Simonino, quanti “falsi”
Padre Frumenzio Ghetta confuta le tesi riprese anche da Quaglioni e Bossi Fedrigotti sul frate predicatore
Il ruolo e la figura di fra Bernardino da Feltre: per gli storici fomentò l?odio verso gli Ebrei. Ma si tratta di letture smentite dai documenti
“I documenti e gli atti processuali sulla vicenda del Simonino non menzionano mai fra Bernardino, così come non parlano mai di frati francescani”
Di PIERANGELO GIOVANETTI
Un falso storico. L?accusa al francescano Fra Bernardino Tomitano da Feltre di aver istigato all?odio antigiudaico con le sue predicazioni nel duomo di Trento durante la Quaresima del 1475, preparando così il terreno alla caccia agli ebrei dopo la morte del Simonino, è falsa e non ha alcun fondamento storico e documentario. A sostenerlo è padre Frumenzio Ghetta, storico e archivista, Sigillo d?Oro della Città di Trento nel 2000, alla cui paziente ricerca d?archivio si deve, fra l?altro, il ritrovamento dell?Aquila di San Venceslao, simbolo della Provincia di Trento.
Per cinque secoli, da quando Mariano da Firenze verso il 1510 narrò nel Fasciculus Chronicarum le gesta di fra Bernardino coinvolgendolo nei fatti di Trento del 1475, tutti gli storici successivi, da Menestrina (“Gli ebrei a Trento”, 1903) al Wadding (“Annales minorum”) al più recente Quaglioni (“Processi contro gli ebrei di Trento”, 1990) hanno ripreso l?accusa, sostenendo che il frate di Feltre, predicatore in quella Quaresima che precedette il ritrovamento del corpo del piccolo Simone e la falsa incriminazione per omicidio rituale, ebbe un ruolo fondamentale nell?aizzare la comunità trentina all?odio antigiudaico. Nel recente testo curato dal professor Diego Quaglioni, già preside di Giurisprudenza, Anna Esposito riporta anche un resoconto del 1493 delle prediche bresciane di fra Bernardino. In esse il podestà di Trento de Salis (indicato però col nome de Santis), che si occupò della vicenda del Simonino avviando la caccia agli ebrei, viene ricordato sottolineando l?aiuto offertogli dal frate durante le prime fasi del processo.
Anna Esposito riporta il passo, tratto dalla vita di Bernardino scritta dal Guslino, che attinse al diario di viaggio del segretario del Tomitano, Francesco Canali da Feltre: “Messer Giovanni de Santis, che fu podestà in Trento, quando fu occiso da Hebrei il Beato Simon da Trento, per il qual caso havea havuto molt?aiuto dal Padre Bernardino, ch?ivi predicava”. L?accusa è stata ripresa anche di recente sul Corriere della Sera, in un articolo di Isabella Bossi Fedrigotti che fa riferimento alla storiografia precedente.
“Non esiste alcun documento che provi un coinvolgimento di fra Bernardino nel caso del Simonino e nella caccia agli ebrei del 1475”, afferma padre Ghetta, che alla vicenda storica ha dedicato anni di studi approfonditi. “Le prediche di fra Bernardino sono pubblicate e da esse non si evince alcun riferimento antiebraico. Fra Bernardino, inoltre lasciò Trento il lunedì della Settimana santa, dopo aver predicato in duomo alla comunità trentina, mentre la vicenda del Simonino si è svolta tutta nell?ambito della comunità tedesca di S.Pietro. Inoltre fra Bernardino non conosceva di persona nemmeno il vescovo von Hinderbach e non era presente a Trento durante le prime fasi dell?inchiesta”.
Padre Ghetta con le sue ricerche, che portarono già allo scritto “Fra Bernardino Tomitano da Feltre e gli Ebrei di Trento nel 1475” pubblicato nel 1986 dalla rivista “Civis”, ha accertato che “tutti i documenti trentini sulla vicenda del piccolo Simone non dicono nulla di Bernardino da Feltre: non vi compare neppure il nome”.
Le accuse di antigiudaismo che per secoli hanno circondato la figura di fra Bernardino erano basate anche sul fatto che a lui si attribuiva l?erezione dei Monti di Pietà, compreso quello di Trento, che avevano costituito una concreta alternativa agli usurai, attività che nel Medioevo cristiano era affidata agli ebrei. “Fra Bernardino non fondò il Monte di Pietà di Trento”, spiega padre Ghetta, “perché l?istituzione di questo risale al 1523 e non al 1475, come per secoli si è creduto fino agli studi di Giovanni Ciccolini. Fra Bernardino ottenne dal papa l?autorizzazione a istituire i Monte di pietà, con un tasso di interesse del 5%, che ne consentiva così la sopravvivenza economica. Ma il primo Monte di Pietà fondato da fra Bernardino fu quello di Mantova che risale al 1484, e la motivazione era quella di sostituire agli usurai un banco di solidarietà, secondo uno spirito mutualistico”.
Per padre Ghetta, la narrazione di fra Mariano da Firenze, su cui si basa poi tutta la storiografia successiva, “non ha fondamento”. “L?opera Fasciculus Chronicarum, in cinque libri narra la storia dell?Ordine francescano dalle origini fino al 1500”, spiega padre Ghetta. “Tali testi, ora irreperibili, furono alla base degli scritti del Wadding, che perpetuò così l?errore senza un approfondimento documentario. A fra Mariano, infatti, dopo aver letto la storia del Simonino scritta dal Tiberino, non parve vero di poter attribuire al suo confratello Bernardino una parte da protagonista in quella vicenda. Insomma, era un panegirico, non una ricerca storica la sua, basata su documenti. Teniamo presente, infatti, che per secoli il Simonino fu oggetto di culto. I documenti e gli atti processuali sulla vicenda del Simonino, infatti, non menzionano mai fra Bernanrdino, così come non parlano mai di frati francescani”.
Quanto ai documenti “bresciani” che riporterebbero di un ruolo diretto di fra Bernardino a fianco del Podestà di Trento nel caso del Simonino, padre Ghetta è lapidario. “Sono stato a Brescia a vedere i documenti. I documenti a cui fa riferimento Anna Esposito e il professor Quaglioni risalgono al 1650, cioè due secoli dopo i fatti narrati. Quindi si può dubitare fortemente dell?autenticità di quanto scritto. Anche perché nel frattempo si era diffusa la convinzione dell?omicidio rituale, e quindi diventava un punto di merito il fatto di aver contribuito a scoprire i “colpevoli””.
Sulla base delle ricerche svolte, quindi, padre Ghetta contesta anche l?ultimo lavoro svolto per conto dell?Itc, cioè la compilazione del Cd “Simonino 1475, Trento e gli Ebrei” a cura del professor Diego Quaglioni. Nel Cd, infatti si parla ancora di padre Bernardino come di “feroce oppositore degli ebrei”. “Quando le prediche pubblicate dicono esattamente il contrario, e invitano a non trattare male gli ebrei”, commenta sconsolato padre Ghetta. “E quando non esista un solo documento dell?epoca che provi la presenza a Trento di fra Bernardino dopo il ritrovamento del corpo del piccolo Simone, e un qualunque ruolo avuto dal frate nell?inchiesta e nel processo”.
Categoria: Attualità
I Pastori non si lasciano guidare dal gregge, ma lo difendono dai lupi
Di fronte alla massiccia campagna Prodico (Prodi+Dico) scatenata in questi giorni dai grandi mass media italiani (e locali) contro la Chiesa che con il Cardinale Ruini ha preannunciato una nota destinata ad impegnare i politici cattolici a difendere la famiglia naturale bocciando il disegno di legge approvato dal governo per riconoscere le cosiddette "coppie di fatto", suggerisco a tutti di leggere ogni giorno Il Foglio e Avvenire. E proprio dal "Foglio" del 17 febbraio propongo di seguito questo arguto e gustoso articolo di Camillo Langone.
"I vescovi facciano i pastori e non i politici”, dicono, e per una volta hanno ragione. Parlando a vanvera può capitare di centrare casualmente il bersaglio. Sul quotidiano della Margherita, Europa, Alberto Monticone, Angelo Bertani e Aldo Maria Valli cercano di insegnare il mestiere ai vescovi e indicano, senza volerlo, la strada da seguire. Che i vescovi facciano i pastori, giustissimo, e pazienza se i tre volevano dire tutt’altro.
Nessuno di loro sembra provenire dalle regioni in cui la pastorizia ha radici più salde: Abruzzo, Lucania, Sardegna… Nessuno mostra di sapere che ancora oggi, nonostante il divieto assoluto di caccia, i pastori appena vedono un lupo sparano. Sull’appennino lucano, inerpicandosi da Tursi verso il Pollino, non è difficile vedere pelli di lupi appese alle porte degli stazzi. Ai pastori non gliene frega niente del Wwf, dei Verdi e della legge 968, vedono un lupo e gli sparano, lo scuoiano e lasciano la carcassa ai cani e ai corvi. Solo a quel punto gli chiedono se aveva fame e quali erano le sue intenzioni. Uomini rudi per i quali la salvezza delle pecore viene prima, molto prima, del rispetto delle buone maniere.
Perciò i cattodemocratici che vogliono una gerarchia molliccia devono dire esattamente il contrario: “I vescovi facciano i politici e non i pastori”. Secondo Monticone, un mangiaostie a tradimento che scrive papa minuscolo e Costituzione maiuscola, la Chiesa non deve compiere “atti di rilevanza politica”. Deve essere quindi irrilevante. E proseguire la “costruttiva tradizione dell’episcopato italiano degli ultimi anni”, quelli durante i quali molti pastori si distrassero e i lupi scesero a valle: divorzio, aborto, nuove chiese progettate da architetti anticristiani, declino della domenica…
Bertani dice che Ruini sta cercando di resuscitare il passato e non il Vangelo, può darsi, intanto lui sta cercando di strappare dal Nuovo Testamento la Lettera ai Romani.
Valli intervista alcuni parroci allo sbando secondo i quali il vero problema è la mancanza di lavoro. Il Vaticano invece di prendersela coi matrimonietti dovrebbe costruire fabbriche al sud, sembra di capire. Un prete dice che i suoi parrocchiani non credono più nell’indissolubilità del matrimonio e nell’obbligo di andare a messa però ha trovato una ricetta: l’ascolto. Insomma il gregge si sta sparpagliando in ogni direzione e lui si è messo a registrare i belati.
Su Repubblica c’è l’arcivescovo di Pisa, monsignor Plotti, che teme la nota vincolante sui matrimonietti e invoca collegialità. Come se i pastori del Pollino, quando il branco di lupi esce dal bosco, chiedessero la convocazione della conferenza allevatori lucani per decidere se imbracciare le doppiette. Ma quando mai.
I vescovi devono appunto tornare a fare i pastori, senza lasciarsi guidare dal gregge e meno che meno dai mangiaostie a tradimento che non sono veri cristiani ma veri roussoiani (non riconoscono il peccato originale, pensano che i lupi siano buoni o forse vittime di una società ingiusta che li ha resi carnivori)."
Riflessioni su “Manuale d’amore 2”
Si è scatenata nei giorni scorsi sulla stampa trentina, e siamo certi ne sentiremo parlare anche nel prossimo futuro, una campagna contro la proposta del sindaco di Mezzolomabardo, Rodolfo Borga, di impedire la proiezione del film “Manuale d’amore 2”. Nel seguito dell’articolo ospitiamo la lettera del sindaco in cui spiega le ragioni di tale presa di posizione. Un’azione a mio parere legittima, non fosse altro per il fatto che lo stabile del Teatro “San Pietro” è di proprietà parrocchiale e il regolamento che ne disciplina l’utilizzo prevede che non possano essere trasmessi film in contrasto con la morale cattolica.
Non voglio entrare nel dettaglio della questione che, ripeto, sarà ben spiegata dal sindaco Borga: mi preme, invece, fare una breve riflessione sulle reazioni dei mass media e di certo mondo cattolico. Appurato il fatto che il film andrà regolarmente in scena, non si può non constatare come, ancora una volta, intorno ad alcune tematiche, si scateni una sorta di inquisizione al contrario in nome del sessantottino “vietato vietare”, di una presunta tolleranza acritica e amorale contro chiunque tenti di esprimere la propria opinione in materia di omosessualità, matrimonio, morale, etica, in maniera contraria alla vulgata corrente. Papa Ratzinger ha ben espresso il momento storico-culturale che stiamo vivendo, definendolo “dittatura del relativismo”, in cui si assiste quotidianamente a tronfi e retorici, se non ideologici, richiami al dialogo, panacea sterile contro ogni vero tentativo di distinzione caso per caso, di dare giudizi (orrore!) anche di carattere morale ed etico su argomenti fondamentali per la vita sociale di una comunità. Il discorso è troppo complesso per non essere ripreso in futuro, anche a partire da due passaggi nodali: l’emergenza educativa che attanaglia il nostro Paese e che riguarda ormai anche le piccole comunità di provincia, e l’assordante silenzio di una parte del clero e del mondo cattolico in generale, per il quale si possono anche mettere in discussione le verità dogmatiche della Fede, naturalmente con un atteggiamento “adulto”, ma non si può prendere posizione netta su argomenti quali quelli trattati, ad esempio, nel film del regista Veronesi. Paradossalmente, nel nome della tutela della “diversità”, vengono calpestate le prese di posizione di chi esprime opinioni davvero diverse e non si è ancora lasciato sedurre dagli imbonitori di quelle che Vittorio Messori definisce le “parole mantra” quali pace, dialogo, solidarietà, giustizia, secondo la logica del conformismo buonista in auge anche nel nostro Paese, soprattutto nei mezzi di informazione di massa.
Mezzolombardo, 4 febbraio 2007.
E’ proprio vero che quando ci si innamora – in buona, ma non di rado in malafede – di un’idea (nella fattispecie l’idea è quella del Sindaco censore), nulla possono né la logica, né la semplice realtà dei fatti. L’idea, che tanto piace (o serve), diventa realtà, anche quando la medesima con la realtà stride. Ciò premesso, il sottoscritto “censore” chiede rispettosamente la facoltà di poter esporre le circostanze di fatto, così da lasciare ai lettori la possibilità di giudicare serenamente (e cioè senza condizionamenti di sorta) quanto accaduto. Il cinema-teatro di Mezzolombardo, di proprietà della Parrocchia, è gestito dal Comune sulla base di una convenzione, che trova puntuale riscontro in un regolamento, debitamente approvato nell’anno 2000 dal Consiglio comunale, che ne disciplina l’utilizzo. A tale regolamento tutti, ma proprio tutti, in primo luogo il Comune, debbono attenersi (e ci mancherebbe altro!). Esso impone al Comune di non consentire la rappresentazione di spettacoli di qualsiasi genere, il cui contenuto contrasti con la morale cattolica.
Al fine di garantire il rispetto di tale obbligo, è prevista l’istituzione di una commissione di sei membri (tre indicati dalla Parrocchia, due dalle associazioni culturali del paese e solo uno dal Comune), incaricata di esprimere un parere preventivo su tutti gli spettacoli in programma. Di fatto è tale commissione a decidere se uno spettacolo rispetta o meno l’obbligo sopra richiamato, ed a tale decisione il Comune si è sempre attenuto. Nella fattispecie in esame per un disguido, non imputabile ad alcuno, la commissione non è stata convocata e i film programmati non sono pertanto passati al vaglio della medesima. Venuto a conoscenza dell’accaduto, ho semplicemente richiesto al Coordinamento Teatrale, con il quale collaboriamo positivamente da quasi sette anni, se fosse ancora possibile convocare “a posteriori” la commissione, così da consentire il rispetto del Regolamento comunale vigente. Reso edotto del fatto che ormai i contratti erano già stati sottoscritti e che, conseguentemente, non era comunque in ogni caso più possibile alcuna eventuale diversa valutazione, abbiamo deciso di proiettare tutti i film in programma. Nessuna censura, quindi, e nessun tentativo d’impedire la proiezione di un film, ma molto semplicemente la volontà di appurare la possibilità di applicare anche in questa occasione, così è stato fatto da sette anni a questa parte, il Regolamento comunale. Questa la realtà dei fatti. Se poi mi si chiede, così come è stato fatto, quale voto avrei espresso qualora la commissione fosse stata convocata, non ho alcun problema ad affermare che il voto del Comune sarebbe stato contrario; e ciò anche alla luce del giudizio negativo (letteralmente “inaccettabile/superficiale”) espresso dall’Associazione Cattolica Esercenti Cinema.
Ciò non significa però censura, ma semplice (meglio doverosa) applicazione del Regolamento comunale; qualora poi il voto della Commissione fosse stato di segno opposto (così come accaduto qualche anno fa per “Magdalene”), il film sarebbe stato comunque proiettato a norma di Regolamento. E se, ancora, mi si chiede, così come è stato fatto, la mia opinione su “matrimonio” tra omosessuali e fecondazione assistita, non ho alcun problema a ribadire che, fermi i diritti individuali, che vanno comunque garantiti, vi sono limiti che la presunta onnipotenza dell’uomo non può varcare e che tra famiglia naturale ed unione omosessuale vi è una differenza abissale. Nel concludere una breve considerazione sulla presunta censura. Io non ho fatto altro che applicare un Regolamento vigente. Altra cosa è la censura, praticata, in modo ferreo e puntuale, da quelle lobby, potenti e ben introdotte, che su determinati temi non tollerano opinioni difformi in nome di una democrazia, che a tutti vorrebbero fosse garantita, eccetto però a chi la pensa in modo non conforme al loro. Distinti saluti.
Rodolfo Borga
Calcio, senza autocritica non si può ripartire
Giocare. Nell’aria c’è una gran voglia di giocare. Certo non puoi scrollarti dai tacchetti il feretro di Filippo Raciti, l’agente trucidato a Catania. E neanche quello di Ermanno Licursi, il dirigente della squadra calabrese della Sammartinese ammazzato a pedate, rimasto nella penombra perché in terza categoria le telecamere sono spente. Voglia di giocare: per scrollarsi di dosso l’incubo e tornare ad essere normali; e perché il piatto piange e la quarta industria del Paese non può tener chiusi i battenti troppo a lungo. Una voglia di giocare – dispiace doverlo constatare – ben più forte della voglia di mettere un punto fermo e andare a capo. Una voglia di giocare che potrebbe far perdere all’Italia l’occasione per una svolta epocale.
Ieri è stata la giornata di Giuliano Amato. Va apprezzato, il nostro ministro dell’interno, non solo per la sua intransigenza (“Lo spettacolo non può continuare a questo prezzo, anche se si tratta dello sport più lucrativo del mondo”), ma soprattutto per l’autocritica, non di maniera ma autentica. “Anch’io ho sbagliato – ha ammesso – nel permettere le deroghe al decreto Pisanu”. Ci piacerebbe che tutti prendessero l’esempio perché nessun rinnovamento profondo può ignorare l’ammissione delle colpe e l’assunzione delle responsabilità. Noi tifosi siamo stati reticenti; abbiamo tollerato la beceraggine degli ultrà amici indignandoci per quella altrui; e mai s’è visto un lanciatore di monetina, fumogeno, bottiglietta preso, impacchettato e consegnato alla polizia dei vicini di gradinata. Macché, omertà idiota innanzitutto. Noi giornalisti abbiamo strillato troppo, solleticando gli umori peggiori del peggior tifo. I calciatori hanno flirtato con gli ultrà facinorosi pur di tenerseli buoni, ignorando la lezione della vita, e della storia: prima o poi certe “amicizie” le paghi, e con gli interessi. I dirigenti, spesso, hanno più che flirtato. Ma soprattutto hanno eluso le regole facendola franca: iscrizioni irregolari al campionato, fideiussioni fasulle, passaporti falsi, bilanci taroccati, fondi neri… Bell’esempio davvero. Chi non rispetta le regole non è più credibile e non può pretendere di imporle agli altri. La politica ha spesso fatto il tifo, a volte latitato, sovente badato al business dei presidenti amici e al voto degli elettori tifosi.
Amato punta agli stadi. Se non sono a norma, niente pubblico. Giusto. Restano però dubbi pesanti. Perché lo stadio è solo un contenitore. Nessun contenitore è neutro e uno stadio brutto, scomodo, insicuro favorisce la violenza. Ma il contenuto? Gli spettatori? Le loro teste e i loro cuori? Se davvero si riparte domenica, con molti stadi chiusi, al pubblico dovrà essere spiegato perché l’Olimpico di Roma è sicuro mentre gli stadi del Chievo e dell’Udinese, i più tranquilli della penisola, sono vietati. E già a qualcuno, assai poco responsabilmente, stanno saltando i nervi. Ad esempio ad Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli e di quei napoletani che non hanno certo bisogno di incoraggiamento per eccitarsi: “Porte chiuse al San Paolo? Questo è fascismo”. Stiamo freschi.
L’esempio di Amato va seguito, ma fino in fondo. Occorre un gigantesco mea culpa e una colossale assunzione di responsabilità. Solo dopo si potrà ripartire, fedeli alle regole. Quelle che politica e società di calcio ribadiranno o scriveranno ex novo. E quelle che sono già scritte dentro di noi, abbiamo dimenticato ma basterebbero: onestà, lealtà, rispetto. Roba vecchia, mai così nuova.
(da “Avvenire”, 7 febbraio 2007).
La questione palestinese secondo mons. Robert Stern.
“Ci giungono ancora le implorazioni di tanti e tanti profughi, di ogni età e condizione, costretti dalla recente guerra a vivere in esilio, sparsi in campi di concentramento, esposti alla fame, alle epidemie e ai pericoli di ogni genere”. Papa Pio XII, nella sua lettera enciclica Redemptoris nostri del venerdì santo del 1949, dipingeva così la situazione dei palestinesi dopo il primo conflitto arabo-israeliano successivo alla nascita dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948. La Pontificia Missione per la Palestina nasce così, il 18 giugno del 1949, con l’intento di dirigere e coordinare tutte le organizzazioni e associazioni cattoliche impegnate negli aiuti alla Terra Santa. Per i venticinque anni d’attività della Missione Pontificia, nel 1974, papa Paolo VI ne parlò come “uno dei segni più chiari della preoccupazione della Santa Sede per la sorte dei palestinesi, particolarmente a noi cari perché sono popolazione della Terra Santa, contano fedeli seguaci di Cristo e sono stati e sono tuttora così tragicamente provati”.
Monsignor Robert L. Stern, archimandrita del patriarcato greco-cattolico di Gerusalemme, ebreo, presiede dal 1987, per nomina del papa, questa speciale agenzia della Santa Sede, che ha la sede principale a New York, e uffici in Vaticano, a Gerusalemme, Beirut, Amman, e che oggi stende la sua azione caritatevole e pastorale tra Palestina, Israele, Libano, Siria, Giordania e Iraq. Così ci racconta del suo lavoro, e della carità del papa per i palestinesi.
Quale è la Palestina che la Missione Pontificia aiuta?
ROBERT L. STERN: Da quando, nel 1967, Israele ha preso il controllo politico della Palestina, c’è una popolazione intera che vive sotto occupazione militare di un altro Paese. E l’Autorità nazionale palestinese non è un vero governo. La Pontificia Missione sta prestando il suo servizio in una situazione d’inadeguatezza delle istituzioni governative cui di solito la gente si rivolge. E gli enti pubblici, che pure esistono, non funzionano come di norma. Allora, necessariamente, oltre al sostegno alle Chiese e alle Comunità cristiane presenti in Terra Santa, proviamo a fare qualcosa di buono per il popolo.
Poveri tra i poveri nel Palestine Camp, in Siria: i beduini del deserto si adattano a vivere in accampamenti ai margini dei campi profughi
Può suggerire esempi recenti di aiuto?
STERN: La nostra Missione ha operato nelle zone di Betlemme, Beit Jala, Beit Sahour, e anche a nord di Gerusalemme, a Ramallah, dove c’era una presenza cristiana. Ma il nostro servizio non è solo per i cristiani. Ad esempio, mentre la Chiesa locale favorisce la costruzione di nuovi appartamenti, da anni la Pontificia Missione ripara le case distrutte, soprattutto nell’area della città vecchia di Gerusalemme dove sopravvive una fetta di popolazione palestinese indigente. La tensione tra israeliani e palestinesi ha prodotto tanta povertà e così noi oggi appoggiamo iniziative idonee a creare posti di lavoro, soprattutto sovvenzionando quelle opere che necessitano di tanti operai e quindi sfamano più famiglie…
Riparare case non va in un certo senso al di là della attività originale della vostra Missione?
STERN: Ma è assolutamente necessario aiutare questa povera gente. Quando la nostra Missione fu fondata, lo scopo primario era la mobilitazione dell’aiuto del mondo cattolico internazionale per la Terra Santa, e il coordinamento in Terra Santa di tutti i settori della Chiesa – i patriarchi, i vescovi, i religiosi e le religiose, le associazioni laicali… Nel 1949, nessuno si occupava di questo coordinamento, oggi siamo molti di più.
Chi sono i destinatari principali della vostra azione?
STERN: Tutti coloro che si trovano nella necessità. Statisticamente non sono gli ebrei, per i quali esiste una serie numerosissima di enti di sostegno. La stragrande maggioranza dei musulmani invece – dato che i cristiani rappresentano un numero esiguo – sono afflitti dalla povertà, sebbene esistano comunque moltissime istituzioni caritatevoli musulmane. Allora… il criterio adottato dalla nostra Missione è di portare aiuto alle zone dove sono rimasti ancora dei cristiani, ma senza mai escludere dall’aiuto gli altri, come i musulmani. L’esempio calzante è l’Università di Betlemme – fondata con un accordo tra la Congregazione per le Chiese orientali e i Fratelli delle scuole cristiane – qui nota come “l’università del Vaticano”. Circa il 33 per cento degli studenti sono cristiani, gli altri sono tutti musulmani. Noi diciamo che “non il credo ma il bisogno” guida la carità che facciamo a nome del papa in Terra Santa.
Come può descrivere la povertà in Palestina?
STERN: A Gaza gran parte della popolazione vive ancora nei campi profughi, amministrati dalle Nazioni Unite. I campi sono come un vecchio villaggio del tutto privo di organizzazione. La gente abita in case anguste fatte di blocchi di cemento, non esistono vere e proprie strade, ma percorsi più o meno disagevoli, e tutti vivono accalcati. In una sola stanza possono vivere anche dodici persone, perché i figli sono numerosi. La libertà di movimento è limitata. Si vive dei contributi delle Nazioni Unite. Manca il lavoro. Quando uno di questi numerosi figli diventa maggiorenne e vuole sposarsi, deve avere prima un luogo dove andare, e uno stipendio. Ma non c’è né l’uno né l’altro, per chi vive nel campo. Si può solo aggiungere alla casa d’origine una stanza in più, fatta di mattoni. Stanza che s’affaccerà sempre sulle solite strade sporche, e sui campi che non conoscono facile accesso all’acqua pulita e dove non c’è mai ordine. Così è triste vivere.
Due anni fa abbiamo costruito un piccolo parco giochi per i bambini di Gaza. Avreste dovuto vedere la loro curiosità, gli sguardi. In vita loro era la prima volta che qualcuno gli dava qualcosa per giocare. Loro che sono abituati a ricevere il minimo per sopravvivere, abituati a vivere al peggio.
Ci mancano le parole per spiegare la difficoltà della vita a Gaza. E mi permetta di aggiungere qualcosa cui tengo.
Prego.
STERN: C’è chi si pone la domanda retorica del perché ragazzi e ragazze della Palestina accettano di farsi esplodere come martiri. Non possono studiare, non possono viaggiare, non possono lavorare, non possono avere una famiglia, vivono nell’assurdo, non hanno altra speranza che annientarsi in un momento di gloria per la loro religione.
Tre generazioni nel campo di Gaza, in Giordania, in attesa che cambi qualcosa
Io non sono un politico né un economista, ma posso almeno immaginare che il giorno in cui avremo da offrire lavoro a questi ragazzi musulmani, avremo sconvolto i piani dei terroristi: con una onesta paga settimanale e la possibilità di uscire con la propria ragazza.
Sono convinto, nonostante la loro retorica molto negativa, che i responsabili di Hamas comprendono perfettamente questa situazione. Vogliono un futuro per il loro popolo, come tutti coloro che gestiscono la politica. E l’aspetto positivo della loro politica è la quantità di servizi sociali e di benessere che hanno cercato di dare al loro popolo. Ciò resta vero, nonostante le parole che usano e gli slogan che, secondo la retorica araba, urlano.
Lei considera un errore interrompere i flussi dell’aiuto economico internazionale alla Palestina come forma di pressione sul governo di Hamas.
STERN: Ripeto che non intendo formulare un giudizio politico. La mia impressione è precisamente che così facendo si regala al popolo – e ai giovani – altra disperazione che può essere sfruttata dai terroristi. L’obiettivo conclamato da chi vuole l’embargo degli aiuti è di forzare, nel breve termine, il governo attuale verso un cambiamento di direzione politica, lasciando come obiettivo di lungo termine quello di arrivare alla pace… ? uno sbaglio totale. Primo, bloccare i fondi è un castigo per il popolo, mai per la leadership, e il popolo già soffre troppo. Secondo, per la mentalità degli arabi, noi stiamo offendendo il loro senso d’onore, la loro dignità, con tutte le conseguenze che ne derivano. L’embargo è al cento per cento controproducente. Sono convinto, e di certo spero, che attraverso la mutua collaborazione si potrà raggiungere il risultato di guadagnare il consenso di Hamas.
Voi avete portato aiuto anche nei campi profughi in Libano. Qual è la situazione?
STERN: ? diversa ma egualmente penosa. I palestinesi rifugiati in Libano vivono tutti nei campi gestiti dalle Nazioni Unite. Le difficoltà vengono anche dal tradizionale e ormai scricchiolante bilanciamento dei poteri costituzionali vigente in Libano tra cristiani maroniti, musulmani sunniti e musulmani sciiti, basato sulle quote rispettive di popolazione. Ora, nessuno di questi tre gruppi vuole che una numerosa componente palestinese entri in gioco, e tutti sono d’accordo nel dire che la prospettiva per questi rifugiati è solo quella di tornarsene al proprio Paese. Ma questo è ora praticamente impossibile. Così a questa povera gente non resta che il campo profughi, cioè vivere in prigione. Sogno il giorno in cui ci sarà uno Stato palestinese universalmente riconosciuto, e forse tutta questa povera gente potrà avere un passaporto palestinese, al fine di ottenere un visto di soggiorno per lavoro in Libano. Perché, stando così le cose, comunque il Libano non accetterà mai queste persone come propri cittadini. Oggi sono rifugiati nei campi profughi oltre duecentomila musulmani palestinesi, armati, in isolamento completo, e impossibilitati ad andare in Palestina. ? una vita insopportabile, che li ha fatti incattivire, a ragione.
I palestinesi vanno via oggi anche dall’Iraq.
STERN: I palestinesi che lasciano l’Iraq non sono però così numerosi come gli iracheni che oggi sempre di più migrano verso la Giordania, la Siria e il Libano. E, in proporzione, a fuggire sono sempre di più i cristiani. Il direttore del nostro ufficio di Amman, che serve la Giordania e l’Iraq, mi ha riferito che vi è la possibilità concreta, sebbene manchino ancora dati ufficiali, che i rifugiati iracheni in Giordania arriveranno a essere milioni, su una popolazione giordana di circa 5 milioni. La nostra Missione Pontificia cerca di fare tutto il possibile per appoggiare la Chiesa locale e dare una mano a questi rifugiati. Normalmente aiutiamo chi vuole lasciare l’Iraq e andare in Europa, in America del nord o del sud, o in Australia…
Nell’opera di carità in Palestina lei rappresenta il papa. C’è un fatto che ricorda in particolare?
STERN: Papa Giovanni Paolo II è venuto in Terra Santa nel 2000. E in casi come questo al presidente della Pontificia Missione spettano anche dei piccoli privilegi, come partecipare da vicino a quanto accade. Ricordo in particolare la messa all’aperto che papa Wojtyla celebrò a Betlemme, davanti alla Basilica sorta dove è nato Gesù. A un certo punto, come accade ogni giorno, è salita dalla moschea vicina la voce del muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera. La voce era forte, diffusa con gli altoparlanti. Il Papa, in quel momento, s’è fermato, non ha alzato la voce per contrastare i diffusori, ma ha atteso. Fino alla fine dell’orazione musulmana. Poi ha ripreso la liturgia. ? come se il Papa stesso ci avesse detto, in quel modo, che la comunità cristiana palestinese deve comprendere e rispettare i musulmani, che sono fratelli, e sperare e pregare che anche da parte loro arrivi comprensione.
Il silenzio rispettoso del Papa è stata l’immagine della convivenza tra cristiani e musulmani in Palestina. (30Giorni).
David & Victoria, coppia da business
David Beckham chi? Ah sì, Beckham, il testimonial della Gillette. Ma certo, il marito di Victoria Adams. Il calciatore? ? vero, in estate è apparso nella Nazionale inglese, nel senso che qualcuno è sicuro d’averlo intravisto in campo. Sarà. Ogni tanto gioca, pare, nel Real Madrid. Gioca? Vorrebbe giocare, perché Capitan Mascella, in arte Fabio Capello allenatore delle merengues, lo lascia volentieri in panchina, anzi lo relega in tribuna. David Beckham: a giugno lascia la Spagna e vola con tutta la famigliola – la moglie Victoria e i tre figli: Brooklyn, Romeo e Cruz – a Los Angeles. Dove potrà con maggior agio fare il modello, il testimonial, forse perfino l’attore e, nei week end, giocare a calcio. Non nella squadretta di amici, ma da professionista nel Los Angels Galaxy, dove nei prossimi cinque anni guadagnerà, secondo le diverse stime apparse ieri sui giornali, una cifra compresa tra i 180 e i 250 milioni di euro. Nel Real ne percepiva appena 27 all’anno, quindi è un affare. Siamo tutti contenti per lui, meno per il calcio, che perde definitivamente un potenziale campione. Campione… ? difficile dire se alla gloria David Beckham sia approdato più per le magie del piedino destro o la vezzosità del nasino, e le fattezze da modello, icona buona per gli appetiti di lei e pure, in taluni casi, di lui. La natura possiede un senso dell’umorismo non privo di crudeltà. Pensate se avesse regalato il fisico glamour di David Beckham a un nostrano Bruno Conti. O, analogamente, se avesse donato a Victoria Adams la voce di Mina. In California nessuno metterà sotto accusa David e Victoria per le scarse doti di fiato. Una cosa sola conterà: che il prodotto “Beckhams” sia vendibile più e meglio che in Europa. Perché questo e non altro sono i “Beckhams”, per elezione o dannazione: un prodotto, nient’altro che un prodotto. Da vendere e comprare. Una ben rodata macchina per soldi che a Los Angeles potrebbe rinfrescare i suoi fasti ingrigiti. Qui in Europa, infatti, Victoria poteva anche non più cantare (si fa per dire), nessuno le avrebbe rimproverato il silenzio dell’ugola; ma David qualche punizione pennellata, qualche lancio sapiente, qualche discesa sulla fascia gli venivano chiesti, sia pur con parsimonia. E Capello temiamo se ne infischi di quale sia la cola preferita di David, lui pretende di vederlo sudare e perfino spettinarsi in campo. Go to Usa, dunque. Nella California dell’altra coppia-prodotto, Brad Pitt e Angelina Jolie, dell’altro nasino carino Leo Di Caprio, di tanti belli in batteria che servono a far vendere creme e gioielli, automobili e telefonini, bibite e scarpette. Che in tutto ciò ci sia tanta prosa e niente poesia, è assodato. Beckham dal Real Madris al Los Angeles Galaxy: qualcuno avverte un tumulto nel cuore? No. Siamo soltanto incuriositi dalle cifre, dai pacchettoni di dollaroni, dalla nuova villetta da 15 milioni. L’uomo prodotto entrerà in una nuova fase produttiva. E chissà come ci si sente ad essere tutto un brand. La premiata ditta “Beckhams” è davvero un’icona, il simbolo di una società in cui vali per quel che rendi; e il talento vale poco se non hai il nasino giusto per promuovere la bibitona. Chissà se chi è baciato da tanta generosa sorte riesce a rimanere un essere umano, dotato di cuore e autoironia. Noi glielo auguriamo. E da calciopati cronici ci prepariamo rassegnati alle dimenticabili partite del Galaxy, che i gentili sponsor non mancheranno di infliggerci. //
(Da Avvenire, 13 gennaio 2007).
Incontro con Messori
L’opera di Vittorio Messori riveste nell’ambito cattolico un ruolo di particolare rilievo. Negli anni Settanta, quando anche nel nostro paese-vuoi per ragioni ideologiche, vuoi sull’onda del concilio- prese corpo l’idea di una Chiesa sempre più “dissolta” dentro il mondo e i suoi problemi, Messori rappresentò un’anomalia. Egli infatti si poneva in una posizione di rilancio della fierezza cristiana. Allora, era diffusa l’idea che il credente dovesse scomparire, farsi semplicemente lievito. La conseguenza più immediata scaturita da un tale atteggiamento produsse una progressiva disaffezione nei confronti della Chiesa visibile e delle gerarchie cattoliche. A molti, il dirsi cattolici parve una forma di presunzione, per non pochi l’incontro con la miscredenza, il dubbio, lo smarrimento dell’uomo moderno, parve potersi realizzare soltanto se fosse venuta meno l’identità. Andò così prendendo sempre più corpo la convinzione che il dialogo fosse possibile prescindendo dalla propria fede e dal senso di appartenenza ad una Chiesa. Ad esso si sostituì l’idolo del pacifismo e la forza di ideologie che spesso confinarono l’annuncio cristiano in un angolo.
La dimensione spirituale, il senso del miracolo, l’importanza dei sacramenti, furono sacrificate al feticcio dello sforzo umano e della buona volontà, protesi entrambi verso l’edificazione di una società più giusta.
Un contributo non indifferente ad un tale disegno venne da parte di molti sacerdoti, che si ritennero liberi battitori, profeti presuntuosi e solitari, intrisi di sociologismo, psicanalisi, metodo storico critico negli studi biblici.
Il risultato fu la scomparsa della cultura cattolica, il seppellimento della tradizione, il progressivo svuotarsi delle chiese. Messori contrastò per primo tutto questo, riproponendo la forza del cattolicesimo, della sua storia, della sua tradizione, dei suoi riti, dei suoi santi.
Ipotesi su Gesù, il suo primo libro ha rilanciato la disciplina dell’apologetica, ovvero della fondazione razionale delle ragioni del credere; il successo è stato enorme.
Evidentemente con quel libro Messori rispondeva ad un bisogno, personale e collettivo: rimettere al centro la forza dell’annuncio cristiano attraverso argomenti solidi, razionali.
Da allora lo scrittore Piemontese è diventato uno dei più importanti e tradotti scrittori cattolici nel mondo.
Con i quattro volumi, che egli stesso definisce: “L’esperienza del Vivaio”, Messori dà vita ad una sorta di “Enciclopedia Cattolica”, fatta di semi, suggerimenti, aneddoti, frammenti, tenuti assieme dall’intento di recuperare dentro una corretta prospettiva, la bimillenaria vicenda cristiana.
L’incontro di questa sera è un frutto del lavoro di Vittorio Messori, ma vuol pure essere un omaggio e un grazie da parte di tutti coloro che hanno condiviso il suo percorso intellettuale traendone spunti e motivi di approfondimento, credenti e non.
Saddam e i “dimenticati”: il relativismo è nemico della pace
(Nella foto, Marco Pannella)
A proposito dell’impiccagione di Saddam Hussein, pur condividendo le considerazioni sottoriportate dell’amico Marco Luscia contro la pena di morte, concordo pienamente con la riflessione di Bernardo Cervellera, pubblicata dal sito AsiaNews.it che riporto di seguito e consiglio di leggere.
«Siamo ancora segnati dal dolore e dalla preghiera per l’esecuzione di Saddam Hussein. Ma non possiamo non denunciare tanta ipocrisia da parte dei molti campioni contro la pena di morte che l’ex dittatore irakeno è riuscito a radunare prima e dopo la sua impiccagione.
Perché questi “professionisti” dello scandalo per la pena di morte comminata contro un uomo che ammirava – e seguiva – Hitler , poco si dolgono di altre condanne a morte e di altre violenze? Quando mai un vescovo cinese scomparso e ucciso nei lager ha trovato tanta solidarietà? Quando indù, cristiani, musulmani imprigionati nelle carceri saudite o iraniane hanno goduto di tanto sdegno internazionale e sostegno personale e pubblico? Il piangere da un occhio solo da parte di personaggi o organizzazioni è segno non solo di una soffocante visione ideologica, ma di un profondo relativismo.
Il relativismo, è un pericolo alla pace alla stregua del terrorismo e della guerra. Questo atteggiamento così diffuso in occidente, che vuole scrollarsi di dosso qualunque certezza e qualunque quadro di valori, che innalza i tiranni e nasconde i perseguitati, che parla in modo ovattato di tutto perché non si interessa di nulla, è stato messo da papa Benedetto XVI fra i veri pericoli della pace nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della pace 2007. Finora avevamo sempre pensato che il militarismo, le guerre, i carri armati, le bombe atomiche e nucleari erano ciò che uccide la pace. E lo sono.
Tutti gli strumenti di offesa sono frutto di ideologie che vedono la soppressione dell’altro come condizione indispensabile alla vittoria delle proprie idee. Ma nel Messaggio di quest’anno il pontefice punta il dito su quelle concezioni relativistiche della persona che svuotano di ogni senso universale i diritti dell’uomo e il valore della persona umana.
Da anni all’Onu, al Parlamento europeo e in altre organizzazioni internazionali si suggerisce una visione di questo tipo per cui i diritti di un cinese o di un africano non sono uguali a quelli di un europeo, o un americano. Il risultato è sempre il disinteresse verso la sorte di milioni di persone uccise, torturate, soffocate nella loro espressione, mentre la vela dei propri interessi nazionali ed economici viaggia su mari tranquilli.
Alcuni mesi fa, in prossimità dei colloqui fra Cina ed Europa, Antti Kuosmanen, ambasciatore finlandese a Pechino, ha dichiarato candidamente che “i diritti umani” non sono “un punto dominante” del rapporto. Se si prende in considerazione che le stesse organizzazioni – Onu e Parlamento europeo – combattono una guerra per “la libertà” nella definizione del genere (maschio, femmina, lesbica, gay, ecc…), delle coppie di fatto, dell’aborto come “diritto riproduttivo”, della manipolazione degli embrioni, si comprende che questo relativismo non è altro che una grave forma di schizofrenia.
Lo abbiamo vista in atto anche con la morte di Saddam Hussein. Come un dottore sapiente e pietoso, Benedetto XVI traccia altre forme di questa malattia. Fra queste vi è un modo distorto di affrontare i problemi ecologici. Il papa nel suo Messaggio chiede a tutti di maturare verso “un’ecologia sociale”, che comprenda l’attenzione all’uomo e al destino dei popoli.
Per questo l’impegno contro l’inquinamento dei mari, per la salvaguardia di specie faunistiche in estinzione e per la ricerca di energie alternative non può dimenticare che al centro di tutto (e non come problema da eliminare) vi sono gli esseri umani. Le energie che si investono per la difesa delle balene, o per piangere il delfino bianco dello Yangtze devono essere ridistribuite per aiutare gli uomini a trovare la via di uno sviluppo sostenibile e dignitoso, che comprende la cura delle malattie e il diritto all’acqua potabile.
E se i diritti umani sono per tutti, bisogna che la libertà religiosa sia perseguita non solo (ed è giusto) per i musulmani in Europa, ma anche per i cristiani che vivono nel mondo islamico. Questo disinteresse per l’elemento “uomo” nel pacifismo ecologico e diplomatico mondiale pesca in una malattia ancora più radicale, che è un pessimismo sull’uomo e sul suo valore, sulla sua capacità di rispondere a compiti e doveri.
Per questo, invece di fare appello alla sua responsabilità, si scelgono le vie drastiche del potere, della guerra, dell’eliminazione, della schiavitù o la violenza dell’indifferenza. Il papa nel suo Messaggio suggerisce anche una medicina: per rimettere l’uomo al centro della pace, occorre rimettere Dio al centro della vita dell’uomo. Benedetto XVI suggerisce due piste fondamentali: affermare il diritto alla vita, come “un dono di cui il soggetto non ha la completa disponibilità”; affermare la libertà religiosa perché essa “pone l’essere umano in rapporto con un Principio trascendente che lo sottrae all’arbitrio dell’uomo”. Senza queste due direzioni il relativismo e la schizofrenia ci portano solo all’eutanasia e alla dittatura, alla guerra e alla cultura di morte.»
Nessuno può dirsi giudice
La vicenda di Saddam, il macabro rito della sua impiccagione, rivela una serie di elementi che non possono che inquietarci. La preparazione dell’esecuzione e gli ultimi istanti di vita raccontati attraverso le immagini rappresentano quanto di più lontano si possa immaginare rispetto alla pietà cristiana. Tutto ciò esprime un sentire primitivo: l’idea di una rappresentazione che funga da elemento sinistramente pedagogico, un monito, un avvertimento. Perché quelle immagini sono distillate con maestria, non sono casuali e non riflettono neppure la realtà ma soltanto una porzione di essa, quella che fa comodo ai vincitori. Quei fotogrammi ci riportano indietro di cento anni quando sulle piazze si poteva assistere alla fine del delinquente esposto al pubblico supplizio.
Niente, oggi, legittima la pena di morte, il suo allestimento, la sua calcolata e rituale esecuzione.
Questo è il disagio che ha ferito molti occidentali davanti al tiranno sull’orlo del baratro.
Saddam fu condannato a morte oramai molti anni orsono, quando si decise di identificare in lui il male, o meglio una forma del male assoluto. Come si fece dopo la morte di Hitler quando la coscienza dei vincitori si trovò costretta a fare i conti con l’immane tragedia dell’olocausto. I Sovietici furono tra i primi ad avanzare l’ipotesi che il Hitler fosse un depravato, un folle, che il suo cervello presentasse un strana inconsistenza, che fosse afflitto dalla sifilide. Nell’autopsia sul corpo carbonizzato di Hitler essi andarono a cercare la conferma delle loro ipotesi, si spinsero persino ad affermare che il leader nazista non trovò neppure la forza di spararsi, rivelando con questo la propria estrema codardia. Ma le cose non andarono così. Certo, l’ipotesi che il male fosse causato da un singolo individuo capace di attrarre a sé, grazie ad un carisma demoniaco, l’intero popolo tedesco seducendolo e trascinandolo verso il baratro, fu assai comoda.
Come ha fatto comodo fare di Saddam l’istigatore del terrorismo internazionale e il tiranno smanioso di possedere la bomba atomica. Per alcuni anni da parte di stampa e televisione si è taciuto delle molte dittature, dei molti tiranni presenti sul pianeta, dipingendo il solo Saddam come la quintessenza del male.
Questa procedura ha evitato a ciascuno noi di fare i conti con la reale natura del male, con il fatto che esso non sia mai espressione della follia, del cortocircuito di un singolo individuo, ma sia piuttosto una forza oscura, potente, capace di sedurre ogni individuo solo che le condizioni si presentino. L’idea “dell’uomo malvagio” ci deresponsabilizza, ci fa sentire buoni, saggi, equilibrati, eludendo il mistero del male, la sua presenza sempre si rinnova, mai vinta. Recentemente una strage che ha visto la soppressione di quattro persone, fra cui un bambino, ci ancora una volta messo di fronte alla possibilità che il male possa primo o poi germinare anche nella nostra vita.
Tutta l’antropologia Paolina evidenzia proprio questa divisione dentro l’uomo, questo nostro essere contemporaneamente angeli e demoni. E’ questa la misteriosa presenza del male di cui parlo, la forza del maligno, piaccia o non piaccia a certa teologia progressista.
E’ difficile per l’uomo occidentale accettare il fatto che le grandi promesse di cui furono portatori l’illuminismo e l’ottimismo razionalistico potessero naufragare sugli scogli di un ventesimo secolo che ha visto consumarsi le più atroci carneficine dell’intera storia dell’umanità.
E’ difficile per l’uomo occidentale accettare che persino la speranza riposta nella tecno-scienza si rivelasse fallace, illusoria, così come tutti i progetti volti ad educare il cittadino alla consapevolezza, all’equilibrio, ai valori dell’obbiettività e del buon senso di cui la scienza si diceva portatrice per bocca dei suoi anfitrioni.
Quello cui assistiamo è in realtà il sorgere di un mondo senza orizzonte, senza speranza, in cui le promesse di pace e di benessere tradite generano frustrazione ed inquietudine.
L’uomo non è diventato più buono o più capace d’amare, anzi, l’amore stesso è in crisi tanto è assillato dal desiderio della felicità , del piacere, della soddisfazione immediata e durevole.
L’uomo-in una parola- ha dimenticato il male in quanto realtà personale costantemente presente, ha creduto di averlo vinto una volta per sempre, nell’orgogliosa affermazione della propria autonomia dal divino. Ma dimenticando il male l’essere umano si è precluso la possibilità di conoscere il vero bene.
Così quando sulla scena della vita si affacciano le sinistre figure dei dittatori e dei pluriomicidi con essi cresce la fretta, la voglia di spiegarli per ridurli a deviazioni, a mostri, ad escrescenze impreviste. Dimenticando che ogni uomo, ogni colpevole è frutto di un ambiente, di un’epoca, di un mondo, di determinate relazioni, di soprusi, di viltà , di cinismi, di calcoli economici e politici.
Il colpevole non è mai solo, egli è con noi. Questo non per scagionare chi si macchia di orrendi delitti, ma per comprenderlo realmente.
Il cristianesimo sa, da sempre, che in ogni uomo alberga il male, che le relazioni umane sono segnate dallo stigma del male. L’uomo è ferito dal peccato ed è ferito d’amore. La ferita d’amore è il lascito di Gesù Cristo, il frutto del suo sacrificio e del suo sangue versato.
Così, quando questa consapevolezza si fa presente in noi, nel nostro cuore di peccatori germina la possibilità del perdono. Soltanto la consapevolezza della comune figliolanza nel male ci rende tolleranti, capaci di comprendere, rendendoci immuni dal pericolo della ricerca del capro espiatorio.
Il cristiano sa, che l’unico “capro espiatorio”, l’unico essere degno di donare il perdono è Gesù, perché soltanto lui è privo del peccato.
Per questo, chi non crede nel mistero della redenzione difficilmente sarà capace di un perdono che vinca la voglia di vendetta, che vinca la legge del taglione.
L’uomo non ha il diritto di chiedere una vita, di sacrificarla per restaurare un ordine leso; lo avrebbe se fosse irresponsabile, se fosse puro, senza peccato.
Ma ciascuno di noi sa bene che una forza oscura preme dentro il quotidiano di ciascuno ed essa assume molteplici forme e nomi. Questa forza si chiama interesse, volontà di affermazione, di dominio, sfruttamento dei deboli, passione erotica incontrollata, ricerca smodata del denaro e del piacere, voglia di un figlio a qualsiasi costo, aborto, sperimentazione su esseri indifesi. Essa è il cinismo della politica, il sacrificio delle guerre per ragioni di dominio sulle risorse energetiche, essa è la volontà di imporre un unico stile di vita, di affamare alcuni popoli per compiacere il proprio tenore di vita ecc…
Questo è il male, semplice, elementare, capace di trasformarsi, di farsi ideologia di un piccolo gruppo, di un popolo, forza che muove gli eserciti, nebbia che acceca le menti dei dittatori.
Targhe alterne: grazie al centro destra abbiamo vinto la battaglia.
Riporto un breve resoconto dei fatti per aiutare il lettore-cittadino a comprendere la vicenda delle targhe alterne e la posizione dei nostri politici comunali. Circa 3 settimane fa avevo scritto un articolo, manifestando tutta la mia contrarietà per un provvedimento tanto ingiusto quanto inutile in quanto il blocco della circolazione oltre a creare innumerevoli problemi alla cittadinanza, non serviva a far diminuire le cosiddette PM 10. Di seguito un breve resoconto cronologico:
1. Ormai da alcuni anni, nella stagione invernale, la Giunta ci propone l’utilizzo delle targhe alterne come unica soluzione all’inquinamento da polveri sottili.
2. L’anno scorso è stato presentato dal Gruppo di Forza Italia, (ed approvato dal Consiglio comunale) un ordine del giorno per abbassare a 2 persone il limite del car-pooling.
3. Quest’anno puntualmente la Giunta Pacher e l’assessore Pompermaier introducono il provvedimento sulle targhe alterne con car-pooling a 3 e non tengono in nessun conto l’ordine del giorno approvato che invece vincolava il Consiglio.
4. La settimana scorsa i Gruppi consiliari di minoranza, promuovono una conferenza stampa, nella quale ribadiscono la loro contrarietà all’utilizzo delle targhe alterne. Inoltre minacciano l’uso dell’ostruzionismo al bilancio se la Giunta non provvederà al ritiro del provvedimento.
5. A questo punto il 15 gennaio, il sindaco promuove un incontro con i gruppi di minoranza per cercare di risolvere la questione.
6. Lunedì 18 dicembre l’assessore Pompermaier rilascia un intervista al Trentino (clicca qui per accedere) a dir poco sconcertante: “Le targhe alterne: non erano indispensabili” e poi “E’stata una rinuncia facile. Eravamo gli unici ad averle”.
7. Lascio a voi il giudizio.
Un grazie quindi ai seguenti consiglieri comunali (sotto elencati) che in forza del loro intervento hanno fatto fare marcia indietro alla Giunta e ci hanno liberati da un provvedimento vessatorio.
Gruppo Consiliare Forza Italia: Giorgio Manuali, Ettore Zampiccoli, Nicola Giuliano, Luigi Merler, Marco Sembenotti.
Gruppo Alleanza Nazionale: Antonio Coradello, Emilio Giuliana.
Gruppo Lega Nord: Filippin Giuseppe, Tomasi Marco, Bridi Vittorio.
Gruppo Udc-Patt Paolo Monti, Flavio Maria Tarolli.