Tutte le bugie su ellaOne, la pillola dei cinque giorni dopo.

Omissioni “casuali” hanno permesso che in Europa la pillola dei cinque giorni dopo venisse catalogata come “contraccettivo”. La realtà è diversa: ellaOne non impedisce il concepimento, ma l’annidamento di un embrione umano nell’utero. Cioé uccide. Ecco tutte le sviste e gli artifici lessicali che nascondono la verità (da Avvenire del 23-06-2011) “Il probabile meccanismo di azione primario dell’ulipristal acetato per la contraccezione di emergenza è l’inibizione o il ritardo dell’ovulazione; tuttavia, le alterazioni dell’endometrio che possono influenzare l’impianto (dell’embrione in utero, ndr.) possono contribuire all’efficacia”. L’ulipristal acetato altro non è che EllaOne, la pillola dei cinque giorni dopo, che ha avuto recentemente il via libera alla commercializzazione in Europa. E a descriverne così il meccanismo d’azione è il foglietto illustrativo reso disponibile dalla Food and drug administration, l’agenzia del farmaco degli Stati Uniti, paese nel quale EllaOne ha ricevuto il nulla osta all’immissione in commercio un anno fa. Di fatto si tratta di un’ammissione del meccanismo abortivo della pillola, che in alcuni casi potrebbe impedire la prosecuzione della vita di un embrione e non il concepimento.
Cosa affermano invece i documenti dell’Ema, l’agenzia responsabile della valutazione scientifica dei farmaci destinati all’uso sul territorio dell’Unione europea? “EllaOne agisce modificando l’attività dell’ormone naturale progesterone. Si ritiene che ellaOne agisca bloccando l’ovulazione”: così è scritto sul bugiardino consultabile sul sito dell’Ema. Sito dal quale si possono ottenere ulteriori informazioni sulla pillola dei cinque giorni dopo: “EllaOne impedisce la gravidanza principalmente mediante la prevenzione o il ritardo dell’ovulazione”, viene detto nella risposta a una delle domande più frequenti.
Nessun accenno all’alterazione dell’endometrio, che costituisce il possibile meccanismo abortivo. Meccanismo che invece viene citato anche nella documentazione della Hra Pharma, l’azienda farmaceutica che produce ellaOne: “Può anche alterare l’ambiente uterino”. Non un’ammissione esplicita sull’abortività, ma almeno una dichiarazione completa sulle possibili modalità di funzionamento.
Quella che si gioca sul lessico e sulla terminologia è una partita culturale la cui posta in gioco è la stessa intangibilità della vita: la negazione del meccanismo abortivo di EllaOne è solo l’ultimo capitolo della battaglia che spesso cela l’aborto sotto le rassicuranti spoglie dei “diritti riproduttivi” e che modifica il significato delle parole.
La tesi sulla non abortività di EllaOne può infatti trovare sostegno nella definizione che l’Oms dà della gravidanza: non il periodo che inizia col concepimento, ma “i nove mesi in cui una donna porta e sviluppa un embrione e un feto nel suo utero”. Nessuna gravidanza interrotta quindi se si agisce impedendo l’annidamento.
Una definizione utilizzata anche da Umberto Veronesi, che il 3 novembre del 2000, commentando l’introduzione in Italia della pillola del giorno dopo, affermò: “Non solo non impedisce la fecondazione, ma impedisce l’attecchimento dell’ovulo nell’utero. Penso però ci sia un errore nella definizione. Questa pillola non è abortiva”. Ancora, dunque, nessun aborto anche se, a concepimento avvenuto, all’embrione si impedisce di continuare il proprio sviluppo. Potere dell’antilingua.

Pisapia e De Magistris: è questo il cambiamento che vogliamo?

Molti vedono nell’avvento di Pisapia a Milano e di De Magistris a Napoli un segno del cambiamento. Non so se si tratti davvero di questo, ma se anche lo fosse la direzione lascia molto perplessi: unioni civili (coppie gay), registro del testamento biologico (alias eutanasia passiva) sono solo alcune delle idee che bollono in pentola. Ecco cosa pensano alcuni componenti dei consigli comunali che si insedieranno (da Avvenire del 2 giugno 2011)
Alcuni dei nuovi governi cittadini
emersi dal recente voto
amministrativo annoverano tra le
loro file personaggi che in
campagna elettorale non hanno
nascosto la loro ben precisa idea di
“libertà” e “laicità”. A Torino, nella lista del
Pd, è stato eletto il ginecologo radicale
Silvio Viale, che sulle battaglie su pillola del
giorno dopo, Ru486 e testamento
biologico ha basato una pluriennale attività
politica. Nel 2001 Viale, oggi presidente dei
Radicali italiani, si candidò alla carica di
primo cittadino del capoluogo piemontese:
“pillole in libertà” il suo slogan.
Negli anni successivi Viale, deus ex
machina dell’introduzione in Italia della
Ru486, da lui sperimentata all’Ospedale
Sant’Anna di Torino, è salito alla ribalta per
numerose azioni dimostrative: dalla
distribuzione di ricette per la pillola del
giorno dopo all’uscita delle scuole fino alla
“lezione di eutanasia” al Liceo torinese
Einstein. “L’obiettivo è rendere la
contraccezione di emergenza (in realtà dai
provati effetti abortivi, ndr.) disponibile a
tutte le donne senza essere costrette a
un’affannosa rincorsa della prescrizione”,
affermò Viale sulla pillola del giorno dopo.
Al Liceo Einstein fu invece proiettato un
video svizzero che documentava la morte
procurata di una malata terminale. Viale è membro di Exit Italia e in piena campagna
elettorale ha depositato il proprio
testamento biologico al Comune di Torino,
specificando di non voler essere sottoposto
a alimentazione e idratazione “in caso di
malattia o lesione traumatica cerebrale
invalidante e irreversibile”.
A Milano Marco Cappato, radicale di
lungo corso e segretario
dell’Associazione Luca Coscioni,
siederà in Consiglio comunale per la Lista
Bonino-Pannella. Cappato ha
ripetutamente affermato che l’impegno
primario dei Radicali è per una legge voluta
dalla “maggioranza degli italiani”, quella
per la legalizzazione dell’eutanasia.
“Puntiamo a moltiplicare il numero dei
Comuni che si mettono al servizio del
diritto dei cittadini all’autodeterminazione” ha dichiarato l’anno scorso Cappato, dopo
che Torino si era munita del registro dei
testamenti biologici.
Ma nel capoluogo lombardo Cappato non
è il solo a rappresentare la cultura dei
“nuovi diritti”. Marilisa D’Amico, ordinario
di Diritto costituzionale all’Università di
Milano ed eletta per il Pd, da sempre è in
prima fila per le battaglie su fecondazione
assistita e aborto, contro la legge 40 e ogni
possibile restrizione alla 194. Dichiara
infatti di aver fatto “dichiarare
incostituzionale uno dei limiti
irragionevoli della legge 40” e ottenuto
“l’annullamento delle linee guida della
Regione Lombardia che volevano
modificare la legge 194”, abbassando i
limiti gestazionali oltre i quali diviene
impossibile abortire. La D’Amico faceva parte del gruppo di lavoro “La città dei
diritti”, impegnato per sostenere Pisapia,
che ha prodotto un documento in cui tra i
punti essenziali figurano l’istituzione del
registro delle “dichiarazioni di ultima
volontà” per coloro che vogliono scegliere
da soli “come terminare la propria vita con
dignità” e quello delle unioni civili per le
coppie gay. In Consiglio comunale a Milano siederà
anche Anita Sonego, della lista Sinistra
per Pisapia, fondatrice di “Soggettività
lesbica” e attivista del movimento Lgbt.
Proprio al movimento era rivolto l’appello
a votare Pisapia contro il centrodestra
“omotransfobico”. Infine, a Napoli, è lo stesso sindaco eletto,
Luigi de Magistris, ad aver reso manifesto
il suo pensiero quanto a vita e famiglia.
In una recente intervista a L’Espresso, poi
parzialmente messa a punto, de Magistris
aveva dichiarato il proprio sostegno al
biotestamento. Nel programma, inoltre, è
prevista l’istituzione del registro delle
unioni civili. Nel 2009, a proposito di
aborto, l’esponente dell’Idv definì la Ru486
uno “strumento per rendere migliore
l’esistenza di una donna”. Non rimane
dunque che seguire con attenzione l’attività
di questi (e altri) neo-eletti.

Pisapia /2

Continua il poco rassicurante ritratto di Giuliano Pisapia, nuovo sindaco di Milano (ancora da Avvenire, 26 maggio 2011) Quanto sia
importante
l’azione
capillare
per
evitare
che le donne si trovino a
scegliere di interrompere la
gravidanza è dimostrato dal
prezioso lavoro volontario svolto
dai Centri di aiuto alla vita e da
tutti i soggetti impegnati nella
difesa della vita dal
concepimento. Ma quanto
ancora ci sia molto da fare
stanno lì ad evidenziarlo i
120mila aborti annui che ogni
anno si registrano in Italia. Di
fronte a tali cifre, è chiaro il
ruolo che le amministrazioni
locali possono recitare nel
sostegno alla maternità proprio
in virtù della loro incisività sul
territorio. Un ruolo che sembra
non piacere ai radicali. Sul
numero del luglio 2009
dell’Agenda Coscioni, organo
informativo dell’omonima
associazione legata a doppio filo
col mondo radicale (Marco
Cappato ne è il segretario e sarà
eletto a Milano se vince Pisapia),
l’attuale amministrazione
comunale milanese e la Regione
Lombardia venivano messe sotto
accusa per i finanziamenti
erogati al Centro di aiuto alla
vita della Clinica Mangiagalli.
Proprio al Cav del grande
ospedale Letizia Moratti ha
promesso nuovi aiuti concreti
qualora venisse rieletta. Ancora
sull’Agenda Coscioni, si
denunciavano il ricorso a
giudizio dei radicali troppo
diffuso all’obiezione di coscienza
(detto dai paladini della libertà
assoluta è un bel paradosso) e
l’asserita difficoltà per le donne
di ottenere la pillola del giorno
dopo. Non deve stupire dunque che i
radicali a Milano abbiano
scelto di sostenere Giuliano
Pisapia, al quale
opportunamente il
sottosegretario al Welfare
Eugenia Roccella ha posto alcune
domande (rimaste senza
risposta) in merito ad alcuni
punti del suo programma
elettorale e in particolare
sull’educazione dei giovani. “Il
diritto all’assistenza in caso di
interruzione volontaria di
gravidanza deve essere garantito
attraverso la corretta attuazione
della legge 194”, si legge a pagina
20 del programma. Un proposito
generico, il cui significato probabilmente va ricercato nella
storia parlamentare di Pisapia.
L’8 luglio 2002, l’allora deputato
avanza una proposta di legge con
l’intento di modificare il testo
della 194 in senso permissivo.
All’articolo 1 della proposta si
indicavano nella contraccezione
ordinaria e d’emergenza – la
pillola del giorno dopo, in realtà
dai provati effetti abortivi – gli
strumenti con i quali lo Stato
doveva impegnarsi nella
prevenzione dell’aborto.
Approcci discutibili, come
dimostrano molti casi che a un
aumento della diffusione della
contraccezione non hanno visto
associarsi una diminuzione del
ricorso all’interruzione
volontaria della gravidanza.
Inoltre, Pisapia e gli altri
firmatari del testo chiedevano
l’abbassamento del limite di età
oltre il quale si può procedere
all’aborto senza interpellare i
genitori: oggi tale limite coincide
con la maggiore età, mentre si
chiedeva di arretrarlo ai sedici
anni. Si proponeva poi di
spostare in avanti il limite
gestazionale, dai novanta giorni
alle quindici settimane.
Modifiche dunque in direzione
permissiva, ma non solo per
quanto riguarda i limiti
temporali. Anche in merito
all’uso della Ru486, la posizione
di Pisapia era molto chiara,
chiedendo “la possibilità di
interrompere la gravidanza
utilizzando le tecniche di aborto
farmacologico”. La squadra che sostiene Pisapia
si distingue anche per il
proprio attivismo in tema di
fecondazione assistita. ? stata eletta
nella lista del Partito democratico
Marilisa D’Amico, professore
ordinario di diritto costituzionale
all’Università di Milano e
protagonista di tante battaglie
contro la legge 40. D’Amico, interpellata
sul proprio programma
elettorale, ha dichiarato che
intende sostenere la “creazione
di un servizio di consulenza”
presso tutti gli ospedali affinché
le coppie possano “ricorrere alla
fecondazione assistita, di cui oggi
si parla troppo poco”. E che a Pisapia
non piacciano i limiti imposti
dalla legge 40 non è un segreto.
Nel 2002, quando ancora
il testo era in discussione in Parlamento,
Pisapia propose di sopprimere
l’articolo 4 che consente
l’accesso alla fecondazione solo
in caso di sterilità e infertilità e
vieta quella eterologa con gameti
esterni alla coppia.

Pisapia /1

Bene, Milano ha scelto il suo sindaco. Eccolo. (da Avvenire del 26 maggio). La tutela della
vita umana
fino alla
morte
naturale è
un tema sul
quale le
amministrazioni locali possono
fare poco? Votare un candidato
piuttosto che un altro è
indifferente se si parla di
testamento biologico ed
eutanasia? Non sembrano pensarla
così i radicali, che da molto ormai
portano avanti, assieme
all’associazione Luca Coscioni e a
tutte le altre realtà che orbitano
intorno al mondo di Pannella&co,
iniziative propagandistiche a
favore dei registri comunali del
testamento biologico. A Milano la
campagna elettorale della lista
Bonino-Pannella, che sostiene
Pisapia, ha trovato nella spinta
verso l’approvazione di tale
registro un tema cardine. Ad aprile,
in piazza Duomo, c’erano tutti i
big radicali: Emma Bonino, Marco
Pannella, Marco Cappato
(segretario della Coscioni), Mina
Welby, Silvio Viale (consigliere di
Exit Italia), Maria Antonietta
Farina Coscioni. Cappato,
candidato capolista che durante il
comizio urlò contro “gli accattoni
dell’8 per mille” e di recente ha
promosso la campagna milanese
di affissioni pro-eutanasia,
entrerebbe in consiglio comunale
in caso di vittoria di Pisapia. Se si considerano le idee che il
candidato di centrosinistra ha
manifestato nei suoi anni in
Parlamento difficilmente i radicali
non approfitteranno della sua
eventuale vittoria. Anno 2002,
proposta di legge 2974, primo
firmatario proprio il deputato
Pisapia (Rifondazione comunista),
titolo: “Disposizioni in materia di
legalizzazione dell’eutanasia”. Un
testo che non lascia spazio a
dubbi: “Nel caso di malattia
terminale o di malattia gravemente
invalidante, irreversibile, e con
prognosi infausta” – vi si legge – i
pazienti hanno diritto di “scegliere
le modalità della propria morte e
di chiedere l’assistenza di un
medico per porre termine alla
propria esistenza”. Nella legge si
parlava anche di “dichiarazione di
volontà” vincolante e valida anche
qualora il soggetto interessato si
fosse trovato nella situazione di
incapacità temporanea o
permanente. Quello del 2002 fu il
secondo tentativo: Pisapia aveva
già firmato il progetto di legge
7338 sulle “Disposizioni in
materia di interruzione volontaria della sopravvivenza”, risalente al
2000. Il tenore del testo era il
medesimo: si parlava del “diritto
di scegliere di interrompere
volontariamente la propria
sopravvivenza” per malati
terminali o con prognosi negativa.
In entrambi i casi, l’intento
dichiarato era quello di modificare
il Codice penale agli articoli 579 e
580 riguardanti l’omicidio del
consenziente e l’istigazione al
suicidio: il medico che si fosse
attenuto alle nuove leggi
ovviamente non sarebbe stato
incriminato. Uscendo dai confini milanesi,
sono ormai numerosi i
Comuni dove sindaco e giunta
hanno promosso un registro dei
testamenti biologici. La mappa
presente sul sito della Coscioni si
arricchisce di località: atti dal
valore legale nullo, ma che da un
punto di vista propagandistico
hanno un impatto notevole.
Cagliari si è dotata del registro nel
settembre 2009, il novembre
successivo a Genova ha aperto lo
sportello di raccolta dei testamenti,
nel febbraio 2010 la giunta di
Firenze ha varato il registro
comunale, nello scorso marzo è la
volta di Torino. Sono questi solo i
casi principali, a cui si aggiungono
due municipi di Roma, poi
Livorno, Arezzo, Piacenza, Reggio Emilia e molti altri. A Napoli, se
dovesse vincere De Magistris, la
strada sembra segnata. “Sostengo il
biotestamento, come
autodeterminazione dell’individuo
in merito alla propria salute e vita,
anche da cristiano”, ha dichiarato
il candidato dell’Idv.
Sempre da un punto di vista
simbolico, sono molte le città
in cui si è proposto, con alterne
fortune, di conferire la
cittadinanza onoraria a Beppino
Englaro. E, a proposito della morte
di Eluana avvenuta nella clinica La
Quiete di Udine, non va
dimenticato il ruolo che recitarono
gli amministratori locali. Furio
Honsell e Renzo Tondo,
rispettivamente sindaco di Udine e
governatore del Friuli, in più di
un’occasione manifestarono il
proprio sostegno al padre di
Eluana. E fu il sindaco a rendere
disponibile la “Quiete”, struttura
comunale, dove Eluana fu
“terminata”. Sì, anche i sindaci
decidono sulla morte.

Ecco cosa dicono i guru del movimento eutanasico internazionale

La morte? Un diritto umano! “Una possibilità meravigliosa”, “un diritto umano”: è così che Ludwig Minelli, presidente di Dignitas, autodefinitosi attivista per i diritti umani, ha descritto il suicidio in un’intervista rilasciata alla BBC due anni fa.

Al convegno dal titolo “Suicidio assistito ed eutanasia, una questione di diritti umani”, tenutosi nel luglio 2007 ed organizzato dal Partito radicale e dal gruppo dei liberali e democratici dell’europarlamento (Alde), Minelli intervenne ribadendo i medesimi concetti, lamentandosi delle difficoltà per garantire assistenza al suicidio per i malati di mente: “Il problema di come aiutare una persona malata di mente resta irrisolto”, disse.

In quanto a celebrità, il dottor Nitschke, noto come “dottor morte australiano” e direttore di Exit, un’altra organizzazione che opera a livello internazionale per divulgare le “migliori” tecniche per suicidarsi, non è certamente secondo a Minelli. Nel 2001, Nitschke, a colloquio con una giornalista del National Review Online, si domandò: “Perché gli adolescenti dovrebbero attendere di compiere 18 anni (per avere accesso al suicidio assistito, ndr)?”.

Oggi Nitschke, con la rete di Exit, diffonde le sue idee in tutto il mondo (suo lo spot tv portato in Italia dai radicali). Non può sorprendere che il direttore di Exit abbia parlato di Jack Kevorkian, meritatosi prima di lui il soprannome di “dottor morte”, come di “un eroe”.

Kevorkian è il medico di origine armena che nel 1999 fu arrestato negli Stati Uniti con l’accusa di omicidio (aveva praticato un’iniezione letale a Thomas Youk, affetto da malattia neurodegenerativa), dopo che aveva aiutato almeno 130 persone a morire. Interpellato dal Time Magazine nel 1993, che gli chiedeva se la malattia terminale fosse requisito necessario per ottenere l’assistenza al suicido, rispose: “Naturalmente no. E non deve essere neppure dolorosa. Ma la qualità della vita deve essere pari a zero”.

Minelli, Nitschke e Kevorkian hanno coniugato teoria e pratica. Ma sono probabilmente Peter Singer e H. Tristram Engelhardt coloro che hanno gettato le basi filosofiche moderne per la giustificazione di eutanasia e suicidio assistito, attraverso molti dei loro libri.

Con “Ripensare la vita” Singer, professore di bioetica all’Università di Princeton, nel 1994 si propone di elaborare una “nuova morale per il mondo moderno”. Tra i tanti passaggi favorevoli ad aborto, eutanasia, suicidio assistito e infanticidio, si può leggere: “Gradualmente impareremo a pensare che, nel caso di malati terminali o incurabili, un corretto esercizio della professione medica comprende anche la pratica dell’eutanasia”.

 In “Etica pratica”, del 1997, Singer afferma poi: “Uccidere un neonato disabile non è moralmente equivalente ad uccidere una persona. Molto spesso non è affatto sbagliato”. E’ del 1986 invece “Foundations of bioethics” (“Fondamenti di bioetica”), l’opera in cui Engelhardt, professore di filosofia alla Rice University in Texas, afferma che nel “contesto morale laico […] cosa ci sia di moralmente sbagliato nel causare direttamente o nel determinare la morte di un individuo innocente non lo si comprende più”.

E, più avanti, prosegue: “L’autorità morale può discendere solo dal consenso, dal permesso delle persone coinvolte”.

Sono queste le idee a cui esplicitamente si ispirano coloro che oggi in Italia vorrebbero la legalizzazione dell’eutanasia. Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica, sull’Unità, in occasione della morte di Eluana, scrisse che “non sempre la vita è buona”. La consulta si batte da sempre per la legalizzazione dell’eutanasia e nel 1993 produsse un documento in cui se ne affermava la liceità morale.

Nel marzo 2009, ancora sull’Unità, Mori ed altri firmatari, tra cui il dottor Mario Riccio, coinvolto nel caso Welby, pubblicarono un appello in cui si rivendica “la moralità e la desiderabilità” di eutanasia e suicidio assistito. Interventi di Engelhardt sono ospitati nella rivista pubblicata dalla Consulta. Pochi giorni fa, il Coordinamento laico nazionale, di cui la Consulta fa parte, ha contestato la presenza di Benedetto XVI in tv, con particolare riferimento alla risposta in merito allo stato vegetativo, ribadendo il diritto alla “libertà di scelta”. (da Avvenire del 28 aprile 2011)

Se l’eutanasia entra in casa passando dal piccolo schermo

La TV come mezzo di propaganda, meglio se sfruttando casi estremi e immagini scioccanti, a favore dell’eutanasia
Prima il video per la promozione dell’eutanasia, arrivato in Italia a novembre e trasmesso furtivamente su Rai Tre e poi da alcune emittenti locali. Adesso i manifesti che sfruttano lo stesso protagonista, chiedono il cinque per mille per l’Associazione Luca Coscioni e lanciano un messaggio molto chiaro: “Lasciatemi morire in pace”. La strategia mediatica dei radicali che preme per la legalizzazione dell’eutanasia in Italia fa parte di un disegno più ampio, che da anni a livello internazionale usa immagini e concetti spesso scioccanti per sensibilizzare il pubblico sul tema della “buona morte”.
Va ricordato innanzitutto che lo spot, che tante polemiche ha suscitato, è stato ideato da Exit International, associazione che fa della promozione di eutanasia e suicidio assistito il fulcro della propria attività. Grazie ad Exit quello spot gira il mondo, nonostante molti divieti di messa in onda, quali ad esempio quelli sanciti dalle autorità competenti di Australia e Canada. Il Presidente di Exit, Philip Nitschke, è stato spesso al centro di casi mediatici controversi. Recentemente, dall’Inghilterra, è giunta la notizia che un video, che vede proprio il dottor Nitschke tra i protagonisti, sarà mostrato agli adolescenti nelle scuole. Nel filmato, sarà possibile vedere il funzionamento di una macchina ideata per somministrare dosi letali di farmaci. In molti, anche tra coloro che si dicono favorevoli alla legalizzazione dell’eutanasia, si sono detti contrariati dalla scelta di includere Nitschke tra coloro che compaiono nel video. Nonostante nei 20 minuti che saranno proposti ai giovani tra i 14 e i 18 anni di età ci sia spazio anche per associazioni pro-life, il rischio evidenziato è quello di istigare al suicidio gli adolescenti più fragili.
Sempre in Inghilterra, in estate la Bbc trasmetterà un documentario sulla morte di un settantunenne presso la clinica di Dignitas, l’organizzazione svizzera che fornisce servizi legati al suicidio assistito. Sarah Wootton,
della Dignity in Dying, ha dichiarato di ritenere irresponsabile non affrontare un argomento del genere, esplicitando lo scopo di tale strategia mediatica: forzare la mano in un dibattito così delicato quale è quello sull’eutanasia.
Alla fine del 2008 fu il canale Sky Real Lives a trasmettere le ultime ore di vita di Craig Ewert, affetto da una malattia neuronale degenerativa e recatosi in Svizzera per suicidarsi. La moglie, in un contributo sul quotidiano Independent intitolato “Perché voglio che il mondo veda morire mio marito”, dichiarò che il video sarebbe servito a superare il tabù della morte.
Nel febbraio scorso, anche il canale svizzero Tf1 mandò in onda un reportage sul suicidio di André Rieder, medico di 56 anni: nel video, della durata di quasi cinquanta minuti, viene raccontato l’ultimo mese di vita di Rieder, dai preparativi all’epilogo finale.
Il copione è sempre il medesimo: irrompere nelle case dei cittadini attraverso il piccolo schermo per accelerare i tempi che dovrebbero condurre alla legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito.
(da Avvenire, 21 aprile 2011)

I radicali insistono: legalizzare l’eutanasia

Mentre dovunque si sia legalizzata l’uccisione del malato consenziente (Oregon, Olanda, Belgio…) le statistiche parlano di un aumento incontrollato del ricorso ad eutanasia e suicidio assistito, i radicali insistono: sì all’eutanasia in Italia. Continua la martellante azione pro-eutanasia dell’associazione radicale Luca Coscioni. Durante questa settimana alcune emittenti campane, all’interno dei rispettivi telegiornali, stanno trasmettendo lo spot per la promozione dell’eutanasia realizzato da Exit International e arrivato in Italia proprio grazie all’attivismo del mondo radicale. Il breve filmato – meno di un minuto il tempo che il protagonista impiega per affermare il suo diritto a scegliere come morire – è finito al centro delle cronache nostrane nel novembre scorso, quando TeleLombardia si disse disponibile a trasmetterlo.
Da allora si sono succedute polemiche circa l’opportunità di mandare in onda lo spot: non va dimenticato, infatti, che in Australia e in Canada le autorità competenti in materia non hanno dato il via libera per la trasmissione del video.
Ora il vice-segretario della Coscioni, Filomena Gallo, annuncia che in Campania i telespettatori potranno vedere lo spot proprio adesso che è in discussione la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Una legge “ipocrita e anticostituzionale” che, sempre secondo Gallo, non rispetterebbe il pensiero di quel “75% degli italiani favorevoli all’eutanasia”. Una maggioranza che sembrerebbe in continua ascesa, se si considera che proprio lo spot parla di un 67%. Potere della pubblicità…
CIn Italia non c’è stato ancora un pronunciamento ufficiale da parte delle autorità istituzionali che dovrebbero esprimersi sull’opportunità di trasmettere lo spot. La messa in onda in Campania è solo l’ultimo atto della vicenda che vede i radicali sfruttare questo vuoto. A dicembre il video ha addirittura fatto breccia nel servizio pubblico: prima Raitre (due volte) e poi Radiouno hanno concesso la ribalta alla pubblicità ideata da Exit, con stratagemmi vari. Nei mesi scorsi era stato poi il turno di altre emittenti locali, come Tv Oggi Salerno e Rtv 38. Lo spot è ovviamente visibile sul sito della Coscioni, dove continua la campagna per finanziare la messa in onda dello spot. Che tra un detersivo e uno yogurt pubblicizza un reato. (Avvenire, 24-03-2011)

In Gran Bretagna i medici dicono NO ad eutanasia e suicidio assistito

Molte cose interessanti emergono da uno studio che si basa su una revisione della letteratura scientifica sulla propensione dei medici britannici in tema di eutanasia e suicidio assistito. Una su tutte: la maggioranza dice no alla legalizzazione. Intanto, ovviamente, continuano le pressioni di politica e dintorni.
La maggioranza dei medici del Regno Unito è contraria alla legalizzazione di eutanasia attiva e suicidio assistito. E’ questo il risultato ottenuto da un team del dipartimento di Medicina palliativa del Milford Care Centre, un hospice con sede in Irlanda. Il lavoro, dal titolo “Gli atteggiamenti dei medici britannici verso l’eutanasia e il suicidio assistito: una revisione sistematica della letteratura”, è stato da poco pubblicato sul Palliative Medicine Journal. In esso si riporta un’analisi dei risultati di alcuni articoli risalenti al periodo che va dal 1990 al 2010 e riguardanti proprio la sensibilità dei medici in tema di morte procurata. Da dieci degli undici articoli esaminati a proposito di eutanasia attiva emerge una maggioranza che si oppone alla legalizzazione, così come maggioritaria è, in otto articoli su dieci, l’opinione dei medici che dichiarano la loro contrarietà al suicidio assistito. Tra i fattori che determinano l’atteggiamento dei medici, oltre alla loro religiosità, vi sono anche questioni più strettamente mediche: lo sviluppo delle cure palliative e la necessità delle adeguate garanzie una volta che si introducano pratiche eutanasiche, ad esempio, sono motivi che inducono i medici a negare il loro supporto alla “buona morte”.
Secondo gli autori dell’articolo, inoltre, sarebbe opportuno condurre un’ indagine più dettagliata su altri aspetti che influenzano le opinioni dei medici, quali ad esempio la preoccupazione che la legalizzazione dell’eutanasia costituisca un primo passo verso un’apertura indiscriminata al “diritto a morire” e quella in merito a casi di depressione e demenza.
Dai risultati emerge anche che, anche qualora eutanasia o suicidio assistito fossero legalizzati, meno di un quarto dei medici si dice disposto a collaborare attivamente a questo tipo di pratiche. Da uno degli articoli analizzati, inoltre, si evidenzia come l’opposizione alla morte procurata venga manifestata dalla maggioranza degli interpellati anche quando si ha a che fare con pazienti malati terminali.
In Gran Bretagna, il dibattito su eutanasia e suicidio assistito è stato sempre molto acceso. Nel 1993 Anthony Bland muore a nove giorni dalla sospensione di alimentazione e idratazione artificiale, dopo quattro anni di stato vegetativo, grazie al parere favorevole dell’Alta Corte che accolse le istanze dei parenti del ragazzo. Nel 2006, la Camera dei Lord boccia una legge che avrebbe aperto al suicidio assistito per i malati terminali. Dopo sette ore di accese discussioni, 148 dei 248 votanti respingono il testo: i sostenitori della legge parlarono di inutile “allarmismo” su un provvedimento che “avrebbe risolto il problema delle sofferenze dei pazienti”. Risalgono al 2009 le linee guida del direttore della Procura generale, Keir Starmer, secondo le quali l’aiuto a morire costituisce reato solo nel caso in cui chi assiste il suicida trae beneficio dal decesso dello stesso. Sono due i casi in cui tali linee guida hanno trovato applicazione: i genitori di Daniel James, che hanno accompagnato il figlio a suicidarsi in Svizzera nel 2009, e Michael Bateman, che ha aiutato la moglie a togliersi la vita, non sono stati incriminati e per essi non è stato avviato alcun procedimento penale.
Anche in Scozia il tentativo di legalizzare l’eutanasia si è scontrato con la volontà parlamentare il primo dicembre scorso: con 85 voti contrari – solo 16 quelli a favore – fu respinto l'”End of life assistance bill”, la legge che avrebbe depenalizzato eutanasia e suicidio assistito. Il “diritto a morire” dignitosamente sarebbe stato garantito ai malati terminali e a tutti i soggetti affetti da gravi malattie degenerative senza speranza di miglioramento.
(da Avvenire del 17-03-2011)

Il Papa aveva ragione

Astinenza e fedeltà ingredienti fondamentali per prevenire l’Aids. Lo dice anche Harvard.
Un sorprendente successo nella prevenzione: perché l’epidemia di Hiv è diminuita in Zimbabwe?: è il titolo dell’ultimo lavoro di Daniel Halperin, docente di Sanità internazionale ad Harvard, pubblicato pochi giorni fa sulla rivista scientifica Plos Medicine. E la risposta al quesito che viene data da Halperin e dagli altri autori, tra cui il ministro della sanità dello Zimabwe Owen Mugurungi e Bruce Campbell del Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite (Unfpa), certamente scontenterà coloro che sono sempre pronti alla levata di scudi quando si afferma che il preservativo non è la soluzione.
Perché le parole chiave che riassumono l’approccio risultato vincente nel Paese del Sud dell’Africa sono: “Cambio di comportamento”, “riduzione dei partner sessuali”, “consapevolezza” del pericolo mortale costituito dall’Aids. Un programma dal chiaro contenuto educativo, insomma, che non fa affidamento esclusivamente sul condom quale soluzione di tutti i problemi.
E’stato il 1990 l’anno in cui nello Zimbabwe si è registrata l’esplosione del contagio da Hiv che, dopo aver raggiunto il picco, si è assestato su un valore pressoché costante fino al 2000. Ed è con l’inizio del nostro secolo che in modo sorprendente si ha un rapido declino della diffusione della malattia. Per studiare questo fenomeno dal 2008 i ricercatori si sono interrogati, giungendo a una conclusione comune basata sull’osservazione dei comportamenti della popolazione: nello Zimbabwe, in concomitanza con la diminuzione della diffusione dell’Aids si registra un netto cambiamento delle abitudini sessuali. Maggior attitudine alla fedeltà al proprio partner, concezione negativa della frequentazione di prostitute, malattie contratte per via sessuale che divengono motivo di vergogna e non prova di mascolinità: sono tutte novità riconosciute come determinanti per la prevenzione dell’Aids. Ed è proprio “la riduzione dei partner” sessuali, conclude l’articolo, a giocare un “ruolo cruciale” nell’invertire la rotta.
Ci si può chiedere se il professor Halperin sia una mosca bianca o se le sue posizioni siano condivise dagli addetti ai lavori. A giudicare dalla corposa produzione di lavori scientifici e pubblicazioni divulgative che ribadiscono l’importanza delle questioni educative per la lotta all’Aids, si può dire che esiste quel “terreno comune” di cui proprio l’accademico di Harvard parlava già nel 2004. In quell’anno, in un intervento sulla rivista Lancet, sottoscritto da 149 tra leader religiosi, esponenti delle Nazioni Unite e dell’Oms e ricercatori di università di tutto il mondo, Halperin richiamava i principi cardine per un’efficace prevenzione della trasmissione del virus dell’Hiv.
Tra questi, programmi basati su educazione alla continenza sessuale per le giovani generazioni, fedeltà tra partner e uso di condom per i soggetti ad alto rischio come ad esempio le prostitute. Nell’articolo veniva anche sottolineata l’importanza del coinvolgimento di “organizzazioni religiose, associazioni giovanili, governi locali, media” per la promozione di nuove norme di comportamento in ambito sessuale. Un approccio assai diverso, insomma, da quello che prevede i soli rimedi farmaceutici, per di più proposti senza il coinvolgimento delle popolazioni locali. Tra i co-autori dell’articolo del 2004 figurano anche Edward Green e Norman Hearst: il primo, ricercatore ad Harvard, già nel 2003, dopo aver osservato i successi in Uganda dei programmi basati su astinenza e fedeltà, ammise che molti come lui si erano sbagliati credendo che l’educazione a una sessualità responsabile non potesse dare ottimi risultati; il secondo, professore di epidemiologia in California, è autore di molti articoli in cui si afferma l’importanza di un approccio integrato, che associ all’uso del condom provvedimenti in senso informativo ed educativo.
Proprio Hearst, commentando il libro “Affirming love, avoiding Aids; what Africa can teach the west”
(“Affermare l’amore, evitare l’Aids; cosa l’Africa può insegnare all’occidente”), ha detto che l’attenzione ai comportamenti sessuali è quello di cui c’è bisogno e che “funziona meglio”. Il libro, scritto da Matthew Hanley, già consulente tecnico del Catholic Relief Services, e Jokin de Irala, dell’Università di Navarra, sulla base di dati relativi ai paesi africani, ribadisce l’importanza degli aspetti comportamentali rispetto a quelli tecnici. Il coinvolgimento dei governi africani testimonia inoltre che l’efficacia che a livello scientifico viene riconosciuta ai programmi educativi può essere declinata in azioni politiche.
Nel luglio scorso, le autorità dello Swaziland, il Paese col più alto tasso di contagio, hanno accolto con favore la proposta di due ricercatori, che dalle pagine del Guardian avevano invitato i governanti a promuovere un mese di astinenza. Justin Parkhurst, della London School di Igiene e Medicina tropicale, e Alan Whiteside, dell’università di KwaZulu-Natal, promotori dell’iniziativa, avevano da poco pubblicato un articolo sul South African journal of Hiv medicine in cui si parlava dell’astinenza come possibile rimedio al dilagare dell’infezione. (Avvenire, 17-02-2011)

Affitasi

Ecco cosa succede nell’epoca in cui Elton John e Nicole Kidman, solo per citare due casi da "Vip" (si fa per dire), hanno sdoganato la maternità surrogata.

Dove sono tutte quelle che gridano da mane a sera "L’utero è mio e lo gestisco io"? Credono davvero che le donne che affittano l’utero siano libere?

Si intitola “Made in India” il documentario che nelle intenzioni delle due donne che lo hanno realizzato, Rebecca Haimowitz e Vaishali Sinha, vuole mostrare “le storie umane” dietro a quel “complesso e controverso” fenomeno che risponde al nome di maternità surrogata. Il documentario apre uno squarcio su un argomento che ormai è all’ordine del giorno delle cronache bioetiche, con tutti i suoi angoli bui dal punto di vista etico, economico e legale. E lo fa narrando la storia di Lisa e Brian, che dal Texas volano in India per avere quel figlio atteso da sette anni, aiutati da Aasia, una ventisettenne che porta il burqa per non farsi riconoscere quando entra nella clinica dove impianteranno nel suo utero l’embrione della coppia.

Un vero e proprio commercio, quello del “turismo riproduttivo”, soggetto alle leggi del mercato: in India affittare un utero non costa mai più di venticinquemila dollari, contro i centomila che si possono arrivare a spendere negli Stati Uniti. Nell’ottobre scorso, in Canada, una madre surrogata è stata costretta ad abortire su richiesta della coppia che aveva fornito i gameti. L’interruzione della gravidanza, alla quale la gestante si opponeva, era stata pretesa nel momento in cui gli esami avevano evidenziato che il nascituro era affetto da sindrome di Down. La coppia si era appellata ad un contratto firmato prima dell’impianto dell’embrione, che prevedeva proprio l’obbligo per la madre surrogata di abortire in determinati casi. Sulla validità del contratto si erano interrogati numerosi esperti, chiedendosi se la vita umana potesse essere oggetto di accordi simili a quelli che riguardano la vendita di beni materiali. Molti dubbi riguardano anche le difficoltà che l’affitto di un utero porta con sé in relazione alla definizione dei gradi di parentela tra il bambino che viene alla luce e coloro che si sono affidati alla maternità surrogata, anche in considerazione del fatto che non di rado ad essere coinvolte sono coppie omosessuali. In Australia una coppia di uomini ha visti riconosciuti i diritti di paternità anche per l’uomo che non ha fornito lo sperma per l’embrione poi impiantato nell’utero di una donna indiana.

“La parola ‘genitore’ suggerisce qualche legame biologico” – si legge nel dispositivo del giudice – “ma la biologia non ha realmente importanza, sta tutto nella responsabilità parentale”.

A fine gennaio, un’altra controversia legale ha agitato il dibattito sulla maternità surrogata nel Regno Unito. Ad una donna che aveva stipulato con una coppia un accordo informale che prevedeva l’affitto dell’utero e la consegna del figlio alla nascita, è stato riconosciuto il diritto a tenersi il bambino. La gestante aveva infatti cambiato idea e, secondo il giudice, adesso che il bimbo ha sei mesi, la separazione tra i due costituirebbe una ferita insanabile per l’infante e per la donna, visto il legame creato dal “processo naturale della gestazione e del parto”.

Alla luce di questi casi non sorprende che molti paesi stiano correndo ai ripari in tema di uteri in affitto. In primis l’India: il governo sta considerando il varo di una legge che impedisca alla donne di concedere il proprio utero per più di cinque volte, limitando la fascia di età delle madri surrogate tra i 21 e i 35 anni. Una legge dunque permissiva, ma, se si pensa che l’intento è una regolamentazione più definita, è facile intuire quanto oggi la situazione sia fuori controllo. Anche in Australia c’è chi si è dotato di un testo che regolamenta la maternità surrogata: la legge del Nuovo Galles del sud impedisce viaggi all’estero alla ricerca di donne disposte a portare avanti una gravidanza. E, proprio in questi giorni, il parlamento francese si trova a discutere la legge sulla bioetica che non sembra voler concedere spazio alla possibilità di affittare l’utero. In Italia la maternità surrogata è vietata dalla legge 40. Ma c’è chi non si arrende. E’ depositato presso la Camera un progetto di legge in tema di fecondazione assistita col quale, al primo comma dell’articolo 15 si vietano le tecniche di surrogazione della maternità. Ma al comma successivo si afferma che tale divieto “non si applica nel caso in cui l’incapacità della madre di portare avanti la gravidanza non sia altrimenti superabile”, fermo restando l’impossibilità di ricevere compensi per l’affitto dell’utero. La prima firmataria del testo è Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata di quei radicali spesso sponsor dei numerosi attacchi alla legge 40.

Da Avvenire, 10 febbraio 2011