegare agli attuali disoccupati e a quelli che perderanno il lavoro nei prossimi mesi che in questo modo stanno salvando il pianeta.

In realtà l’unico modo per ridurre le emissioni è uno sviluppo che permetta la ricerca, la sperimentazione e l’adozione di nuove tecnologie: ma si tratta di un cammino che non può fissare date o obiettivi precisi. E soprattutto c’è bisogno di crescita economica (senza produzione di ricchezza non si può investire in ricerca e nuove tecnologie), ovvero la strada inversa a quella intrapresa.

Al di là dei proclami “verdi” molti leader occidentali si sono accorti di questa contraddizione: nessuno è così masochista da avallare politiche che distruggano l’economia del proprio paese (e il proprio consenso elettorale), ed è per questo che alla fine non si riesce a stabilire un obiettivo vincolante.

Allo stesso modo si comportano i paesi in via di sviluppo che, dietro alla retorica dei cambiamenti climatici, vedono – a ragione – il tentativo di frenare la loro ascesa economica, che significa anche maggiore potere politico e militare. Così da una parte i governi cercano di farsi pagare usando la stessa retorica dei cambiamenti climatici – “noi siamo le vittime delle vostre emissioni” -, dall’altra non accettano comunque di prendere impegni vincolanti. Peraltro, la strategia del rinvio alla conferenza successiva (adesso l’appuntamento è per Città del Messico 2010) garantisce di continuare a incassare soldi (secondo lo schema di Kyoto) mentre il negoziato per un nuovo trattato rimane perennemente in fase di stallo. I paesi ricchi, dal canto loro, alzano l’offerta in denaro e servizi (siamo adesso arrivati alla promessa di 100 miliardi di dollari) non per favorire lo sviluppo dei paesi poveri ma per convincerli a digerire un accordo che impedirà il loro sviluppo.

Si tratta di un mercato indegno creato sulle spalle di interi popoli, e che per il bene comune andrebbe azzerato immediatamente per lasciare invece il posto a progetti e strategie che favoriscano il reale sviluppo dei paesi poveri. Invece, il rinvio di un accordo sul clima a Città del Messico 2010 – con le solite stazioni intermedie – ci garantisce un altro anno di allarmi, rapporti inverosimili, mercanteggiamenti, proclami, un circo che costerà miliardi di euro e distoglierà dall’affronto dei veri problemi ambientali, che si possono riassumere in una sola parola: sottosviluppo. da : www.svipop.org

Integralista

Penso che pochi sappiano che cos’è l’Avvento, anche perchè ormai pochi sanno che cos’è il Natale, o meglio tutti sanno che si festeggia, ma non precisamente che cosa.

Particolarmente nel mondo occidentale le feste vengono vissute e valutate solo con un approccio di tipo estetico ed emozionale, altro non c’è. Le preoccupazioni sono rivolte ai regali, cenoni, ricchi premi e cotillon, vacanze caraibiche e shopping compulsivo.

Al di là dei numeri o delle statistiche direi che questa considerazione è un dato di fatto, siamo invasi da Babbi Natale improbabilmente appesi ai balconi, Centri Commerciali aperti anche la notte, luminarie con stelle e stelline che spesso deturpano le città, giostrine nelle piazze, improvvisate piste per il pattinaggio sul ghiaccio, panettoni 3X2. Le notizie sul Natale al TG sono copiaincollate dalle edizioni degli anni passati e così fan tutti: giornali, riviste, radio (tranne Radio Maria che copia-incolla per la natura della notizia, ma rinnova sempre), siti, blog, ecc.…

Sinceramente anche le predicuzze del tipo “il Natale non è da confondere con il consumismo” mi lasciano sempre un po’ con l’amaro in bocca, anche perchè rappresentano spesso il lato B dello stesso disco, cioè sono entrate anche loro nel teatrino del Natale “politicamente corretto”, ma non incidono più. Tante volte c’è quel gusto un po’ snob di richiamare al vero senso, quella vanità sottile che fa sentire un po’ migliore e anche quello che sto scrivendo forse è espressione di quella ricercatezza originale del voler dir qualcosa a tutti i costi. 

C’è insomma un grande frullatore in cui buttiamo dentro tutto, anche il Natale e le prediche sul vero senso del Natale, un frullatore che tritura tutto ciò che vi passa in mezzo, lascia solo brandelli, pezzetti sempre più piccoli di Verità, confusi, macinati, dilaniati, diluiti, innocui.

Ormai intorno ai resti frantumati di parole come carità, verità, perdono, libertà, teologia, liturgia, laicità, ci si accanisce come belve affamate, ognuna alla ricerca di un significato perduto, ognuna con la sua personale opinione, ognuna pronta a sbranare l’altra che si avvicina al mesto banchetto. Si procede a colpi di convegni, studi, seminari, settimane bibliche, festival, giornate diocesane, pubblicazioni per giovani, per fidanzati, per famiglie, per donne, vecchi e bambini.

Poi però restano questi Babbi Natale arrampicati sui tetti, sui davanzali, sui camini, sulle insegne del supermercato, appesi alle finestre, negli oratori, sui giornali, sulle riviste, on-line. A forza di frullare restano loro a simbolo di una festa che si sgancia continuamente dal suo significato, simbolo della menzogna che a forza di esser ripetuta si traveste da verità.

Perchè, nonostante tutto l’affannarsi, continuiamo a perderci, a cercare il senso dove non c’è? Senza dubbio c’è un mistero che ci supera, c’è una battaglia fra verità e menzogna che senza quel Bambino nato in una grotta difficilmente potremmo spiegare compiutamente.

L’inganno più grande e più sottile, rispetto alla possibilità di affacciarsi su quella mangiatoia e di contemplarla alla ricerca della Verità, è la logica della “pacca sulla spalla” per cui “comunque vada sarà un successo”, logica diabolica che permea tutto quel “modus vivendi” che respiriamo quotidianamente. C’è l’inganno della menzogna che si traveste da verità, il lupo vestito da agnello. Questa logica è entrata strisciando anche nelle sacrestie, negli oratori, in molti movimenti ecclesiali, seminari, gruppi di preghiera, consigli pastorali, si è insediata provocando quel pressappochismo superficiale che si esprime in una frase sparata come il prezzemolo: Non esageriamo, non siamo integralisti.  Vogliamo organizzare una S.Messa in riparazione ad un’offesa arrecata alla Vergine Maria in seguito ad una mostra blasfema? Noooo, è eccessivo, roba da Medioevo. Si vuole celebrare una S.Messa con il rito in latino? Nooo, quella è roba per deboli in preda ad una psicologia da “pizzi e merletti”. Vogliamo recitare il Rosario in famiglia? Nooo, l’impegno quotidiano è già preghiera, non preoccuparti. La Confessione per il perdono? Nooo, stai sereno è semplicemente un dialogo. E via discorrendo. Tutti  a dire di non preoccuparsi, ma se Dio si è fatto carne questo fatto non può essere ridotto ad un opinione o a un sentimento svincolato da ogni responsabilità personale, altrimenti possiamo davvero considerarla una favoletta sostituibile con quella di Babbo Natale. Insomma, comunque vada non è detto che sia un successo e questo è duro da accettare.

Proposta: per chi ancora si interroga su quel Bambino, nato da Maria Vergine, festeggi pure perché effettivamente c’è da festeggiare, ma lo faccia sopratutto pregando, meditando, spegnendo la televisione, mollando il social network, non appendendo Babbo Natale da nessuna parte, costruendo un bel Presepe, insegnando ai bambini che cosa è l’Epifania, passando la domenica fuori dai centri commerciali e dentro una Chiesa.

Dopo si potrà anche dire che a Natale siamo tutti più buoni.

Oddio, non sarò troppo integralista?

(tratto da www.paratisemper.blogspot.com )

 

 

 

 

La crisi della famiglia

Riportiamo le interessanti considerazioni schematiche e riassuntive dell’avvocato Andrea Di Francia sulla crisi della famiglia oggi:

Perché, nella società attuale, la famiglia ha perso il proprio peso, il proprio prestigio?
Perché, oggi:
 – non ci si mette in coppia;
 – non ci si sposa;
 – non si fanno figli quando c’è l’età giusta.

Tutto è cominciato nel 1975, con l’avvio di un deciso calo delle nascite, proseguito fino alla metà degli anni Novanta e poi rimasto stazionario fino ad oggi. Per i prossimi 10 anni è previsto un tasso di natalità inferiore alle 10 nascite per 1.000 abitanti e un tasso di fecondità attorno all’1,3 figli in media per donna.

Si è fatto e si fa registrare:
 – il trionfo quantitativo dei celibi, cresciuti, in 10 anni, di oltre 2 milioni e mezzo, in una popolazione numericamente stazionaria;
– il ribaltarsi del rapporto tra famiglie unipersonali e quelle con 5 figli e più: erano 6 ogni 10 nel 1971, nel 2003 sono diventate 33 ogni 10.
– Si è affermata, perciò, l’idea di famiglia sempre più piccola (famiglie unipersonali, coppie senza figli, coppie con un solo figlio) e tutta percorsa da logiche individuali.

Perché non si fanno più figl?
 – Perché vi è la diffusa percezione che fare figli è “sconveniente”;
 – perché l’infanzia è relegata nel mito da proteggere da un mondo visto come minaccioso e rischioso;
 – perché i genitori hanno depotenziato la fiducia in loro stessi;
 – perché fanno sempre più dipendere le proprie competenze, dal mondo degli “esperti” (medici, educatori, psicologi, ecc.);
– perché si registra il fenomeno dell’allungamento della permanenza dei figli all’interno della famiglia di origine, fino ad età sempre più adulte;
 – perché così facendo, si registra sempre più la irresponsabilità dei figli giovani adulti, fino ad una loro strisciante dittatura e sollevati da ogni vera responsabilità (di studiare, di lavorare, di trovarsi un/a compagno/a, di mettere su famiglia, di contribuire alle spese).

La perdita di peso e di prestigio della famiglia ha comportato che la famiglia:
 – non riesce a influenzare le dinamiche socioeconomiche;
– non riesce ad educare;
– non riesce a sostituire l’affettività con la responsabilità;
– non riesce ad influenzare le politiche familiari

Quale la causa principale di questa perdita di peso e di prestigio?
 – l’emergenza dei valori che caratterizzano la società attuale e che sono quelli di APPARENZA e di DENARO;
– questi valori hanno generato ambizioni individuali e, queste, uno sfrenato egocentrismo che ha ridotto il senso della responsabilità;
– i primi a subirne le conseguenze sono stati i genitori, vittime di una pressione sociale che li spinge ad accordare maggiore importanza al consumo ed ai risultati, piuttosto che alla responsabilità;
 – ciò ha creato un insieme di persone egocentriche e isolate: nonostante il sempre maggiore ampliarsi dei mezzi di comunicazione, non si è mai registrata tanta solitudine tra adulti e bambini;
 – in Italia, la cultura popolare sul minore e la famiglia è ancora impregnata da superficialismo e luoghi comuni che garantiscono certamente al bambino la salvaguardia di standards minimali di sopravvivenza, ma non certamente le ulteriori necessità evolutive.

Dan Brown: Sono anticattolico e filomassone

Dan Brown, l’autore de Il codice da Vinci e, ora, de Il simbolo perduto, conferma esplicitamente quanto osservato da Massimo Introvigne su Avvenire lo scorso 17 settembre: «L’obiezione di questo critico corrisponde a verità: sono molto più benevolo nei confronti della massoneria che del Vaticano».

Nell’intervista rilasciata a Marco De Martino per Panorama, lo scrittore ritorna sulla bagarre suscitata dal suo romanzo più celebre, confermando che dietro al quadro in nero che ha fatto della Chiesa c’è effettivamente un astio personale. Anzi, arriva al punto di esaltare la massoneria come «un’organizzazione globale i cui membri si congregano in pace», «un modello straordinario di tolleranza spirituale a livello globale».

E la Chiesa? Dan Brown dice di aver rispetto per i suoi «sforzi nei confronti di chi soffre», ma proprio non riesce a frenare la sua ostilità per quella che definisce «un’organizzazione che esclude chi non aderisce alla sua visione del mondo» e per un Vaticano «struttura di potere antica e sorpassata». Avvenire (24/10/2009)