MASSONERIA, POTERI FORTI E PERSUASIONE OCCULTA. 1? Parte: COME SI MANIPOLA LA MENTALITA’ DELLE MASSE

Come nascono quei fenomeni sociali di dimensione globale che sono le “mode culturali”? E com’è possibile che tali mode possano penetrare e conquistare, in breve tempo, la coscienza di popoli interi fino a configurare, in certi casi, dei veri e propri cambiamenti di paradigma nella visione del mondo e della vita? E soprattutto: si tratta di fenomeni “spontanei” (ossia, per usare un’espressione comune, di “evoluzione” della mentalità e dei costumi) o si tratta, al contrario, di fenomeni almeno in parte “eterodiretti”?

 

 

 

In realtà, per decenni una storiografia condizionata dalla scuola marxista ha imposto l’idea che l’evoluzione della mentalità sia un fenomeno essenzialmente autonomo, dove il ruolo delle cosiddette “elite” culturali sarebbe solo quella di farsi voce dei cambiamenti prodotti delle masse piuttosto che di provocarli. Gli studi più recenti, tuttavia, non fanno altro che confutare questa idea, mettendo in luce, al contrario, l’importanza determinante che certe “agenzie culturali” hanno avuto (ed hanno tutt’ora) rispetto ai grandi cambiamenti culturali e di costume, specie di quelli avvenuti negli ultimi decenni e che così tanto hanno contribuito a trasformare la vita e la mentalità delle società occidentali.

 

          “Stati di Spirito” e “disordine organizzato”: come operano i poteri forti.

 

L’idea che esistano “poteri forti” capaci di influenzare e condizionare sia gli eventi storici che il pensiero dominante è certamente “pericolosa”: facilmente, infatti, può condurre ad un “complottismo” paranoide che finisce per vedere, in ogni accadimento, un inquietante dietro le quinte. Questo rischio, tuttavia, non può portarci a negare (o peggio ad ignorare) il reale influsso che certe lobby di potere hanno avuto ed hanno nel creare quell’humus da cui poi scaturiscono gli eventi storici. Nessuno storico serio, ad esempio, negherebbe oggi il ruolo determinante avuto dalle “società di pensiero” di ispirazione massonica nell’attuazione e nell’indirizzo successivamente preso dalla Rivoluzione Francese[1]; così come sarebbe ormai difficile negare la natura “elitaria” (e in qualche modo esoterica) di quei circoli culturali da cui hanno avuto origine ideologie come il Nazismo e lo stesso Comunismo.

 

Un’analisi straordinariamente lucida sull’origine delle “mode culturali” è quella del francese René Guénon, noto storico delle religioni e dei simbolismi, esoterista ma anche, in gioventù, grande frequentatore di circoli “occulti” (nonché 33° grado del Grande Oriente di Francia). Da conoscitore ed “esperto in materia”, infatti, Guénon tocca spesso, nelle sue opere, il tema dei meccanismi che generano quelli che il francese chiama gli Stati di Spirito collettivi: così, ad esempio, scrive l’esoterista,“è noto l’adagio: “Vulgus vult decipi”, che alcuni commentano: “Ergo decipiatur! […] Si può così tenere per sé la verità e diffondere nello stesso tempo errori che si sanno essere tali, ma che si ritengono opportuni”[2]. Si tratta, in sostanza, della legittimazione della menzogna, sapientemente diffusa allo scopo di raggiungere un “fine” conosciuto solo da chi è iniziato in tali faccende. Il Guénon, dal canto suo, depreca simili atteggiamenti, ma aggiunge laconicamente: “altri però possono giudicare le cose diversamente”. Secondo il Guénon, inoltre, un’altra strategia utilizzata dai “poteri forti” per condizionare l’opinione pubblica, sarebbe quella del balance of power, ossia il “ritenere che la coesistenza di due errori opposti, limitatisi per così dire reciprocamente, sia preferibile alla libera espansione di uno solo degli errori”. Così, spiega ancora Guénon, “può anche darsi che molte correnti di idee, per quanto totalmente divergenti, abbiano avuto un’origine analoga e siano state destinate a favorire quella specie di gioco d’equilibrio che caratterizza una particolarissima politica; in quest’ordine di cose, si commetterebbe un grave errore fermandosi alle apparenze”[3]. Si tratta qui, in tutta evidenza, di quella strategia che, ad un livello solo un po’ meno “esoterico”, può essere definita politica degli opposti estremismi, dove una certa tendenza finisce per neutralizzare quella opposta a vantaggio di …terzi.

 

Le affermazioni di Guénon, pertanto, sembrerebbero spalancare la finestra su di un mondo, quello della persuasione occulta, dove non esisterebbero il “caso” e la “spontaneità”, ma dove tutto, al contrario, sarebbe studiato in alte sedi, al fine di influenzare e “guidare” la massa dei profani verso fini che sfuggirebbero del tutto alle moltitudini, ma che sarebbero invece ben noti agli “iniziati”. Si tratta, certamente, di un’affermazione grave e, riconosciamolo, difficilmente “digeribile” dai più, perché negante del tutto la “spontaneità” degli eventi storici e dell’evoluzione della cultura. Senza tuttavia dover sposare in pieno questa ipotesi, è innegabile che essa descriva almeno un aspetto della realtà che è stato invece troppo spesso ignorato dagli storici.

 

Anche il massone italiano Gorel Porciatti, in una sua opera, afferma essere proprio questa la strategia utilizzata dai veri poteri forti (che sono anche poteri “occulti”, in quanto non si mostrano mai in prima persona, preferendo agire su di un piano “subliminale”). Scrive infatti il Porciatti:  “Il motto Ordo ab Caos rappresenta la sintesi della Dottrina Massonica e ne rappresenta il Segreto fondamentale. Significa che la Grande Opera non può prodursi se non attraverso uno stato di putrefazione e di dissolvimento, ed insegna che non si può giungere all’ordine nuovo se non attraverso un disordine sapientemente organizzato[4] .  Questo riferimento all’utilizzo strumentale del “caos” in vista di un “ordine” conosciuto solo da pochi, getta peraltro una luce piuttosto inquietante su molti avvenimenti del mondo contemporaneo: introduce il (verosimile?) sospetto sulla vera natura e origine di fenomeni di massa che, apparentemente, sembrerebbero apparire come spontanei prodotti della “coscienza popolare” ma che, al contrario, potrebbero essere visti in altri luoghi come strumenti di un progetto le cui finalità sfuggirebbero persino agli stessi protagonisti “apparenti”.

 

Da questo punto di vista, ad esempio, può essere piuttosto interessante indagare sulle radici di quei grandi “movimenti di pensiero” che hanno trasformato (e persino stravolto) la mentalità contemporanea; uno su tutti la grande “rivoluzione” degli anni ’60, che all’insegna del mito della droga, della “liberazione sessuale” e del rifiuto dei legami e delle autorità tradizionali ha così profondamente trasmutato la coscienza dell’Occidente, dando origine a quel “tipo d’uomo” che rappresenta ormai la norma nella società contemporanea.

 

          CONTINUA nella Seconda Parte.

 


[1] Come scrive lo storico Bernard Fay, “gli storici che vedono nella Rivoluzione l’esito fatale degli abusi del vecchio regime, si compiacciono nel mostrare le ragioni che potevano avere il popolino, i contadini e gli operai per sollevarsi contro il governo di Luigi XVI; e per spiegare questi fenomeni trovano dei motivi economici, sociali, politici, che li soddisfano. Ma di solito toccano appena la parte avuta dall’alta nobiltà, senza la quale la Rivoluzione non avrebbe mai potuto mettersi in moto. L’impulso rivoluzionario, i fondi rivoluzionari, durante i primi due anni della Rivoluzione, provengono dalle classi privilegiate. (…) Ora, tutti questi nobili che abbracciarono alla prima la causa (…) tutti erano massoni, e non si può scorgervi un caso fortuito, a meno di voler negare l’evidenza” (B. Fay, Massoneria e Rivoluzione francese, in “I quaderni di Avalon” n. 20-21, Rimini 1989, p. 196).

 

[2] R. Guénon, L’errore dello spiritismo, Milano 1998, p. 36

[3] Ibidem

[4] U. Gorel Porciatti, Simbologia massonica. Gradi scozzesi, Roma 1948, p. 303

 

 

GESU’ NELL’ISLAM. IL MISTERO DI UNA PRESENZA

Di fronte alla realtà storica dell’Islam, questa grande religione sorella e pur spesso storicamente nemica, non si può negare come il cristiano si ritrovi confuso e interdetto. Che lo si consideri, infatti, nient’altro che un mostruoso “mistero dell’iniquità” o al contrario un enigmatico “strumento della Provvidenza”, la domanda sul significato che l’Islam ha nelle vicende dell’umanità e della sua salvezza non può non rimandare al mistero di quel “Signore della storia” che da 1400 anni permette lo sviluppo, quasi in parallelo al Cristianesimo, di un universo spirituale così evidentemente simile eppure così lontano dal nostro: un universo spirituale di cui, tuttavia, non si può negare in alcun modo lo straordinario e sincero slancio verso Dio, unito alla rara capacità di partorire arte, bellezza e sapienza.

In tutta onestà, pertanto, crediamo che il cristiano possa (e debba) considerare il fenomeno Islam soprattutto come un “mistero” –con tutte le valenze anche teologiche che questo termine possiede- un mistero che si infittisce quando si considera l’importanza che la stessa figura di Gesù possiede all’interno della tradizione islamica. Un’importanza e una singolarità poco note ai cristiani, e sulla quale gli stessi musulmani raramente sono propensi a riflettere.

           Issa ibn Maryam: ritratto di un profeta molto particolare.

Chiunque conosca qualcosa dell’Islam, anche a livello molto elementare, sa che per la dottrina musulmana, la figura di Issa ibn Maryam (Gesù figlio di Maria) è essenzialmente quella di un profeta: un profeta fra i più importanti (insieme a Muhammad stesso e a Mosé, Gesù è uno dei pochi a meritare la qualifica di Rasul, ossia Inviato), ma pur sempre e solo uno “strumento” di Dio, un servo dell’Altissimo, su cui Dio si è degnato di far scendere la Sua rivelazione, ma che certo non può pretendere di “condividerne” la Natura. In una religione come L’Islam (o come l’Ebraismo), la prospettiva rigidamente monoteistica impedisce infatti anche solo di immaginare una qualche  “identificazione” di Dio con una realtà creata.

Nate in un ambiente contraddistinto da un politeismo lussureggiante e pervadente, infatti, sia l’Ebraismo sia l’Islam hanno da subito dovuto “tutelare” l’idea dell’unicità e trascendenza divine escludendo ogni aspetto che potesse lederla agli occhi del popolo (donde, ad esempio, il divieto delle immagini). Da questo, come da altri punti di vista, il messaggio di Muhammad si allinea perfettamente con lo spirito dell’Antico Testamento; ed è significativo (o provvidenziale?) che il Profeta dell’Islam abbia sempre affermato di voler ricondurre il popolo arabo discendente da Ismaele all’originaria fede di Abramo (lì dove, invece, Gesù afferma di se stesso di essere “prima di Abramo”[1]).

 Pur nella sua prospettiva veterotestamentaria, tuttavia, l’Islam non può ignorare l’evento rappresentato dalla venuta di Gesù: ed è su questo punto che il messaggio coranico, tra clamorose affermazioni e apparenti negazioni, sembra aprirsi (fino ad un certo punto) ad un Mistero inconcepibile che tale rimane anche per il musulmano stesso, il quale sa che Gesù è solo un profeta ma che è, al tempo stesso, un profeta beneficato da parte di Dio di privilegi unici fra tutti gli uomini: privilegi che nemmeno lo stesso Muhammad ha ricevuto. Tra questi privilegi, i più significativi sono:

1)      La nascita verginale e la preservazione dal “tocco di Satana”. L’Islam condivide con il Cristianesimo l’idea che Gesù sia stato concepito in maniera verginale da Maria (la veneratissima Maryam, forse la figura femminile più amata del mondo islamico[2]). Nel Corano, l’Annunciazione e il concepimento di Gesù sono descritte con parole molto simili a quelle del Vangelo di Luca: “Ricorda Maria nel Libro, quando si allontanò dalla sua famiglia, in un luogo ad oriente. Tese una cortina tra sé e gli altri. Le inviammo il Nostro Spirito che assunse le sembianze di un uomo perfetto. Disse [Maria]: “Mi rifugio contro di te presso il Compassionevole, se sei [di Lui] timorato!”. Rispose: “Non sono altro che un messaggero del tuo Signore, per darti un figlio puro”. Disse: “Come potrei avere un figlio, ché mai un uomo mi ha toccata e non sono certo una libertina?”. Rispose: “È così. Il tuo Signore ha detto: "Ciò è facile per Me… Faremo di lui un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra. È cosa stabilita"” (Sura III, 59). Sempre nella Sura III, il Corano esprime un significativo parallelismo tra Gesù e Adamo; ambedue, infatti, sono stati formati da Dio senza ausilio di seme umano: “In verità, per Dio Gesù è simile ad Adamo che Egli creò dalla polvere, poi disse: "Sii" ed egli fu” (Sura III, 59). Questa origine sovrannaturale, inoltre, si sposa ad un altro privilegio che Gesù condivide con sua madre; come recita un antico hadith[3] di Muhammad, infatti, “Satana tocca ogni figlio di Adamo il giorno in cui la madre lo partorisce[4], tranne che nel caso di Maria e di suo Figlio” (Bukhari 60, 54). Gesù e Maria rappresentano dunque per l’Islam un’endiade di esseri privilegiati e purissimi, distinti per questo da tutti gli altri uomini, fossero anche i più grandi santi o profeti.

2)       Gesù, spirito e parola di Dio. In un versetto molto noto, tratto dalla Sura IV, il Corano sembra mettere in guardia rispetto ad un’ipervalutazione della figura di Gesù: “O Gente della Scrittura, non eccedete nella vostra religione e non dite su Dio altro che la verità. Il Messia Gesù, figlio di Maria non è altro che un messaggero di Dio” le parole seguenti, però, lo definiscono “una Sua parola che Egli pose in Maria, uno Spirito da Lui” IV, 71. Ora, se è evidente che l’interpretazione di queste espressioni non è (e non potrebbe essere) la stessa per un cristiano e per un musulmano, e pur vero che, anche in questo caso, le affermazioni coraniche riguardo al profeta Issa sono assolutamente uniche rispetto a qualsiasi altra figura profetica.

3)       Gesù, autore di miracoli. L’unico profeta che il Corano presenta esplicitamente come dotato da Dio del dono di compiere miracoli è, ancora una volta, il Figlio di Maria: "In verità vi reco un segno da parte del vostro Signore. Plasmo per voi un simulacro di uccello nella creta e poi vi soffio sopra e, con il permesso di Dio, diventa un uccello. E per volontà di Dio, guarisco il cieco nato e il lebbroso, e resuscito il morto. E vi informo di quel che mangiate e di quel che accumulate nelle vostre case. Certamente in ciò vi è un segno se siete credenti!” III, 48). La pericope più volte ripetuta “per volontà di Dio” salvaguarda la necessaria distinzione tra Dio e il profeta Gesù: eppure, ancora una volta, la figura di Gesù evidenzia degli elementi di “unicità” davvero sorprendenti, specie in riferimento al miracolo della “resurrezione del morto” e, ancor di più, a quello della “creazione” degli uccelli dal fango, dove appare una capacità, quella di dar vita alla materia inerte, che è per definizione un attributo divino.  

4)      Gesù si autobenedice. Il Corano presenta anche un versetto, davvero unico nel suo genere, in cui il profeta Gesù, fin dalla culla, pronunzia un’autobenedizione diretta alla sua stessa persona: “Pace su di me, il giorno in cui sono nato, il giorno in cui morrò e il Giorno in cui sarò resuscitato a nuova vita” (XIX, 33).

          Gesù non è morto sulla croce?

Rispetto al “Gesù cristiano”, tuttavia, quello conosciuto dalla tradizione islamica manca di un elemento per noi fondamentale: la Croce. Quello che già al tempo di Paolo è “scandalo per i Giudei”[5] è inaccettabile anche per l’Islam, che non può ammettere che uno dei più alti profeti venga giustiziato con un supplizio infamante. Questa idea nasce dall’interpretazione di un, peraltro enigmatico, versetto coranico in cui si afferma:”Per certo non lo hanno ucciso ma Dio lo ha elevato fino a Sé. Dio è eccelso, saggio” (IV,158). Nell’interpretazione popolare di questo versetto, Gesù sarebbe stato sostituito sulla croce da un’immagine fittizia o addirittura da Giuda Iscariota, a cui Dio avrebbe dato le fattezze del profeta affinché si compisse già in questo mondo la vendetta per il tradimento.

          Il Gesù apocalittico.

Un ruolo davvero sorprendente è, al contrario, quello che l’Islam attribuisce a Gesù nello scenario dei Tempi Ultimi. Se sulla fine terrena del profeta non ci sono, infatti, interpretazioni univoche, il Corano afferma però con certezza la sua Ascensione al cielo (“Dio lo ha elevato fino a sé”).  Questa Ascensione è vista in funzione di quella battaglia finale che opporrà Gesù il Messia all’anticristo, il Masih al-Dajjal (lett. Il Messia Ingannatore), che nei Tempi Ultimi sedurrà tutti i popoli della terra eccetto i pochi fedeli che rimarranno saldi nella Rivelazione divina. Alcuni fra i più antichi e venerati hadith aggiungono particolari importanti a questo scenario:  E mentre egli (il Dajjal) sarà occupato da queste cose, Dio invierà il Messia figlio di Maria che discenderà presso il bianco minareto orientale di Damasco e non è permesso a nessun miscredente di sentirne il profumo senza perire. Quindi lo cercherà, finché lo raggiungerà alla Porta di Ludd (una delle porte di Gerusalemme)” (Muslin, Fitan, 116); “E visto Gesù, il nemico di Dio si scioglierà come il sale si scioglie nell’acqua” (Muslim, Fitan, 60). L’Islam, dunque, condivide col Cristianesimo l’attesa del ritorno di Gesù: non di un non meglio precisato “messia” o “salvatore” (come in altre tradizioni religiose) ma proprio di “questo Gesù che” come afferma l’evangelista Luca “tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”[6].

          Incarnazione e Trinità: dogmi negati o ignorati?

Nella sua formulazione dogmatica, è tuttavia evidente che niente entra tanto in contrasto con la prospettiva islamica di Dio quanto i dogmi (fondamentali e caratterizzanti per il Cristianesimo) della Trinità e dell’Incarnazione. E’ interessante tuttavia notare come nel Corano questi dogmi, più che essere negati, vengano di fatto ignorati (o meglio, letteralmente bypassati).

            Nel caso del dogma della Trinità, ad esempio, si potrebbe pensare che versetti come “E quando Dio dirà: « O Gesù figlio di Maria, hai forse detto alla gente:" Prendete me e mia madre come due divinità all’infuori di Dio?" (V, 116), si riferiscano (tra l’altro in maniera erronea, visto che Maria non è una delle Tre Persone divine…) alla “nostra” Trinità. Tuttavia, è molto più probabile che qui ci si riferisca a quel vero e proprio “triteismo” che caratterizzava numerose eresie cristiane del Medio Oriente, che realmente identificavano Gesù come “un dio” accanto al Padre, e Maria come una terza “dea”, secondo il modello delle triadi divine. Una di queste eresie, molto diffusa tra i “cristiani” arabi era il Colliridianesimo[7].

            Anche nel caso dell’Incarnazione, possiamo tranquillamente dire che il Corano non tratta minimamente la questione, almeno nell’ottica della fede cristiana ortodossa. Se è pur vero, infatti, che il Corano biasima più volte coloro che ardiscono definire “il Messia come figlio di Dio”, è però interessante notare come il termine qui usato per “figlio”, (walàd, ossia frutto dell’accoppiamento sessuale, opposto al termine, più ampio e giuridico, di Ibn), voglia più che altro mettere in guardia contro certe eccessive “antropomorfizzazioni” della Divinità, presenti nell’ambiente paganizzato dell’Arabia pre-islamica.

            Si può forse dire, in conclusione, che su di un piano dogmatico Islam e Cristianesimo, più che negarsi reciprocamente, sembrano piuttosto percorrere due strade tanto parallele quanto differenti: due punti di vista opposti rispetto allo stesso “oggetto”; il ché rende improbabile, in una prospettiva “solo umana”, qualsivoglia tentativo di conciliazione forzata o di assimilazione sincretistica.

            Gli Islamici di fronte al mistero di Issa.

Ma, in definitiva, quali conclusioni trae la teologia islamica a partire dai sorprendenti “privilegi” che la loro stessa Rivelazione accorda al profeta Issa? Sorprendentemente –almeno nella nostra ottica intellettuale occidentale-  i privilegi di Gesù non necessitano, per l’Islam, di alcun tipo di spiegazione particolare: se “Dio tutto può”, infatti, non ha alcun senso ragionare sul perché Egli abbia accordato ad un certo profeta determinati privilegi, poiché, come dice un detto popolarissimo nel mondo islamico, “Dio ne sa di più”.

La stessa devozione popolare islamica, in effetti, non ha mai sviluppato una particolare attrattiva verso la sublime ma forse troppo “celestiale” figura del Figlio di Maria, a cui ha sempre preferito, oltre a Muhammad, figure più “terrene” e comprensibili quali quella di Mosé o di Abramo. Solo nell’ambito mistico del Sufismo, si è sviluppata una devozione verso Gesù talmente forte da essere definito come il Sigillo della Santità (Katìm al-awwalya), così come Muhammad è Sigillo della Profezia (Katìm al-Nabìyya).     

Solo di rado, la mentalità musulmana è portata a interrogarsi più a fondo sulla figura del profeta Issa: e a volte, questa riflessione può condurre a conseguenze davvero sorprendenti. Qualche anno fa, una donna musulmana libanese[8] sposata ad un saudita e studentessa di teologia presso un’università religiosa della penisola araba, decide di produrre una tesina di laurea sul tema I profeti nel Corano e Cristo. A partire da una riflessione sui testi del Corano, la giovane studentessa arriva alla conclusione che il profeta Gesù non può essere considerato solo come un profeta ma, deve possedere almeno due nature: quella umana e quella angelica. La ragazza supera l’esame, ma i suoi professori la “tengono d’occhio” a causa delle sue affermazioni temerarie, fino a quando contro di lei viene lanciata una vera e propria accusa di apostasia. Costretta a difendersi dai suoi accusatori in un tribunale religioso locale, la giovane riesce per più di un’ora e mezza a rintuzzare ogni accusa solo a partire dai testi coranici. Prosciolta dall’accusa, la donna chiederà in seguito il battesimo: il suo nome arabo era e resterà …Maryam.

 

 


 

[1] Gv. 8, 58

[2] Maryam è l’unico nome femminile citato nel Corano (circa 40 volte).

[3] Gli hadith sono i detti e i fatti del profeta Muhammad, raccolti dai suoi compagni e trascritti successivamente. Subito dopo il Corano, rappresentano la più importante fonte per la dogmatica ed il diritto islamici. 

[4] Pur essendoci alcune analogie, l’idea del “tocco di Satana” al momento della nascita d’ogni uomo non và confusa con quella cristiana del Peccato Originale.

[5] 1Cor. 1, 23

[6] At. 1, 11

[7] Eresia dei primi secoli, nata in Tracia ma diffusasi soprattutto nella Penisola Araba, e che tributava un culto divino a Maria.

[8] Il racconto dell’evento qui accennato si può trovare su Camille Eid, Musulmana scopre il mistero di Cristo insito nel Corano e si converte, in www.avvenire.it del 29.05.08

Il serpente piumato e la Madre di Dio. La “misteriosa storia” dell’evangelizzazione del Messico

La vicenda che stiamo qui per raccontare potrebbe sembrare la trama di uno di quei romanzi “misteriosi” che oggi vanno tanto di moda: parleremo infatti del mitico sovrano di un regno leggendario, di un dio enigmatico, di una profezia apparentemente realizzatasi, di un’apparizione e di un segno miracoloso che ancora oggi si concede ai nostri occhi (e persino all’indagine dei microscopi) e di nomi che sembrerebbero già di per sé evocare presagi. L’unica differenza tra questa vicenda e quelle romanzate in tanti libri e che qui non siamo nel mezzo di una trama inventata, ma di una storia vera: una storia misteriosa fatta di segni e di simboli che sfidano la nostra intelligenza e anche, in quanto cristiani, la fede che affermiamo di confessare; una storia che, al tempo stesso, si sposa indissolubilmente (e in modo determinante) con la storia cosiddetta “ufficiale”, quella narrata sui libri di scuola e di cui gli studiosi credono spesso di conoscere così bene cause e dinamiche. Lo scenario della vicenda è quello della Conquista e dell’Evangelizzazione delle Americhe, e in particolar modo di quel centro culturale e spirituale del Nuovo Mondo che fu, per secoli, il Messico.

Un re divinizzato. Una profezia. Una data.

La Conquista del Messico da parte degli spagnoli è uno di quegli eventi che ancora oggi suscitano opinioni violentemente discordi: da una parte, infatti, a iniziare da quella “Leggenda Nera” anticattolica nata nell’Inghilterra protestante [1] e ripresa dall’Illuminismo, si afferma che l’impresa sarebbe stata, essenzialmente, un infame massacro; dall’altra, una certa apologetica cattolica di stampo tradizionalista presenta questo evento come un’avventura gloriosa, una liberazione degli stessi indigeni dal giogo dell’idolatria e dalla pratica terrificante dei sacrifici umani, praticati su larghissima scala soprattutto dagli Aztechi (sottovalutando, però, i metodi tutt’altro che cristiani e le brutalità indubbiamente commesse dai conquistatori, le cui conseguenze hanno pesato fino ad oggi sullo sviluppo delle società latino-americane). Queste posizioni così unilaterali, tuttavia, oltre a non rendere giustizia alla verità storica, non sembrano poter cogliere, nel loro polemico orizzontalismo, quell’aspetto realmente “misterioso” (inteso nel senso originario di verità divina che si manifesta nella realtà) che pure la vicenda sembra possedere. La Conquista di quello che è oggi il Messico ha inizio nell’anno 1519 –nello stesso periodo in cui, dall’altra parte dell’oceano, un oscuro monaco tedesco di nome Luther stava gettando le basi per la più drammatica divisione che il mondo cristiano abbia mai conosciuto. I conquistadores, qualche centinaio di avventurieri partiti dalla Spagna e dalla vicina Cuba, erano guidati da un hidalgo di nome Hernan Cortez: uomo animato da un profondo spirito cavalleresco e da un coraggio contagioso, ma anche, all’occorrenza, cinico e privo di scrupoli. All’incredibile successo di Cortez e dei suoi –che in tre anni conquistarono un impero azteco che contava più di 8 milioni di abitanti- contribuirono naturalmente vari fattori: oltre alla superiorità tecnologica data dalle armi d’acciaio e dai cannoni, è dimostrato che numerose popolazioni indie preferirono schierarsi con gli Spagnoli, piuttosto che rimanere sotto il potere degli Aztechi, che utilizzavano i popoli sottoposti come “terreno di caccia” per gli innumerevoli sacrifici umani richiesti dalle loro sanguinarie divinità [2]. Ma c’è dell’altro. I cronisti dell’epoca, infatti, testimoniano come il mondo messicano alla vigilia della Conquista fosse attraversato da un’attesa che potremmo definire “messianica”: un’attesa in buona parte collegata alla profezia del ritorno del re-dio Ce Acatl Quetzalcoatl.

Ma chi era Quetzalcoatl?

Nella mitologia azteca, Quetzalcoatl è una figura divina di importanza fondamentale: il suo nome, che può essere tradotto come Serpente Piumato[3], indica anche visivamente il concetto di unione fra cielo e terra, fra spirito e materia, fra umano e divino. Unica divinità del pantheon pre-ispanico a non richiedere sacrifici umani, era ricordato dagli indigeni per aver donato agli uomini il calendario e la coltivazione del mais. Una delle leggende sulla sua nascita, racconta di come la dea Coatlicue [4], personificazione della natura madre e dell’elemento femminile, abbia concepito verginalmente il dio, grazie ad un frammento di giada che l’avrebbe ingravidata. Il mito di Quetzalcoatl, peraltro, si confonde fino a sovrapporsi con quello di un personaggio semi-storico che porta lo stesso nome: il 10° re dei Toltechi [5], Ce Acatl Quetzalcoatl, che sarebbe vissuto verso il X secolo della nostra era (Ce Acatl, ossia “1 canna” era l’anno di nascita del re, secondo il calendario preispanico). L’antico sovrano era ricordato dagli Aztechi come il protagonista di una vera e propria età dell’oro: mecenate delle arti, benefattore del suo popolo, riformatore religioso (avrebbe abolito i sacrifici umani, sostituendoli con offerte di tortillas di mais), curiosamente descritto in alcune tradizioni come “chiaro di pelle”[6], Ce Acatl sarebbe caduto in disgrazia a causa della casta sacerdotale conservatrice (rappresentata nel mito dal dio infero Tezcatlipoca, Specchio Fumante), che lo avrebbe costretto ad abbandonare il trono. Accusato di aver sedotto una sacerdotessa, Quetzalcoatl sarebbe fuggito e, secondo alcune versioni della leggenda, si sarebbe imbarcato sulle sponde del Golfo del Messico vicino all’attuale Veracruz, promettendo però di tornare proprio nell’anno Ce Acatl corrispondente a quello della sua nascita. Ora, essendo il calendario azteco costituito da cicli di 52 anni, l’anno Ce Acatl finiva per ricadere ad ogni inizio ciclo: così, ad esempio, la fatidica data poteva cadere nell’anno 1414, nel 1467, ma …anche nel 1519! Proprio in quest’ultima data, su quella stessa costa del Golfo da cui il mitico re sarebbe partito, giunsero gli Spagnoli di Cortez: strani esseri dalla “pelle chiara” come il re-dio, portatori di una fede nuova, che gli Aztechi non poterono non scambiare, almeno inizialmente, per il loro sovrano ritornato dall’oceano orientale… D’altronde, furono gli stessi messicani, incerti sull’identità dei nuovi arrivati da loro chiamati teules[7], a riempiere di doni preziosi e a condurre i futuri dominatori fin dentro la loro capitale, la favolosa Tenochtitlan[8]. La coincidenza tra questa profezia e la data dell’arrivo di Cortez, d’altro canto, colpì profondamente non solo gli Aztechi, ma gli stessi conquistatori spagnoli, che la interpretarono da subito come un “segno provvidenziale”. Questa è però solo una delle enigmatiche coincidenze di questa “storia nascosta” eppure reale che stiamo raccontando.

– Una Madre Misericordiosa per i figli degli sconfitti.

Gli Aztechi non ci misero molto a capire che i nuovi arrivati non erano divinità venute a riportare l’età dell’oro: la Conquista, in effetti, fu contraddistinta da episodi di ferocia e di cinica brutalità, a cui fece seguito un periodo ancor più drammatico, in cui l’universo indigeno entrò in una crisi terribile, non solo a causa delle violenze dei nuovi padroni o delle malattie importate dall’Europa, ma soprattutto a causa del crollo di un’intera visione del mondo. Un intero popolo, infatti, aveva perso, con la sconfitta, anche il senso della sua esistenza in questo mondo, senza aver avuto il tempo e il modo di acquisire i modelli culturali dei dominatori; e le conseguenze, come testimoniano i documenti dell’epoca, furono drammatiche oltre l’immaginabile[9]. Le stesse conversioni al Cristianesimo, nei primi anni, furono pochissime, nonostante la presenza in Messico di uomini di grandissima carità e di nobile apertura mentale come il frate francescano Toribio de Benavente: uno dei primi europei a rivolgersi con inedito rispetto a ciò che c’era di valido nella cultura dei popoli indios; proponendo, tra l’altro, una (forse) ingenua ma significativa identificazione tra Ce Acatl Quetzalcoatl, il “re dalla pelle chiara” nemico dei sacrifici umani, e la figura dell’apostolo missionario San Tommaso. Gli sforzi umani dei missionari, tuttavia, non ebbero inizialmente grande successo, e per anni la fede di Cristo rimase essenzialmente la “religioni dei vincitori”, che poca attrazione esercitava sulle masse disperate dei figli degli sconfitti. Tutto questo fino all’anno 1531, quando ancora una volta la nostra storia si sposa col mistero. Protagonista dell’evento che porterà all’entusiastica adesione degli sconfitti alla fede cristiana fu un uomo di origine indigena -uno dei pochi convertiti- di nome Cuauhatlatoa (Aquila Parlante), battezzato con il nome di Juan (Giovanni) Diego per analogia tra il suo nome azteco e il simbolo dell’evangelista Giovanni, che è appunto un’aquila. Fu a quest’uomo che (un altro “segno”?[10]) aveva ricevuto in nome quello del Discepolo Prediletto –lo stesso a cui Gesù, dalla croce, aveva affidato la madre Maria- che fu donata la grazia straordinaria di essere strumento di un evento unico, di una vera e propria teofania, che avrebbe cambiato per sempre la storia di un intero emisfero. Il giorno del solstizio d’inverno del 1531, infatti, toccò a Juan Diego passare per la collina di Tepeyac –vicino Città del Messico- ed assistere all’apparizione di una “Signora” dolcissima che si presenterà contemporaneamente come la Vergine Maria e la Inninantzin huelneli (Madre dell’Antico Dio) o, come anche riportano le tradizioni più antiche, “Madre misericordiosa tua e di tutti coloro che abitano questa terra”[11]. Per volere della divina Signora, Juan Diego comunicò al vescovo Juan de Zumàrraga l’apparizione ma, al momento di aprire davanti all’ecclesiastico il suo rozzo mantello di fibra d’agave, apparve una figura di straordinaria bellezza rappresentante la Signora dell’apparizione. Questa figura, conosciuta come la Madonna di Guadalupe, è ancora oggi una delle reliquie più affascinanti ed inspiegabili della cristianità, seconda solo alla Sindone per importanza e per gli studi scientifici a cui è stata sottoposta. Quest’immagine, infatti, continua ancor oggi a sbalordire fedeli, scienziati e semplici curiosi per la sua straordinaria conservazione (si tratta di un fragile telo di agave rimasto intatto dopo aver attraversato 500 anni, un attentato dinamitardo[12] e un incidente causato da caduta di acido nitrico[13]); l’assenza di pigmenti rilevabili e, soprattutto, la presenza inspiegabile di un gruppo di figure (il Vescovo Zumàrraga e i suoi uomini?) nella pupilla della Signora (immagini rilevate solo in tempi recenti con l’ausilio di microscopi e computer).

– Il linguaggio misterioso del “Fiume Nascosto”.

Se grande è lo sbalordimento che il manto di Guadalupe sa ancor oggi trasmettere agli studiosi come ai semplici fedeli, ben più grande, tuttavia, fu la vera “rivoluzione” che questo miracoloso segno suscitò nell’animo morente del popolo indio. Altri messaggi, infatti, altri “segni” erano contenuti in quel povero tessuto d’agave: segni che nessun microscopio può aiutare a decifrare –e che anche gli Spagnoli dell’epoca ignorarono- ma che si impressero a fuoco nell’anima dei figli degli sconfitti, trasformando il loro destino. Sono segni, questi, che appartengono a l’altra storia, la storia nascosta e sotterranea che stiamo seguendo, ma che parlano un linguaggio fin troppo chiaro per chi, come gli Indios, era abituato a vivere in un universo di simboli. Innanzitutto il luogo dell’evento. La collina del Tepeyac, infatti, era sacra da tempo immemorabile alla dea Coatlicue, la madre terra generosa ma terribile che per i popoli del Mesoamerica rappresentava il femminino sacro in tutte le sue forme; la stessa dea da cui era nato verginalmente il dio Quetzalcoatl. Lo stesso nome “Madonna di Guadalupe”, che indicava un’immagine molto venerata nella Spagna medievale, fu forse scelto proprio per la sua assonanza con il nome indicante l’antica Madre Divina azteca. E’ sul mantello stesso, tuttavia, che il linguaggio simbolico assume un significato senza pari, precluso come abbiamo detto agli occupanti spagnoli, ma ben comprensibile da una civiltà geroglifica come quella degli Aztechi: un “linguaggio di segni” come quello che andiamo via via scoprendo dietro tutta questa vicenda. Sul manto della Signora, infatti, compare una complessa mappa di stelle che, secondo i più recenti studi, rappresenta proprio l’aspetto del cielo visibile dal Tepeyac durante il Solstizio d’inverno del 1531: ivi appare la costellazione della Vergine in primo piano proprio all’altezza delle mani della Vergine. Ma il concetto più alto e contemporaneamente più chiaro è espresso da un piccolo geroglifico, il Nahui Ollin, posto all’altezza del ventre: si tratta di un piccolo fiore a quattro petali, che nell’antica scrittura pittografica designava il Centro del Mondo o la Divinità più antica: il significato che un indio poteva dunque percepire era, inequivocabilmente, quello di una Madre che …sta per partorire la Divinità. Il Mantello di Guadalupe è dunque un perfetto esempio di profonda inculturazione spirituale, la foce di un lungo percorso sotterraneo che, leggendo i simboli, sembrerebbe attraversare come un fiume carsico il cuore di una cultura pur così diversa dalla nostra. Un’inculturazione non umana ma, se si crede all’evento del Tepeyac, direttamente divina, in un’epoca storica in cui era molto di là da venire la dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, e troppo lontane nel passato le riflessioni patristiche sui “semi del Verbo”. Una storia nascosta eppure reale che forse, quale ultimo “segno”, anche il nome “Guadalupe” sembra voler suggellare: un nome di antica origine araba, come molti nella topografia della penisola iberica, ma dal significato molto evocativo …Fiume Nascosto. [

Note

1] E’ paradossale che questa “leggenda nera” sia nata proprio in quel mondo anglosassone che, contemporaneamente, sterminava gli irlandesi e ripuliva con puritana determinazione il Nord America dalle popolazioni native “pagane”.

[2] Il sacrifico umano era giustificato presso tutti i popoli mesoamericani come una “riparazione” o “penitenza” (nextlahualli ), in ricordo del “Sacrificio Primordiale” attraverso il quale gli dei avevano dato vita all’universo. Presso gli Aztechi, tuttavia, questa pratica raggiunse dimensioni realmente abnormi; si è calcolato che dalle 5.000 alle 20.000 vittime umane venissero sacrificate ogni anno e ogni divinità richiedeva un differente supplizio: estirpazione del cuore, scuoiamento, affogamento, ecc.

[3] Letteralmente il Serpente (coatl) Quetzal. Il Quetzal è un meraviglioso uccello della foresta le cui piume verdi veniva spesso utilizzate per confezionare splendidi abiti destinati prevalentemente ai Sovrani.

[4]La Dea Coatlicue, letteralmente Gonna di Serpenti (i serpenti simboleggiano qui le forze primordiali della natura), non mancava, come tutte le divinità azteche, di un aspetto terrificante: le immagini della dea la raffiguravano con una cintura di mani umane mozzate (qualcosa di analogo alla dea Kali degli indù).

[5] I Toltechi erano una popolazione che aveva preceduto gli Aztechi nella Valle del Messico: l’apogeo del loro regno dovrebbe cadere verso il X e XI sec. D.C.

[6] Questo particolare della “pelle chiara” attribuita al re Quetzalcoatl nelle leggende ha dato origine ad una ridda di interpretazioni –dalle più interessanti e plausibili, alle più fantastiche. C’è chi di volta in volta ha visto, in questo personaggio, un monaco irlandese giunto in Messico prima dell’anno 1000, un prete scandinavo, un cavaliere templare o persino, come immaginarono i primi missionari francescani, un apostolo di Gesù (in particolare San Tommaso). Il mistero rimane, anche perché la leggenda degli “dei bianchi venuti da lontano” è presente anche in altre culture pre-colombiane, come i Maya, gli Incas, ecc.

[7] Secondo Bernal Diaz del Castìllo, soldato di Cortèz e autore della più completa cronaca della Conquista, era questo il nome che i Mexica (cioè gli Aztechi) attribuivano agli Spagnoli (evidente correzione del termine nahuatl teotl, che vuol dire divinità). [

8] Sulle cui rovine è sorta Città del Messico.

[9] “Molti Indios si impiccarono, altri si lasciarono morire di fame, altri si avvelenarono con erbe, alcune madri uccisero i loro bambini” (cit. in V. Elizondo, Guadalupe, madre della nuova creazione, Assisi 2000, p. 55). [

10] A titolo di curiosità, ricordiamo che le più antiche fonti raccontano che la città di provenienza di Juàn Diego era Cuauhtitlàn, nota nel mondo azteco come sede dei guerrieri dell’Ordine dell’Aquila (cfr. A.F.Castanares, Vida del Beato Juan Diego, in Historica, n° 2, Giugno 1991). [11] Cit. in AA.VV., La Madonna di Guadalupe. Dono di Dio o dipinto d’uomo?, Cinisello Balsamo (Mi), 2000, p. 2 [12] Nel 1921, durante la feroce persecuzione massonica contro i Cattolici in Messico, l’immagine fu vittima di un attentato dinamitardo in cui rimase illesa perché un grosso crocefisso di metallo “assorbì” l’onda d’urto dell’esplosione.

[13] Nel 1836, durante una ripulitura della teca, alcuni operai versarono inavvertitamente acido nitrico sul tessuto: anche in questo caso, il secolare e fragilissimo mantello, invece di sfilacciarsi rimase illeso.

“A che ora è la fine del mondo…”.

21 Dicembre 2012, tra profezia, mito e montatura

E’ ormai una tradizione consolidata della società post-moderna, che facciano periodicamente la loro comparsa, nati apparentemente dal nulla, dei veri e propri “miti di massa” capaci di coinvolgere (e in qualche caso sconvolgere) uomini e donne d’ogni età e d’ogni credo; miti spesso amplificati a dismisura (o ad arte?) da giornali e mass media e di cui è molto difficile ricostruire le dinamiche o gli eventuali nuclei di verità in essi contenuti.

Un esempio da manuale di questo tipo di “fascinazioni collettive” è quello riguardante l’ormai fatidica data del 21 Dicembre 2012, che secondo una vulgata diffusasi con una velocità e una capillarità sconvolgente, rappresenterebbe un importante momento di cambiamento (o di sconvolgimento) per il genere umano, se non addirittura -come afferma la versione più gettonata- la data stessa della Fine dei Tempi.

L’attenzione a questa data, derivata come vedremo da alcune rare e piuttosto oscure fonti maya, sembra destinata a crescere viepiù che ci si avvicina al “fatale momento”, generando un fenomeno culturale che, a partire inizialmente da una serie di film e di produzioni televisive, ha ormai generato veri e propri filoni di letteratura e di saggistica, oltreché una quantità indefinita di articoli e siti web ad esso dedicati: un vero e proprio mare magnum, dove è pressocché impossibile, per il non addetto ai lavori, barcamenarsi o discernere quanto ci sia di realmente degno d’interesse da quanto sia invece il frutto di illazioni e di montature.

Questo è il motivo che ci ha spinto, in quanto studiosi di miti apocalittici e di questioni storiche e religiose, ad avvicinarci a questa tematica, nel tentativo di fare un po’ di chiarezza, per noi stessi oltre che per chi ci legge, su quella che ormai in molti chiamano “la questione del 21 Dicembre 2012”.

Cosa hanno detto veramente i Maya?

Per far luce sul mistero, vero o presunto, del 2012, é necessario innanzitutto risalire alle fonti originarie, facendo al contempo piazza pulita (e non è facile) di tutta la montagna di illazioni generate dalla cultura di massa; il che, equivale a rispondere alla domanda: cosa hanno affermato i Maya riguardo al 21 Dicembre del 2012?

La data in questione, in realtà, è stata ricavata a partire da uno dei tre calendari utilizzati dall’antica popolazione amerindia, il cosiddetto Lungo Computo, un calendario ciclico in cui il tempo è diviso in 13 periodi di 144.000 giorni (detti B’aktùn) per un totale di 1.872.000 giorni (ossia, per l’esattezza, 5.125 anni). Il ciclo attualmente in corso, sarebbe cominciato in una data traducibile nel nostro calendario con l’11 (o il 13) agosto del 3.114 a.C. e dovrebbe concludersi, per l’appunto, il 21 Dicembre del 2012.

Il 21 Dicembre del 2012, pertanto, è il giorno indicato dai Maya per la fine di un loro ciclo calendariale: occasione durante le quali i popoli mesoamericani officiavano imponenti feste religiose. E’ anche vero, d’altronde, che in una visione sacralizzata e simbolica del tempo come quella dei Maya (ma anche di altri popoli coevi come gli Aztechi), ogni fine di un ciclo temporale era visto, con ogni probabilità, come un “momento critico”, potenzialmente foriero di accadimenti speciali per il popolo e per il cosmo.

Ma qual’era, seppure c’era, l’accadimento previsto dai Maya per l’ormai prossimo 2012? Per sgombrare il campo dalle interpretazioni fasulle, dobbiamo innanzitutto prendere atto che il 21 Dicembre del 2012 non sembrerebbe affatto esser stato inteso dai Maya come il giorno della Fine dei Tempi: e questo può essere dimostrato, molto semplicemente, dall’esistenza di iscrizioni contenenti date di molto posteriori a quella in questione (1) .

Capire invece, in positivo, quale evento la cultura maya collegasse alla fatidica data è molto più difficile: i documenti antichi in cui si ritrova la data del 2012 sono infatti esigui (di certo, ve n’è solo uno); né i discendenti attuali dei Maya sembrano poterci venire in aiuto. I Maya odierni infatti -prescindendo da quelli più “contagiati” dalle mode New Age di origine nordamericana- non sembrano conservare tradizioni specifiche inerenti il 2012, e appaiono anzi piuttosto infastiditi da tutto questo polverone mediatico, da essi considerato nulla più che una classica moda all’occidentale (2).

Per quanto riguarda le testimonianze più concrete, al contrario, esiste solo un’iscrizione, scolpita sul Monumento 6 del sito maya di Tortuguero (nello stato messicano del Tabasco), sicuramente riferibile alla fine del 13?B’aktùn (quindi proprio al 21 Dicembre del 2012), in cui, con molta approssimazione (ricordiamo che la scrittura maya è di tipo ideografico) e fermo restando la perdita di varie parti del testo, è possibile leggere: “il tredicesimo pik finirà il Quattro Ahaw, il terzo del K’ank’in, (…) accadrà. (…) la discesa di Bolon Yokte K’u, nel (…)”.

Alla luce del testo così come ci è giunto, dunque, è plausibile immaginare che la casta sacerdotale maya ipotizzasse per la data del 21 Dicembre 2012 un “evento” di qualche tipo: la frammentarietà e unicità della fonte, tuttavia, non permette facilmente di stabilire di che tipo di evento si tratti, né se riguardi l’ambito religioso o quello cosmico e nemmeno se esso si dovesse riferire, nello specifico, solo al popolo maya o abbia un carattere universale.

L’unico riferimento chiaramente leggibile è quello alla “discesa” o manifestazione di Bolon Yokte K’u, inquietante divinità dai caratteri decisamente inferi, solitamente messa in relazione con la guerra e il caos.

Questo, dunque, è il nucleo fondante attorno al quale si è venuto a costruire il mito moderno del 2012: il ché, indipendentemente dal valore o dalla credibilità che ognuno può essere disposto o meno a riconoscere alle profezie degli antichi, sembra decisamente insufficiente a giustificare l’enorme fenomeno mediatico che da esso si è generato.

– Come nasce il mito del 21 Dicembre 2012?

In realtà, l’enorme polverone apocalittico sollevato su questa ormai celeberrima data, trova giustificazione non tanto nelle tradizioni degli antichi maya quanto in dinamismi culturali e sociologici tipici della nostra civiltà. Da questo punto di vista, se vogliamo, quello della Fine dei Tempi nel 2012 è solo l’ultima, in ordine di tempo, di una lunga serie di leggende pseudo-esoteriche o pseudo-religiose che hanno inondato, a scadenze quasi regolari, la cultura di massa, consolidatesi e giustificatesi a partire da presunte fonti tradizionali di fatto esigue o addirittura inesistenti (come è il caso, ad esempio, del celebre mito-gossip riguardante il “matrimonio” fra Gesù e la Maddalena, reso noto da romanzi e film ma privo di qualsivoglia pezza d’appoggio a livello storico -3- ).

Il mito del 2012, in realtà, fa la sua apparizione massmediatica con la serie-cult X-Files, dove nell’ultima puntata viene rivelato come il 22 Dicembre del 2012 sia stato scelto da una sinistra razza di alieni come data per iniziare l’invasione della Terra. Successivamente, faranno seguito una serie di film a carattere apocalittico, tra cui ricordiamo: 2012 – L’avvento del male, pellicola del 2001, e il recentissimo 2012 di Roland Emmerich; senza dimenticare che anche nell’intrigante cult-movie Io sono leggenda la trama si svolge …proprio nel fatidico 2012!

Parallelamente a questa produzione destinata alla massa, sono nate le opere “di nicchia”, i testi specifici, una moltitudine di pubblicazioni uscite per l’occasione dove, come spesso accade in questi casi, l’attenzione per le fonti rimane scarsa quando grande è invece la tentazione di scopiazzare acriticamente i testi altrui, reiterando in tal modo sviste, errori o vere e proprie menzogne. All’antico e poco chiaro riferimento contenuto in una antica stele maya si sono sedimentate, in tal modo, suggestioni e notizie quanto mai fantasiose, in una ridda di pseudo-rivelazioni che vedrebbero la data del 2012 indicata nelle tradizioni sacre d’ogni tempo e luogo, in versetti biblici peraltro mai citati espressamente e, naturalmente …nelle immancabili Centurie di Nostradamus. Tutti riferimenti, sia ben chiaro, assolutamente immaginari e inesistenti.

– “A che ora è la fine del mondo…” ?

La critica, necessaria e legittima, alle mistificazioni pseudo-esoteriche che di quando in quando la cultura di massa propina alle moltitudini come mangime per galline non può significare, tuttavia, allinearsi su quelle posizioni ingenuamente razionaliste che vorrebbero una storia spiegabile solo con gli strumenti, invero limitati, della scienza “positiva”. Come studiosi di antropologia, d’altronde, sappiamo benissimo che la storia dell’umanità è ricchissima di misteri affascinanti per nulla riducibili al banale materialismo imposto per decenni dalla “cupola ideologica” che ha controllato università, scuole e centri di ricerca.

Proprio perché coscienti di questo, tuttavia, noi sentiamo a maggior ragione la necessità di discernere tra misteri veri e montature, tra reali spiragli di luce e barlumi ingannevoli che nulla ottengono se non l’effetto di moltiplicare a dismisura la confusione imperante. Nel mito apocalittico del 2012, d’altronde, non possiamo non riconoscere anche l’eco di una diffusa “percezione collettiva” che, di fronte alla crescente instabilità sociale, economica e soprattutto spirituale, del nostro mondo, percepisce, forse per la prima volta nella storia della modernità, la terribile ma veritiera consapevolezza della costitutiva fragilità della condizione umana, dell’illusorietà di tutti i miti di progresso e di tutte le promesse di “paradiso in terra” che dall’Ottocento in poi ci sono state incessantemente propinate. Ed è una consapevolezza, questa, che non necessariamente dev’essere vista solo come negativa.

Come cristiani, peraltro, di fronte ad una “provocazione” come quella del 2012, non possiamo non rispondere se non con le parole stesse del Maestro: “Ma quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno li sa, neppure gli angeli del cielo, neppure il Figlio, ma il Padre solo” (4); al tempo stesso, però, non dimentichiamo che fu sempre lo stesso Cristo ad invitare i suoi a “leggere i segni dei tempi”, a sforzarsi di comprendere quegli “indizi” (a volte nemmeno troppo nascosti) che possono aiutarci a capire il nostro tempo: “Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete giudicarlo?” (5).

E come non considerare, allora, il mito del 2012 anche alla stregua di una salutare provocazione per noi Cristiani che troppo spesso sembriamo aver smarrito, dietro la nebbia dell’ecclesialy correct, quella “tensione escatologica” che pure dovrebbe essere parte costitutiva del Cristianesimo?

Una provocazione che, molto più che dal nebuloso 2012, potrebbe venire a noi dalle parole di uno dei pochi “saggi maya” non ancora divorato dal fumo della New Age: il vecchio Chan K’in (Piccolo Sole) della tribù dei Lacandones. Piccolo Sole, da vero saggio, non sa e non vuol conoscere la data della Fine (che per lui solo il Creatore può decidere), ma da buon saggio sa, per dirla con il Vangelo, “giudicare l’aspetto della terra e del cielo“, e con le sue semplici parole esprime il suo sentore che è anche un presagio per il nostro mondo: “Tutto si secca, non solo qui, ma anche nelle terre alte, non solo in questo cielo ma anche nei cieli superiori. E’ il castigo di Hachakyum (il Creatore, n.d.a.). C’è molto freddo nel mondo d’oggi, un freddo che è sceso molto dentro, fino al cuore di tutte le creature viventi” (6).

Forse, per vedere in azione l’inquietante Bolon Yokte K’u (qualunque sia il nome che si vuol dare “all’entità” che fomenta l’odio e le divisioni), non c’è bisogno di attendere il 2012: forse nei mille conflitti che devastano il nostro mondo, che dividono i popoli, le famiglie e soprattutto le anime di un mondo grasso e disperato (o misero e disperato, qual’ora non si faccia parte del ristretto club delle nazioni accaparratrici), c’è già più che un “segno” di quei tempi che dovremmo saper giudicare.

Note:

[1] Cfr. L.Schele/D.Freidel, A Forest of Kings. The Untold Story of the Ancient Maya, New York 1990, p. 82. Esisterebbe persino un’iscrizione in cui sembra si faccia riferimento ad una data per noi traducibile con il 4772 d.C.

[2] Cfr. P.Manzo, Noi Maya, già stufi del 2012, La Stampa Web , 13 Ottobre 2009.

[3] Per una confutazione storica e letteraria del mito New Age della Maddalena vista come sposa di Cristo, cfr. il nostro: Maria Maddalena: dea, sposa o testimone? in G.Marletta, La riscoperta del Graal, Roma 2007, pp. 53-68

[4] Matteo 24, 36

[5] Luca 12, 56

[6] Cit. in G.Marletta/M.Polia, Apocalissi. La fine dei tempi nelle religioni, Milano 2008, p. 235

Il tempo e la Grazia

Una riflessione cristiana su Cicli Cosmici e Tempo Lineare

Come ogni modello umano, anche la particolare prospettiva dalla quale viene percepito il fenomeno “tempo” risente, inevitabilmente, di un più generale modo di percepire la vita ed il mondo nel suo complesso.

Non è un caso, ad esempio, che proprio a partire dall’Illuminismo, l’Occidente abbia finito per elaborare e poi sposare definitivamente una particolare visione del tempo, quella Lineare, che ben si coniugava con il nascente mito del progresso indefinito elaborato durante il cosiddetto Secolo dei Lumi. Se tutta la realtà -sia essa fisica, biologica, culturale e persino spirituale- è vista infatti come dominata dalla necessaria Legge dell’Evoluzione – che tutto rimescola e tutto trasforma in prospettiva di un ineffabile “progresso”- è evidente che la storia dell’umanità non può che essere vista se non come un percorso lineare e relativamente continuo, in cui il passato è incessantemente superato (e migliorato) dal futuro.

E’ questa, infatti, la visione della realtà che è alla base di ideologie come il Comunismo, il Darwinismo, lo Scientismo: una visione, per altro, parzialmente entrata in crisi negli ultimi decenni, sulla scia dei drammatici fallimenti e delle vere e proprie catastrofi causate dai grandi sistemi ideologici durante la modernità. Quello Lineare, tuttavia, non affatto l’unico modello di tempo che l’uomo abbia elaborato e conosciuto nel corso della sua storia: gran parte delle civiltà pre-moderne, ad esempio, adottavano come modello quello del Tempo Ciclico, una particolare visione presente anche tra i popoli nell’Europa e nelle Americhe pre-cristiane, ma di cui la dottrina induista dei Cicli Cosmici rappresenta certamente la forma più compiuta e sofisticata. Per comprendere la concezione ciclica del tempo è necessario innanzitutto capire che essa è basata, essenzialmente, su una prospettiva cosmocentrica, per cui tutto ciò che esiste (umanità compresa) è condizionato da un divenire analogo a quello delle stagioni naturali.

Da tempi immemorabili, infatti, i popoli antichi avevano osservato come esistessero situazioni della realtà in cui sembrava agire una sorta di legge ciclica che accordava fra loro non solo particolari eventi della natura (e determinate trasformazioni di tipo catastrofico 1), ma anche il sorgere e il declinare dei popoli e delle civiltà. Nella concezione indù, la più elaborata, il mondo è fatto scaturire dalla Divinità attraverso una serie indefinita di Cicli Totali (detti kalpa) ognuno dei quali è suddiviso in 14 Cicli Cosmici detti manvantara. Ogni singolo manvantara, o Ciclo Cosmico, è suddiviso a sua volta, analogamente alle stagioni dell’anno, in quattro Ere (o yuga): ad ogni yuga corrisponderebbe un sempre maggiore allontanamento dell’uomo e del cosmo dalla Divinità causa di un’arrestabile decadenza fisica e spirituale culminante nel pralaya (dissoluzione o distruzione catastrofica) del mondo, i cui “semi”, tuttavia, vengono provvidenzialmente preservati in prospettiva del successivo Ciclo Cosmico.
Nel testo sacro del Bhagavata Purana (2) , è descritta con precisione l’alternarsi degli yuga all’interno dei Cicli Cosmici. La prima Età è detta Krita Yuga, corrispondente alla stagione della primavera, dove l’umanità naturalmente sapiente ignora la malvagità e vive in comunione con la Divinità; la seconda Era è il Treta Yuga, dove inizia la decadenza dell’uomo, corrispondente all’estate; la terza è il Dvapara Yuga, dominata dalla violenza, corrispondente all’autunno; ed infine, il Kali Yuga (o Età Oscura) – al termine del quale ci troveremmo attualmente – corrispondente all’inverno, caratterizzato dal dominio delle basse passioni e dal disordine morale e destinato a concludersi con la dissoluzione finale catastrofica. Il modello indù, peraltro, è strettamente analogo ad altre antiche visioni cicliche, una su tutte quella greco-classica, descritta per primo da Esiodo ne Le opere e i giorni, e in cui il tempo è similmente diviso in Quattro Età corrispondente ai quattro metalli fondamentali: Oro, Argento, Bronzo, Ferro.

La visione ciclica dell’Induismo, nel suo necessario determinismo e a-finalismo, presuppone d’altronde una particolare visione del mondo visto come “gioco cosmico”, come mera manifestazione della Maya (l’Illusione): compito dell’uomo, infatti, è essenzialmente quello di sciogliere i legami con l’inconsistenza del mondo e risalire allo Spirito Divino (Atman), possibilità concessa anche nell’oscuro Kali Yuga, a patto di rimanere fedeli ai doveri (dharma) presupposti dalla propria casta di appartenenza. Questo non significa che la tradizione indù non conosca il concetto di Provvidenza: questa “funzione” divina è infatti assicurata dalle periodiche Discese (avatara 3) del Divino che, manifestandosi di età in età in forme visibili, assicura l’esistenza del cosmo e dell’ordine sociale. Sarebbe tuttavia impossibile, in ambito indù, parlare di una qualche “finalità” della creazione né, tantomeno, di un “progetto” divino su di essa: essendo l’esistenza dell’illusione cosmica null’altro che la necessaria proiezione delle infinite possibilità divine. Alla luce di quello che è stato detto, pertanto, si evince con chiarezza come la visione cristiana del tempo non sia completamente assimilabile né al modello Lineare moderno né alla visione Ciclica dell’Oriente o dell’antichità pre-cristiana, pur essendoci punti di contatto con ambedue.
Da un certo punto di vista, infatti, l’idea che storia abbia un Fine (in specifico, l’Incarnazione unica e irripetibile del Verbo), avvicina la visione cristiana alla concezione Lineare; al tempo stesso, tuttavia, la lettura biblica e cristiana del tempo condivide pienamente, con le altre culture tradizionali, l’idea di una progressiva decadenza spirituale dell’uomo, che è la negazione in termini di ogni moderno “mito del progresso”. A partire dalla Caduta di Adamo, infatti, la descrizione biblica della storia umana è essenzialmente regressiva, e le vicende mitiche ma significative dei primi Patriarchi post-edenici non sono nient’altro, infondo, che la cronaca di un’inarrestabile allontanamento dell’uomo da Dio a cui corrispondono delle tappe catastrofiche (Caino e Abele, il Diluvio, la confusione babelica).

Questo processo di decadenza spirituale è destinato peraltro a culminare, al termine dei Tempi Ultimi, in una generale dissoluzione spirituale dell’umanità che conoscerà nel regno parodistico e grottesco dell’anticristo il suo illusorio ma terribile culmine, con “l‘apostasia” (4) generale delle genti annunciata dall’apostolo Paolo. A fronte di queste somiglianze, tuttavia, è assolutamente necessario sottolineare che la storia biblica e cristiana, che ha i suoi estremi nell’Eden primordiale e nella Gerusalemme Celeste finale, non è riducibile al mero schema di un puro e semplice “ritorno alle origini“. La Gerusalemme Celeste, infatti, non è una pura e semplice “riproposizione” dell’Eden perduto, ma è un salto ontologico fondamentale, una promozione divina dell’uomo così come adombrato da San Paolo nella misteriosa pericope: “Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello psichico, e poi lo spirituale” .

Tuttavia, l’aspetto più tipicamente biblico (e soprattutto cristiano) della concezione del tempo è costituito
, soprattutto, da una visione del tutto inedita del rapporto fra Dio e la storia. L’esperienza di Dio che la Bibbia ci testimonia non è, infatti, quella di una “Realtà” trascendente scissa dalla storia o operante in essa solo “accidentalmente”, ma è quella di una continua Presenza di Grazia che entra nella storia, a dispetto e nonostante l’innegabile decadenza spirituale e morale che contraddistingue l’umanità. A fianco di una storia umana caratterizzata da un costante allontanamento dalla Realtà Divina, pertanto, esiste un’altra storia, quella della Grazia e della Salvezza, che si interseca alla prima, culminando proprio nei Tempi Ultimi con l’evento unico e irraggiungibile dell’Incarnazione. Siamo qui al cospetto non tanto di una qualsivoglia “visione del tempo“, quanto di un Mistero nel senso letterale del termine, che l’apostolo Paolo si sforza di rendere intellegibile nella nota espressione: “dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la Grazia” .

Questa affermazione apparentemente paradossale racchiude in realtà tutto l’ineffabile segreto di una Misericordia sovrabbondante, che sembra riversarsi più copiosa proprio lì dove sembrerebbe, ad un occhio puramente umano, essersi del tutto ritirata. Questa è anche l’implicita rivelazione per cui propri i tempi più travagliati e confusi della storia potrebbero custodire, in realtà, possibilità e doni di Grazia inattingibili in altri momenti. Per la Rivelazione cristiana, dunque, l’uomo non è affatto un atomo oscuro abbandonato sul crine di una fatale decadenza, ma un “figlio” disperso sul quale veglia, anche (e soprattutto?) nei momenti peggiori, un Padre provvidente. Al tempo stesso, tuttavia, niente è più antitetico di questa visione della concezione progressiva moderna, la quale sostituisce alla Grazia divina la potenza prometeica della creatura che in spregio di ogni norma e di ogni legge aspira a “farsi dio“.

Note:

1 Una di queste catastrofi, narrate in quasi tutte le tradizioni mitiche del mondo, è certamente il Diluvio: forse identificabile con la fine dell’ultima glaciazione (10.000. a.C.) in cui il livello del mare si innalzò in tutto il mondo di centinaia di metri.

2 La più recente traduzione italiana dei testi del Bhagavata Purana concernenti i cicli cosmici e in particolare l’Età Oscura si trovano su: G.Marletta/M.Polia, Apocalissi. La fine dei tempi nelle religioni, SugarCo, Milano 2008, pp. 107-114

3 Non bisogna troppo semplicisticamente sovraporre il concetto di avatara, che attiene ad una qualsiasi manifestazione di un aspetto della Divinità in un essere (tanto per intenderci, non sono stati pochi gli indù che hanno visto in Madre Teresa un avatara della Kali misericordiosa) con quello cristiano dell’Incarnazione del Verbo (che è unica e completa).

4 2 Tessalonicesi 2, 3. Sull’apostasia, la decadenza spirituale e il regno dell’anticristo che caratterizzeranno, nella visione biblica, i Tempi Ultimi, cfr. il nostro Apocalissi. La fine dei tempi nelle religioni, cit., pp. 53-65