Lasciate vivere Saddam

E’ di questi giorni la notizia di come moltissime persone che hanno in odio Saddam Hussein facciano la fila per avere l’onore di poterlo giustiziare. Sì, il loro sogno è quello di essere boia per un giorno, di poter assistere eccitati dallo spirito di vendetta agli ultimi istanti della vita del tiranno, di poterlo veder penzolare come un sacco inerte, come un non-uomo e vivere di questo ricordo. Questo è il loro sogno.
Saddam, l’incarnazione del male, Saddam, l’uomo che fu assecondato per un certo periodo di tempo dall’Occidente, in quanto figura laica di despota, non assillato da fondamentalismi religiosi. Saddam che fece comodo, quando si trattò di contrastare la rivoluzione iraniana.
Poi, cadde in disgrazia e il cinismo della politica ne fece progressivamente il nemico da abbattere. Ma lui era sempre lo stesso, il tiranno sanguinario, uno dei tanti nel mondo. Erano però mutate le ragioni geopolitiche e l’uomo aveva osato troppo, troppo contro le persone sbagliate. Forse aveva persino perso il senno ed era convinto di essere intoccabile. La vicenda è complessa e l’informazione rispetto ad essa spesso faziosa, partigiana.
Nessuno nega le responsabilità di Saddam, nessuno nega che la “sua corte” ha fatto per decenni il bello e il cattivo tempo riducendo in schiavitù il popolo dell’Iraq.
Ma tutto il male fatto vale la morte del tiranno? Un paese come l’Iraq, un paese che sembra volere muovere verso la democrazia, un paese dilacerato da un sanguinaria guerra civile, da un odio folle fra etnie e confessioni religiose, può legittimamente fondare la speranza per il proprio futuro sul gesto di un’impiccagione, sulla morte di un tiranno, di un despota, ma pur sempre di un uomo?
Certo Saddam deve pagare. Platone scriveva come la più grande liberazione dal male, cioè dalla malvagità, equivalga a scontare la pena. Aggiunge poi come la giustizia faccia in un certo senso rinsavire rendendo più giusti poiché essa costituisce la medicina della malvagità. Pertanto, per il filosofo greco, la cosa peggiore che può capitare ad un uomo non è commettere ingiustizia, ma commettere ingiustizia e non venire punito, perché chi non viene punito non recupera la propria dignità.
Ora, nel nostro caso si tratta di immaginare una pena che recuperi, una pena che faccia giustizia e non vendetta, una pena che riporti le cose piano piano, nell’alveo di una giustizia vera, di una forza positiva che cominci a risanare le ferite e ad indicare un futuro.
La pena di morte elude tutto questo, essa non recupera nulla, essa aggiunge dolore a dolore, essa mi pare soltanto vendetta, perché decide della vita di un altro. La pena capitale è voglia di annientare un uomo in cui si è identificato il negativo.
Ma il male resta, anche dopo Saddam, anzi, mai come in questo momento esso rivela la propria pervicace potenza. Ogni giorno leggiamo di stragi, di bombe nei mercati, nelle piazze, nelle moschee. Eppure il tiranno non c’è più, le sue ore sono contate, i suoi più stretti collaboratori sono incarcerati.
Se gli iracheni che più hanno in odio Saddam fossero capaci di un perdono, se fossero capaci di un atto di clemenza, forse da un passato di morte potrebbe sorgere un orizzonte di speranza.
Forse chiedo troppo, perché non ho conosciuto quel regime, perché non ho avuto parenti o amici torturati o uccisi, ma nonostante tutto mi sento di sperare un esito diverso dalla scontata esecuzione del despota.
Egli è sconfitto veramente soltanto se vive e vede la forza di una nazione che rinasce, oltre gli odi, nel cammino faticoso di una convivenza tutta da costruire. Egli è sconfitto e forse redento se gli lasciamo il tempo di pentirsi, se agiamo come lui non ha mai agito, mossi dalla pietas, convinti che la forza del perdono sia l’unica capace di interrompere il circolo vizioso di offesa e vendetta. Egli è vinto se comprende che nonostante tutto noi teniamo alla sua vita, per quanto essa possa essere segnata dalla cifra dell’odio e del dominio.
La sua morte invece, ne farà un martire, un simbolo per tutti coloro- e sono tanti- che hanno ragioni per risentirsi ancor più verso le ambivalenze ed ingerenze occidentali.
La sua morte, temo, accentuerà i rancori, soffierà sul fuoco della guerra civile, inasprirà il terrorismo e l’antioccidentalismo.
Saddam aggredì il suo popolo, ma ora non può nulla; la pena di morte mi pare ammissibile solo dove questa fosse l’unica via per difendere dalla violenza la vita di altri esseri umani. Ma questo caso non è il nostro.
E seppure si decidesse per la morte si eviti di spettacolarizzare la barbarie, di diffonderne le immagini. Tutto si svolga nel silenzio, tutto sia avvolto dal pudore. Perché si tratta di un’ esecuzione a freddo, calcolata, programmata cinicamente.
E il male resterà e lo spirito di vendetta continuerà ad proliferare. come nulla fosse stato.

Il padre, l’assente inaccettabile.

Nella società di oggi il padre è sempre più un assente, “un assente inaccettabile”. E’ questa la convinzione di Claudio Risè, celebre psicoanalista, docente di scienze e politiche sociali e collaboratore del Corriere della sera, che sarà a Trento il 15 dicembre, alle ore 20.30, presso l’aula magna dell’Oratorio del Duomo, in via Madruzzo 45, invitato da Libertà e persona (www.libertaepersona.org), in collaborazione col Movimento per la vita. Per Risè siamo ormai in una “società senza padri”, che è venuta via via formandosi soprattutto in questo secolo, in concomitanza con il rifiuto, più o meno ampio, del concetto di autorità, di guida, di paternità appunto. In effetti negli anni Sessanta e Settanta abbondano i libri o gli articoli sulla “morte della famiglia”, sulla fine della società patriarcale, sulla necessità di sopprimere ogni forma di gerarchia. “Né maestro né Dio. Dio sono io”, “Quinto: uccidi tuo padre”, “famiglia è prigione”, sono alcuni degli slogans di moda, negli anni della contestazione del 1968: ora siamo rimasti a fare i conti con la realizzazione di questi auspici, con le famiglie sempre più disgregate e il continuo aumento di patologie nei giovani e negli adolescenti. Chi insegna lo sa bene, quanto siano cambiati i tempi, e non in meglio; quanto aumentino di continuo problematiche quali l’anoressia o il consumo di sostanze psicotrope per “sentirsi più in forma”. Nei giovani, infatti, si vede spesso proprio questa assenza, inaccettabile, della famiglia, e, molto spesso, proprio del padre: c’è una inquietudine enorme, una solitudine, una incertezza, in molti di loro, che può provenire solamente da un ambiente familiare che non sa più offrire calore umano, certezze, protezione e sicurezza. Mancano i padri, nel senso che mancano i maestri: vuoi perché non hanno tempo, vuoi perché non sanno più cosa insegnare, vuoi perché molti padri si sono adeguati all’idea di non esserci più, e preferiscono fare gli amiconi, i complici, i compagni di gioco, e solo quello, dei loro figli. Si mettono sullo stesso piano, hanno paura perfino di sussurrare un concetto, un ordine, un vero consiglio. Abdicano così al loro ruolo, al compito di essere guide, dolci e giuste nello stesso tempo; abdicano al compito gravoso di sostenere la crescita dei figli se necessario con la severità, e preferiscono diventare i dispensatori di beni materiali e di comodità superflue. Eppure ognuno di noi ha bisogno di un padre, un padre buono, ma anche un padre che sappia richiamarci, che sappia essere un riferimento concreto, un riferimento amato, di cui si possono apprezzare, magari in un secondo momento, anche i rimproveri. Anche le mogli, non solo i figli, hanno bisogno accanto a sé di mariti affidabili: quante volte l’arrivo di un figlio è oggi un dramma, in una famiglia, solo perché l’uomo non ha il coraggio di prendersi le sue responsabilità, di essere un vero padre e un vero marito? Invece che affascinarsi per l’avventura di padre, che li aspetta, molti si lasciano prendere dalla paura, dall’incertezza, forse dall’egoismo: non vogliono giocarsi, non vogliono abbandonare le loro piccole abitudini, i loro momenti liberi, la loro routine ben avviata, auto condannandosi così alla sterilità affettiva. Eppure ci sono anche tanti padri, oggi, che soffrono per il motivo contrario: per il fatto di non poter essere quello che sono, o quello che aspirano ad essere. Nella sola Unione Europea su un totale di 28000 maschi che si tolgono la vita ogni anno, ben 2000 sono padri separati che hanno contratto depressioni gravi e reattive a causa della lontananza dai figli. Una vera mattanza. Figli senza padri, e padri senza figli. Non è un bel panorama, e non migliorerà certo finché non si tornerà a riflettere sull’essenzialità della famiglia. Tornare a riflettere su questa verità di natura significa anche opporsi alle nuove prospettive faustiane: se fino a poco fa ogni figlio nasceva, bene o male, con un padre, salvo poi poterlo perdere lungo la strada, oggi sono sempre di più i figli che nascono già programmati, senza uno dei due genitori. Non mi riferisco solo ai casi eclatanti delle mamme nonne, o ai venditori di seme o di ovuli, che spargono in giro figli geneticamente loro, che non conosceranno mai, ma anche ad una moda sempre più diffusa: quella di programmare dei figli, con la fecondazione artificiale, pur essendo nella condizione di single. In Norvegia e in tutto il nord Europa vi sono associazioni che lucrano vendendo ai singles appositi kit per produrre bambini. Negli Usa vi sono siti internet, mannotincluded o womennotincluded, in cui si danno le indicazioni per avere dei bambini da soli, senza un marito, o una moglie, con l’ausilio della tecnica e degli euro. E non sono solo strampalerie nordiche o americanate di Hollywood: anche da noi si diffonde sempre di più questa usanza, come testimoniano le decine e decine di lettere sull’argomento, presenti sui siti italiani di fecondazione artificiale, tipo Madre Provetta. E non fanno certo bene, a nessuno, in queste condizioni, i telefilm alla Banfi, in cui l’idea di famiglia viene sostanzialmente ritenuta antiquata, o quantomeno sostituibile: la famiglia, in natura, è una sola, uno solo il padre e una sola la madre di cui abbiamo bisogno. Una madre che sia madre e un padre che faccia il padre. Checchè ne dica anche un “profeta” dei tempi nuovi come Umberto Veronesi, che nel suo ultimo “La libertà della vita” (Raffaello Cortina editore), non teme di consigliare come soluzione ottimale per l’umanità la clonazione riproduttiva. Dopo aver detto che una donna bella ed intelligente potrebbe benissimo voler un figlio senza un uomo, perché odia il genere maschile, e che in fondo non ci sarebbe motivo per opporsi, conclude: “Ha senso- chiede retoricamente Veronesi- e se sì dove è il senso, che per avere un figlio ci vogliano sempre comunque un maschio e una femmina?…Dopotutto non pochi esseri viventi primordiali si perpetuano per autofecondazione. Cero per specie evolute la dualità maschio femmina è apparsa sempre inderogabile. Ma possiamo dirlo ancora, dal momento che siamo capaci di manipolare il Dna e di clonare? Perchè tanta paura della clonazione se l’abbiamo davanti agli occhi ogni volta che assistiamo ad un parto gemellare? Come tu dicevi: perché mai dovremmo per principio vietare alle donne di clonare se stesse?” (p.91).

Niente cannabis per il figlio del ministro

Livia Turco, come madre, è portata a sconsigliare a suo figlio l’uso di droghe, anche leggere; come ministro decide di raddoppiare la quantità detenibile di cannabis per uso personale.

Ma l’uso di droga, comunque si voglia girare la frittata, e indipendentemente dai costumi dei propri elettori, è un tentativo di fuga dalla realtà. Per quale altra ragione altrimenti la Turco dovrebbe salvaguardare il figlio dai “mali” di questa società?

Eppure che la droga sia un male è diventato impossibile dirselo. Il “vietato vietare” nasconde dunque un più letale “vietato giudicare”. Non si può più dire pubblicamente che cosa è bene e che cosa è male, avere un’idea della libertà diversa da quella della pura assenza di vincoli, che poi significa soltanto che ci ritroviamo tutti più soli.

La posizione della Turco è l’emblema di una schizofrenia diffusa: quella tra opinione privata e giudizio pubblico, che copre l’incapacità a dar credito a ciò che si rende evidente nella propria esperienza.

La prima e comune responsabilità che abbiamo di fronte a ciò che accade è allora quella “per il retto uso della ragione”, come ha detto di recente Benedetto XVI, a partire non da preconcetti, ma dall’esperienza che tutti facciamo di ciò che è più vero, più giusto, più buono.

È di questo che bisognerebbe tornare a parlare, pure tra i politici. Perchè giudicare è l’inizio della liberazione. Anche dalla droga.

Targhe alterne: un disagio esagerato

E ci risiamo. Come tutti gli anni è giunto il provvedimento sulle targhe alterne. Iniziato lunedì 4 ed avanti fino a revoca, sperando nella pioggia. Ho provato una profonda rabbia in questi giorni di fronte ad un provvedimento tanto ingiusto quanto inutile e come cittadino oltre che impotente mi sono sentito anche preso per i fondelli. Vi spiego perché:

1. Ci dicono che il provvedimento è necessario perché sono aumentate le PM 10. Sorvoliamo sul fatto che in pochi sanno cosa siano queste “maledette” PM 10, ci basti sapere che l’andare in auto contribuisce ad aumentarle. Ma la carica dei 100.000 che hanno invaso il mercatino di Natale nel week-end le hanno forse diminuite? Sono forse venuti in bicicletta? Su questo non ci hanno detto niente.

2. Ci dicono inoltre che le targhe alterne, contribuiscono a migliorare la qualità dell’aria. Ma poi scopro che oltre alle innumerevoli deroghe al provvedimento, i dati del Comune dimostrano che il traffico diminuisce solo del 20%. Scopro inoltre che dal rapporto di Legambiente (dati quindi non contestabili al rialzo) il 10% del parco automobilistico, costituito dalle auto più vecchie, è responsabile del 50% di tutte le emissioni inquinanti dovute al traffico veicolare. Deduco quindi che le targhe alterne possano produrre ben pochi effetti sull’inquinamento complessivo e la dimostrazione è sotto gli occhi di tutti in quanto solamente la pioggia riesce a far diminuire tale concentrazione di polveri.

3. Ci dicono inoltre che le targhe alterne contribuiscono a migliorare il senso civico del cittadino, in quanto stimolano all’utilizzo dei mezzi pubblici. Ma poi penso che io già da anni vado al lavoro in autobus o a piedi (da Cognola al centro), penso che in casa abbiamo solo un’auto, penso che mia moglie la mattina fa una corsa contro il tempo per andare a Povo a portare la bimba e poi a Villazzano a lavorare, e mi viene in mente che non ci sono autobus di collegamento fra le periferie. Poi controllo bene gli orari dei mezzi pubblici e scopro che mi sbaglio: forse partendo alle 6:00 da Cognola ed andando a piedi alla fermata di S. Donà si può prendere il n° 9 alle 6:20, aspettare poi una mezz’oretta in Piazza Dante e prendere il n° 5 alle 7:06 diretto verso Povo, scendere alle 7:22, scarpinare per 20 minuti, lasciare la bimba e correre di corsa verso la piazza, prendere il n° 13 delle 7:50 ed alle 7:57 finalmente si arriva a Villazzano. In fondo solo 1 ora e 57 minuti per fare 4 Km. In effetti poi ci sarebbe anche il ritorno, non controllo gli orari ma sono sicuro che ci si impiega meno. Poi penso che forse è troppo presto far alzare una bimba alle 5:40 per partire alle 6:00 ed allora mi viene in mente che ci sono anche i Taxi. Ma si,in fondo si tratta di fare la tratta due volte al giorno, talvolta quattro, ma solo a giorni alterni e poi solamente fino a marzo (sempre se non piove). Faccio due conti e vedo che forse non mi conviene molto. Solo allora mi ricordo che anche mio suocero possiede un’ auto, ed è in pensione. Bene abbiamo risolto, la targa è diversa, compriamo un seggiolino nuovo, ogni sera facciamo lo scambio delle auto, e mio suocero se ne starà a casa per tre mesi. E’ si perché nei giorni pari non può circolare con la sua, e nei giorni dispari non può circolare con la mia.

Controllo a questo punto il livello del mio senso civico e scopro che è messo a dura prova ma continuo ad essere ottimista perché, il signor sindaco Alberto Pacher (uno fra i più amati d’Italia “dicono le statistiche”) e l’assessore all’ambiente con un nome altisonante come Pom-per-ma-ier, sicuramente avranno nel cassetto qualche idea per tentare di risolvere questo gravoso problema che provoca innumerevoli disagi ai cittadini. Resto in attesa che “ci dicano qualcosa”,……. Mah ? Mah ? Non sento nulla. Che le PM10 mi abbiano inficiato anche l’udito? Preso dallo sconforto non mi resta che augurarmi che cambi questa giunta incapace e sorda alle esigenze dei cittadini che “fortunatamente” chiedono soltanto di poter andare a lavorare senza dover fare il giro della città in autobus.

Speriamo che piova “governo ladro”.

Luca Trainotti

Alcune settimane dopo il provvedimento è stato abolito, clicca qui per accedere all’articolo.

Mamma la Turco!

Il ministro Ferrero, pochi mesi orsono, propose le "camere per il buco", sollevando una discreta alzata di scudi. Oggi il ministro Turco, senza volare così in alto, si limita, per ora, a raddoppiare la quantità di cannabis detenibile ad uso “personale”… Forse non è malizia ritenere che stanno tentando di riemergere vecchie tentazioni sessantottine.

Nel 1973 nel suo "Underground, a pugno chiuso", Andrea Valcarenghi scriveva: "C’è una storia del movimento degli anni Settanta che è stata dimenticata in ogni rievocazione. è la componente che veniva chiamata underground, quella che ha fatto emergere bisogni, ansie che gran parte della generazione del ’68 ha poi saputo esprimere attraverso il movimento delle donne, degli omosessuali […] l’esperienza delle comuni, del fumo, del viaggio in India…". E continuava: "Fare capire al vecchio proletario che la musica, l’erba, la comune […] sono roba comunista, è fondamentale […]. Noi dovremo diventare i genitori che dovranno sentirsi in grado di prendere l’acido con i propri figli". Questo libro recava una introduzione di Marco Pannella: "Carissimo Andrea […] io amo gli obiettori, i fuori legge del matrimonio, i cappelloni sottoproletari amfetaminizzati […]. Fumare erba non m’interessa per la semplice ragione che lo faccio da sempre. Ho un’autostrada di nicotina e di catrame dentro che lo prova, sulla quale viaggia veloce quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige ed ottiene. Mi par logico, certo, fumare altra erba meno nociva, se piace, e rifiutare di pagarla troppo cara, sul mercato […] in carcere". In quegli anni si parlava già, assai spesso, di legalizzazione, anche se allora non appariva affatto centrale il voler sconfiggere lo spaccio illegale, ma si voleva solo difendere un principio, oppure una passione personale, come quella dei provos olandesi, che nel 1967 distribuivano ad Amsterdam un volantino di questo tenore: "Noi, Liberi e Illuminati. Noi i Giovani Insofferenti delle Restrizioni, dei Tabù, dei Divieti, Noi Amanti della Pace e dell’Amore […] rendiamo oggi legale per tutto il pianeta la coltivazione e il consumo della Marijuana…". Per restare in Italia, in un suo saggio del 1979 intitolato Droga e legge penale. Miti e realtà di una repressione, Giovanni Maria Flick, poi divenuto ministro di Grazia e Giustizia, scriveva: "Una prima alternativa ed ipotesi di lavoro è rappresentata dalla possibile liberalizzazione totale del fenomeno droga in senso ampio […]. L’ipotesi non è forse così paradossale e aberrante, come potrebbe sembrare a prima vista, per la possibilità di prospettare una serie di argomentazioni non trascurabili a favore di essa. In effetti, ove si abbiano presenti le motivazioni poc’anzi accennate del ricorso alla droga in chiave, in ultima analisi, di ricerca di una propria identità ed autenticità, si affaccia quanto meno il dubbio sull’accettabilità di una repressione delle manifestazioni di tale ricerca […]. Da un lato, il ricorso alla sostanza stupefacente o psicotropa può, di per sè ed in linea di principio, considerarsi una espressione di autodeterminazione (ancorché più o meno cosciente) e quindi in ultima analisi una espressione di libertà morale. La droga è espressione di libertà morale […], una scelta individuale di ricerca del piacere, di rifiuto della sofferenza, di sottrazione alle convenzioni". Ebbene queste idee erano momentaneamente tornate, espresse con più prudenza, all’epoca dei passati governi Prodi e D’Alema, attraverso l’attivismo dei movimenti antiproibizionisti radicali e comunisti. Proprio nell’aprile 1998, sulla rivista Cannabis, che pubblicizza e diffonde l’uso della cannabis: "Depenalizzazione della coltivazione della canapa da fiore e per la cessione di piccole quantità ad uso individuale o comunitario […]. Depenalizzazione di tutti i reati (minori) per lo più connessi all’uso o piccolo spaccio di qualsiasi droga esistente sul mercato […]. Distribuzione/legalizzazione controllata delle varie droghe dette pesanti". Proprio in contemporanea con queste proposte il governo dell’Ulivo auspicava la depenalizzazione del "consumo di gruppo, autoproduzione e cessione gratuita di droghe leggere", mentre il Ministro Flick, rimanendo fedele alla sua storia, proponeva la "non punibilità del consumo domestico di cannabis: la cosiddetta marijuana sul davanzale". Ecco, la paura è legittima: qualcuno è ancora convinto, trent’anni dopo, che la droga sia una “espressione di libertà”?

News su Maria Vika dalla Bielorussia

Qualche aggiornamento su Maria-Vika, l’orfana bielorussa costretta a rimpatriare per motivi e a condizioni ancora ignote alla pubblica opinione italiana. Le notizie sono due: adesso è in affido temporaneo nella stessa famiglia che ha adottato il fratello (che Maria aveva ritrovato grazie ai coniugi di Cogoleto, non certo grazie alla solerzia dei bielorussi). La quale famiglia ha fatto sapere che se non avrà aiuti economici non potrà tenere Maria con sè.

La seconda notizia è che un giornalista del Secolo XIX di Genova le ha telefonato e la bambina ha detto che vorrebbe tornare in Italia. E qui il festival dell’ipocrisia, tutti a protestare per l’intrusione del giornalista nella vita della bambina.

Certo, quando Maria-Vika aveva raccontato di volersi suicidare pur di non tornare nell’orfanatrofio dove aveva subito violenza, ci si era agitati di meno. I discorsi che si sentivano in giro erano: ma si sa che i bambini dell’est negli orfanatrofi spesso sono abusati! Invece adesso, dopo la telefonata, tutti a strapparsi i capelli, a protestare per lo scandalo…oddio la privacy! In un commento surreale sul corriere, Isabella Bossi Fedrigotti invita a far calare il silenzio su Maria, per farla tornare alla vita normale.

La verità è semplice, invece, ed è sotto gli occhi di tutti: nascondendo Maria, contro la legge, i coniugi Giusto l’hanno realmente tutelata, perchè adesso la bambina è sotto i riflettori, e la Bielorussia difficilmente si può permettere di riportarla dove è stata seviziata. Sarà illegale, ma ha funzionato.

Sarà stato sbagliato (?), ma adesso la bambina è curata e seguita come prima non era mai successo, come prima non era stato possibile.

La seconda considerazione è che per Maria la sua famiglia è quella italiana. Lo ha sempre detto, non si capisce perchè avrebbe dovuto cambiare idea.

E la cosa più ridicola è che invece se Madonna si prende i bambini in Malawi senza rispettare le leggi, tutto va bene, perchè è ricca. Sicuramente più dei coniugi Giusto. Pecunia non olet, et piace a tutti.

(tratto da un articolo di Assuntina Morresi nel sito Stranocristiano.it)

Anziani, ex Ospedalino e….angeli custodi

Torno sul tema dell’avviato trasferimento degli anziani ospiti dalla civica casa di riposo di via S. Giovanni Bosco all’ex Ospedalino di Trento (ora ribattezzato “Angeli Custodi”), in seguito alla campagna stampa lanciata in questi giorni a favore della nuova Rsa di via della Collina.

La struttura viene descritta come una sorta di “albergo a cinque stelle”, dotato di tutti i comfort e paragonabile a quelle svizzere e scandinave (i cui Paesi chissà perché sono sempre considerati il modello di riferimento), insomma una soluzione ideale per i fortunati anziani che ne saranno ospiti: alla fine, si dice, una novantina, ma secondo alcuni non arriveranno a 70.

Certo, è vero, per i familiari e i volontari che andranno a trovarli c’è il “disturbo” di dover salire ogni volta da piazza Venezia lungo una strada stretta ed impervia. Ma cos’è mai questo piccolo fastidio rispetto a ciò che gli anziani trovano lassù: reception, zona ludico-riflessiva, palestra, ristorante, fisioterapia, sala conferenze, cappella, stanze a due e 4 letti ciascuna con propri servizi, per non parlare della splendida vista sulla città e il Monte Bondone, e molto altro ancora.

E poi per i trasporti c’è il bus navetta che già percorre via della Collina ogni 20 minuti (domeniche escluse), mentre chi sale in automobile non ha problemi grazie ai 90 parcheggi offerti dalla nuova struttura.

Conclusione: le critiche mosse al trasloco definitivo di gran parte della casa di riposto di via S. Giovanni Bosco a quella di via della Collina dal Comitato Al Centro gli Anziani, che per chiedere al Comune di rivedere questa soluzione aveva raccolto le firme di 11mila cittadini e inscenato anche qualche manifestazione di protesta, sarebbero non solo ingenerose e ingiustificate, ma anche sintomo di un atteggiamento “capriccioso”, tipico dei bambini viziati avvezzi a ingigantire i dettagli sgraditi (la strada) quando bisognerebbe invece rallegrarsi ed essere orgogliosi di “gioielli” architettonici come questo, meritevoli di ricevere l’applauso dei destinatari e dei cittadini tutti (perché, come nota Concetto Vecchio sul Trentino, “in quanti altri posti d’Italia dispongono di tanta abbondanza?”).

Bene, questo è l’idilliaco quadretto dipinto dai giornalisti dopo la loro visita all’ex Ospedalino. Ciò che lascia allibiti e amareggiati è la superficialità delle loro osservazioni e dei loro giudizi. Il fatto di restare abbagliati dalla nuova struttura limitandosi a tesserne le lodi, se da un lato significa sicuramente compiacere i pubblici poteri (ma è questo il compito di un giornalista?), e in particolare l’amministrazione comunale, che hanno voluto la nuova casa di riposo, dall’altro equivale ad ignorare l’unico, vero problema da sempre evidenziato dal Comitato.

E il problema sta in questa semplice domanda: anziani così, già fisicamente staccati e talvolta sradicati per vari motivi dal loro ambiente, quello naturale, domestico e rassicurante della famiglia, della relazione e della condivisione dell’esistenza con i loro cari, sui quali sapevano di poter contare; anziani così, come si suol dire (con una gelida espressione) “istituzionalizzati”, vale a dire inseriti in quello che resta pur sempre un “ricovero” per quanto sfavillante, moderno e attrezzato possa essere; ecco: persone così, di cosa, primariamente ed essenzialmente, hanno bisogno?

Di una sola cosa: di non essere e di non sentirsi sole.

In due modi.

Primo. Percependo che qualcuno, “fuori” da quelle mura, pensa a loro ed è vicino anche fisicamente e lo dimostra andandoli a trovare, facendo loro compagnia. Il più possibile. Anche tutti i giorni. Anche più volte al giorno come da sempre avviene. Questo “qualcuno” sono i figli, i nipoti, le sorelle, i fratelli, gli amici, oppure i volontari che gratuitamente cercano di rispondere alle loro piccole e grandi esigenze di ogni giorno.

Secondo. Mettendo gli anziani ospiti nelle condizioni di muoversi da soli, accompagnati o in carrozzella, per andare loro stessi ad incontrare gli altri, di immergersi nella realtà esterna, uscendo il più spesso possibile dalla struttura protetta per sentirsi vivi, concedersi un giro in città per puro piacere o seguire magari uno dei tanti eventi proposti nelle vie e piazze del centro, stare fra la gente, distrarsi e, perché no?, divertirsi un po’ in mezzo agli altri.

Quel che in ogni caso è irrinunciabile è assicurare questo contatto, questo rapporto con gli altri, dentro e fuori la casa di riposo. Rapporto con gli "altri" e la città che il personale, per quanto competente, specializzato, sensibile, numeroso, non può sostituire.

Contatti e rapporti che sono il filo sottile, delicato, informale, eppure vitale, grazie al quale questi anziani si sentono ancora partecipi del mondo esterno, coinvolti e “presenti” in una realtà umana e sociale diversa dal microcosmo, pur completo di tutto, rappresentato dall’istituto.

Se questa è l’esigenza fondamentale degli ospiti, è chiaro che la struttura dovrebbe essere funzionale ad essa. Anche e soprattutto con la sua collocazione. Ed è altrettanto evidente che l’ex Ospedalino ha forse, anzi, sicuramente tanti pregi, ma non questo. Non quello irrinunciabile di favorire e agevolare il più possibile sia l’uscita degli anziani in città sia le visite dei loro familiari e conoscenti, molti dei quali li vanno abitualmente a trovare anche 3-4 volte al giorno.

E’ oggettivamente innegabile che tutto ciò, con la casa di riposo in via della Collina, avverrà con più difficoltà e minor frequenza di prima.

Questo è il punto.

Non a caso uno dei principali requisiti richiesti oggi alle case di riposo, specie se di nuova realizzazione, è che siano vicine se non interne ai centri urbani, per favorire l’accessibilità alle strutture e dare al tempo stesso agli ospiti l’opportunità di frequentare il tessuto urbano esterno. Ed è appunto questo requisito non secondario, anzi, irrinunciabile per la qualità della vita degli ospiti, che l’ex Ospedalino non offre rispetto alla vecchia “civica” casa di riposo di via S. Giovanni Bosco, dove per quanto manchi la vista panoramica e vi sia la necessità di una ristrutturazione, il contatto diretto, immediato con i parenti, i volontari e la città era pienamente garantito.

Assistiamo così al paradosso di una Trento impegnata, da un lato, ad abbattere ogni possibile barriera architettonica che lungo le strade come negli edifici pubblici e privati discrimina chi ha particolari esigenze di movimento, e pronta dall’altro ad incrementare le distanze e a rendere più difficili i rapporti tra sé e i propri anziani.

Che finiranno magari nel piccolo paradiso a 5 stelle della casa di riposo “Angeli Custodi”, ma ai quali forse mancheranno gli “angeli custodi” in carne ed ossa, quelli veri ed umani di cui più di ogni altra cosa hanno bisogno.

Gian Burrasca

La Corea del Nord in guerra contro il suo stesso popolo. Ma i pacifisti (anche trentini) tacciono

                                                                                          (Nella foto, il dittatore nordcoreano Kim Jong Il)

Perché il Forum Trentino per la pace e la galassia delle organizzazioni raccolte sotto la bandiera arcobaleno, non condannano l’esperimento atomico annunciato dalla Corea del nord?

Qualcuno forse ricorderà la grande mobilitazione preventivamente promossa da questi soggetti contro la possibile guerra in Iraq.

Non sarebbe forse giustificata oggi un’analoga protesta nei confronti di Pyongyang il cui regime totalitario, fra i peggiori sulla faccia della terra, minaccia apertamente la pace nel mondo e si esalta per il possesso dell’arma nucleare?

L’interrogativo è lecito anche nel caso in cui l’esplosione non fosse in realtà mai avvenuta e configurasse quindi solo un bluff messo in atto dal regime di Kim Jong per “mostrare i muscoli” alla comunità internazionale.

Scendere in piazza avrebbe infatti un duplice significato.

Oltre a mostrarsi pubblicamente preoccupati per l’inquietante prospettiva di un conflitto mondiale dalle conseguenze devastanti, si tratterebbe anche e soprattutto di sollecitare ed esprimere l’indignazione dell’opinione pubblica di fronte alle spaventose condizioni di schiavitù e di sottosviluppo in cui la dittatura comunista costringe il Paese.

Si può dire a ragion venduta che da anni il governo della Corea del Nord è in guerra contro il suo stesso popolo.

Per mantenere il proprio apparato bellico e arrivare a produrre l’atomica, esso non esita infatti a lasciare che la maggior parte della gente muoia letteralmente di fame. La Corea del nord è un gigantesco lager dove solo l’esercito e la polizia hanno la certezza di sopravvivere. Il regime spreme 23 milioni di abitanti per mantenere 1,2 milioni di soldati professionisti e 6 milioni di riservisti.

Recentemente la United Nation Food Agency (l’ente dell’Onu che si occupa dell’alimentazione nel mondo) ha rilevato nei bambini sintomi gravi di denutrizione e rachitismo. L’ultima grande carestia, che risale a un decennio fa, ha sterminato due milioni di persone, un decimo della popolazione. Frequenti sono gli assassini a scopo alimentare. Alle 22.00 la corrente elettrica viene tolta, mentre l’acqua calda è in funzione solo 4 ore al giorno. E tutto questo vale anche per il più grande Hotel della capitale.

A queste disastrose condizioni economiche si accompagna la più completa negazione di ogni libertà. I turisti complessivamente accettati nel Paese sono meno di 50 all’anno. Agli abitanti è proibito sia guardare gli stranieri che rivolgere loro la parola.

Non esistono né la tv né la radio. Le persone non sanno nulla di quel che accade nel resto del mondo. Fotografare è vietato. Finiscono in carcere – e poi di costoro non si sa più nulla – quanti sono anche solo sospettati di avere idee diverse da quelle imposte dal regime.

Queste e altre informazioni sono state pubblicate nei giorni scorsi sulla stampa italiana, ma l’unica notizia che ha avuto risonanza è stata quella dell’esplosione atomica.

Chi però, come il Forum Trentino della pace, è per propria scelta sistematicamente impegnato a denunciare queste situazioni e questi soprusi, anche perché l’ente pubblico (nel nostro territorio la Provincia) ne finanzia l’esistenza e l’attività con i soldi di tutti noi, non può esimersi dall’alzare la voce per evidenziare la cultura disumana e di morte di cui le minacce di guerra e l’atomica sono solo l’effetto più appariscente.

Gian Burrasca

E’ tempo di dire cosa ne sarà dell’ospedale Santa Chiara

Gli assessori provinciali Grisenti (opere pubbliche) e Andreolli (sanità) hanno presentato lo studio preliminare che spiega perché a Trento c’è bisogno del nuovo, grande ospedale che – la decisione è già stata presa – sorgerà nei prossimi anni in via al Desert, al posto delle attuali Caserme Chiesa, Pezzoli e Bresciani.

Si tratterà – hanno assicurato – di una struttura ad altissimo contenuto tecnologico, di un edificio “intelligente”, altamente qualificato e dotato di tutti i servizi di cui oggi c’è bisogno vista l’evoluzione degli interventi in questo settore.

Benissimo. Gli assessori non hanno però spiegato cosa ne sarà dell’ospedale Santa Chiara, per il cui ampliamento e ammodernamento sono stati spesi più di 300 milioni di euro, dal momento che il nuovo nosocomio soddisferà ogni necessità e quindi non si prevedono residue esigenze sanitarie alle quali rispondere.

E’ certamente vero che in attesa dell’ospedale di via al Desert era comunque indispensabile dotare il Santa Chiara di altri posti macchina per ridurre la carenza di parcheggi e la pressione di un traffico ormai insostenibile sia per la struttura sanitaria sia per i circostanti e popolosi quartieri della Bolghera e di Gocciadoro.

Più difficile da comprendere è l’enorme investimento attuato per l’ampliamento e l’ammodernamento dei volumi e dei reparti dell’ospedale, se già si sapeva che sarebbe stato sostituito.

Credo che, considerate le spese sostenute per il vecchio e le dimensioni del nuovo progetto, non solo i cittadini di Trento ma quelli di tutta la provincia abbiano quindi il diritto di conoscere il destino riservato all’ospedale Santa Chiara una volta sorta la nuova struttura di via al Desert.

Anche perché è noto che difficilmente l’ospedale attuale potrà essere adibito ad altri usi.

Non resterebbe quindi che optare per l’abbattimento, e paradossalmente questo avverrà proprio quando le opere di innovazione oggi in corso saranno terminate e avranno reso la struttura più funzionale.

Meglio quindi ipotizzarne ancora un utilizzo di tipo sanitario, magari di tipo diverso, specialistico o altro. Ma allora il nuovo ospedale di via al Desert non potrà occuparsi di tutto.

Da parte del governo provinciale un chiarimento, quindi, sarebbe doveroso per due motivi: perché la questione non è di poco conto e per il necessario rispetto verso i cittadini.

Gian Burrasca

Anziani di Trento all’ex Ospedalino: un caso di eutanasia sociale

Dopo aver deciso di abbattere l’attuale civica casa di riposo di via S. Giovanni Bosco, nel cuore della città, il Comune di Trento sta per trasferire in modo definitivo una parte degli anziani ospiti, soprattutto quelli non autosufficienti, nell’ex Ospedalino situato – ma meglio sarebbe dire arrampicato – in cima ad un ripido e stretto vicolo il cui nome è non a caso “via della Collina” (ma data la salita il termine collina è eufemistico).

La nuova Rsa risulterà così inevitabilmente una gabbia dorata, dalla quale gli anziani, proprio perché non autosufficienti, non potranno uscire per scendere in città e ancor meno per risalire se non in automobile o con un mezzo pubblico.

Oggi, da soli o accompagnati, essi possono concedersi agevolmente una passeggiata o un giro in carrozzella in centro, sentendosi partecipi della città e integrati nella vita urbana.

A questo loro isolamento (lo spazio per un po’ di verde all’esterno della nuova struttura è del tutto insufficiente) si aggiungerà il grave disagio arrecato ai numerosi familiari abituati a recarsi anche due o più volte al giorno in visita agli anziani, senza contare il problema dei continui spostamenti su e giù per la viuzza del personale assistenziale e sanitario e dei volontari costretti a raggiungere, sicuramente non a piedi, la nuova sede, con prevedibili ripercussioni sull’inquinamento già oggi oltre i limiti. Infatti il traffico lungo via della Collina, già intenso, aumenterà ulteriormente in futuro con i nuovi residence che sorgeranno poco sopra, al punto da rendere allucinante la prospettiva che ad esso si aggiunga anche quello prodotto dal nuovo ricovero (si pensi anche ai furgoni e ai camion per le forniture quotidiane).

A nulla è valso il reiterato tentativo di indurre l’amministrazione di Trento a riconsiderare questa scelta, promosso fin dalla primavera del 2004 da un gruppo spontaneo di cittadini battezzatosi “Comitato al centro gli anziani”, formato da parenti degli ospiti della casa di riposo, associazioni e semplici cittadini, che preferendo non limitarsi alla protesta, aveva anche proposto al Comune e alla Provincia, raccogliendo a tal fine oltre 10mila firme in pochi mesi, due soluzioni ragionevoli:

a) da un lato la ristrutturazione e l’ammodernamento dell’attuale casa di riposo che si trova in una posizione ideale per favorire il necessario rapporto di integrazione fra anziani e città;

b) dall’altro una diversa destinazione d’uso della rinnovata struttura di via della Collina, più adatta ad accogliere altri servizi sanitari e assistenziali (essendo già attrezzata da questo punto di vista potrebbe ad esempio ospitare un convalescenziario nel quale ricoverare, per periodi di tempo limitati, pazienti dimessi dall’ospedale e bisognosi di un periodo di riposo e cura prima di rientrare a casa e malati in gravi condizioni per dare sollievo alle famiglie).

E non sono nemmeno servite le iniziative realizzate l’anno scorso – manifestazioni pubbliche di vario tipo, interventi in consiglio comunale, articoli apparsi sulla stampa locale – sollecitate dal comitato e attuate anche da esponenti e organizzazioni di diversa e opposta estrazione politica, per convincere il governo di centro-sinistra della città (Sindaco è il diessino Alberto Pacher) a non relegare in una struttura tanto infelice e inadeguata gli anziani ospiti della casa di riposo.

Per tutta risposta l’amministrazione ha ribadito la volontà di procedere al trasferimento degli anziani in collina garantendo l’offerta di bus navetta per il collegamento con la città che oltre a non risolvere il problema risulterebbero comunque insufficienti, oltre ad improbabili allargamenti di via della Collina, arrivando nei giorni scorsi ad ipotizzare addirittura un fantascientifico ascensore.

Per denunciare un progetto contrario al più elementare buon senso e al rispetto di soggetti deboli come gli anziani ospiti della casa di riposo, i quali non sono in grado di opporsi da soli ad una decisione presentata dall’amministrazione come inevitabile, non resterebbe a questo punto che una puntata di Striscia la notizia.

Il titolo del servizio televisivo potrebbe essere: Trento, la città che espelle i suoi anziani. Un caso di eutanasia sociale.

Gian Burrasca