Ancora su Maria: non sempre la legalità coincide con la giustizia

A proposito del "sequestro" di Maria (Vika) è bene ricordare che i coniugi Giusto avevano percorso effettivamente tutte le strade legali:

– ne avevano chiesto l’adozione due anni fa, adozione poi bloccata come tante altre;

– avevano chiesto, il 4 giugno scorso, quando ancora non c’era nessun putiferio, che Vika venisse almeno adottata da una famiglia bielorussa, magari la stessa in cui vive suo fratello, e si erano dichiarati disposti a sostenerla economicamente;

– avevano sottoposto la bambina a diverse visite mediche, con esperti anche del pediatrico del Gaslini, non periti di parte, che avevano confermato che la bambina sulle violenze subite aveva detto la verità;

– si erano rivolti al tribunale dei Minori che prima aveva dichiarato che la bambina non poteva rimpatriare e poi, pochi giorni prima della data fissata per il rientro, aveva cambiato totalmente idea, senza motivo apparente.

Solo dopo tutto questo hanno giocato la carta estrema, l’hanno nascosta. Voi che avreste fatto nei loro panni?

Ce lo mandereste un figlio in un posto dove ha già subito violenze, e dove nessuno dà garanzie che non ne subisca più, solo perchè lo dice la legge?

Non sempre la legalità coincide con la giustizia.

Lo dimostrano anche queste semplici domande:

– perchè ai genitori (si, perchè Vika li chiama mamma e papà e ha detto chiaramente che è con loro che vuole stare), o a qualcuno della famiglia non è stato permesso di accompagnare Vika in Bielorussia?

– c’è stato o no un accordo fra l’Italia e la Bielorussia? E se c’è stato, come sembra, perchè non viene reso pubblico?

– perchè quel blitz infame? Che ne sarà di Vika? Perchè non si vuole ascoltare la sua voce?

Gian Burrasca 

Maria, la ragion di stato e i diritti umani

Il caso di Maria, 10 anni, il cui vero nome è Vika, rimpatriata in Bielorussia dopo che i genitori affidatari in Italia avevano tentato invano di nascondere la bambina per non esporla alle violenze subite nell’orfanotrofio del suo Paese, dove lei non voleva comunque tornare, mostra come ancor oggi la “ragion di Stato” prevalga sui diritti umani e sulla centralità della persona di cui tutti i politici sono sempre pronti a riempirsi la bocca.

Ma, si dirà, i genitori affidatari di Maria, non restituendo la bimba, hanno violato la legge.

Balle.

La prima legge da rispettare è infatti quella che tutela il diritto fondamentale di ciascuno di noi ad avere dei genitori, una famiglia, a non essere strappati a forza dai propri cari, dall’amore di quelli con cui vogliamo stare. A maggior ragione se la persona in questione è un minore di dieci anni, e corre il rischio di essere maltrattata da estranei.

Siamo di fronte ad una di quelle evidenze elementari e insopprimibili, che ciascuno di noi porta inscritte indelebilmente nel proprio essere. Non c’è ragion di Stato che possa permettersi di prevaricare su questo dato.

Ciò nonostante nessuna condizione è stata chiesta dall’Italia per il rimpatrio della bambina. E ora cosa garantisce Maria e suoi genitori che le violenze non si ripetano?

Su questo sopruso, su questa palese e arrogante violazione dei diritti umani sottoscritti da tutti gli stati, compreso il nostro e la Bielorussia, il silenzio del governo – e in particolare dei ministri per la famiglia Rosi Bindi e degli esteri Massimo D’Alema – è davvero assordante.

Gian Burrasca

PS
Dopo aver scritto questo pezzo ho letto e consiglio a tutti di leggere il bellissimo articolo di Eugenia Roccella pubblicato a pag. 15 de Il Giornale di oggi, che si conclude con la frase: “Tutti improvvisamente a difendere la legalità, e nessuno a difendere Maria”.

Autonomia scolastica. I politici la smettano di prenderci in giro

(Nella foto, il ministro della pubblica istruzione Giuseppe Fioroni)

Il 45,8% dei docenti e il 71,4% dei genitori della scuola trentina non ha avvertito alcun cambiamento dopo la riforma che nel 2000 ha reso più autonomi gli istituti. Diversa la percezione dei dirigenti, il 71,6% dei quali giudica molto positiva la riforma.

E’ quanto emerge dalla ricerca condotta dal comitato provinciale di valutazione presieduto da Giorgio Alulli, commissionata dalla Giunta Dellai e presentata pubblicamente nei giorni scorsi.

E’ lecito chiedersi che valore abbia l’autonomia tanto decantata in questi anni se gli insegnanti e le famiglie, vale a dire i principali attori del sistema non se ne sono neppure accorti, o quasi.

Il fatto che gli unici ad apprezzare l’introduzione delle norme sull’autonomia siano stati i dirigenti (anche se non è così per il 30% degli ex presidi), è sintomatico di come questo strumento rivesta un’utilità essenzialmente burocratico-amministrativa e organizzativa interna.

L’autonomia scolastica non ha cioè avuto riflessi significativi sui processi di istruzione e formazione, né dal lato dell’offerta né dal punto di vista della domanda, lasciando indifferenti proprio le componenti più importanti del sistema educativo, perché erogano o sono destinatarie del servizio, per le quali “non è cambiato nulla”.

Il dato è curioso e un po’ paradossale se si considera che durante la sua recente visita a Trento, il ministro della pubblica istruzione Fioroni aveva enfatizzato proprio il tema dell’autonomia scolastica, attribuendo a questa prerogativa la capacità di qualificare i singoli istituti e di rendere dunque inopportune altre riforme in questo settore.

“Le scuole – aveva spiegato – sono autonome, in grado di decidere i loro obiettivi e di gestire al meglio le risorse ad esse affidate, senza bisogno di essere ulteriormente terremotate da nuove riforme, visto che negli ultimi anni ce ne sono state anche troppe”.

Il ragionamento del ministro appare doppiamente contraddittorio.

1. In primo luogo perché se fino ad oggi l’unico effetto, o quasi, delle riforme della scuola è stato quello di “terremotare” il sistema, allora è urgente intervenire con provvedimenti che riportino quantomeno la situazione alla normalità. Magari non occorrerà chiamarli “riforma” per non dare l’impressione di voler cambiare tutto, ma sicuramente qualche iniziativa importante dovrà essere promossa per evitare, stando alla sua metafora, che le crepe aperte da tutti questi terremoti non provochino il crollo dell’edificio. Perché se un ministro della pubblica istruzione annuncia all’inizio del suo mandato la volontà di non voler riformare (vale a dire migliorare, sviluppare o risanare) la scuola, autorizza a pensare che non disponga di una strategia politica propositiva da attuare.

2. La seconda contraddizione, riguarda l’autonomia sancita sei anni fa e introdotta anche nella nostra provincia dalla riforma nazionale. L’esito dell’indagine effettuata “sul campo” nel nostro territorio, dimostra che i risultati dell’autonomia scolastica sono davvero scarsi e deludenti rispetto alla rilevanza quasi rivoluzionaria di cui, da allora ad oggi, questa innovazione è stata sempre più caricata. Rilevanza ribadita nella sua visita a Trento dallo stesso ministro ma smentita due settimane dopo da una ricerca della stessa Provincia che l’ha ospitato.

Queste osservazioni dovrebbero indurre sia il governo di Roma che la Giunta provinciale ad interrogarsi seriamente sul reale “tasso di autonomia” delle scuole.

Perché se quella che finora è stata presentata e sbandierata come “autonomia scolastica” si riduce alla possibilità per i dirigenti di disporre di un margine peraltro ridotto di manovra in più nella gestione delle risorse degli istituti, forse è arrivato il momento di smetterla di giocare con le parole.

I politici dovrebbero piantarla di prendere in giro i docenti, gli studenti e le famiglie raccontando la favola dell’autonomia.

Perché vera autonomia vi sarà solo a due condizioni strettamente correlate:

a) quando gli istituti potranno selezionare e assumere gli insegnanti attraverso appositi concorsi, per qualificare e distinguere la propria offerta agli occhi dell’utenza;

b) e quando ai genitori e ai ragazzi la libertà di scegliere la scuola, da chiunque sia gestita, che ritengono più adeguata alle loro esigenze ed aspettative. Ma perché questo accada servirebbe una seria politica di riforma.

Gian Burrasca

Comunicati della Giunta provinciale e giornali locali: il ritorno delle veline

Leggo spesso nella mia posta elettronica i comunicati stampa della Giunta provinciale. Chi è iscritto alla lista di distribuzione di Piazza Dante lo sa: arrivano a decine, soprattutto verso sera. Grappolate di file da rimuovere in fretta perché non intasino la casella.

Raccontano di tutto un po’: dalle notizie di pubblica utilità come quelle relative alle strade chiuse per lavori, ai convegni sui più svariati argomenti (gli orsi, l’artigianato, la povertà, ecc. ecc. ecc.), dai viaggi degli assessori ai festeggiamenti per Miss Italia.

Il giorno dopo sfoglio uno qualsiasi dei quotidiani locali e cosa trovo nelle pagine di cronaca più importanti? “Paro paro” gli stessi comunicati stampa della Giunta provinciale. Ripresi integralmente o parzialmente, enfatizzati, parafrasati ma pur sempre quei testi. I file del giorno prima. E quasi sempre senza commenti né giudizi, se non quelli già contenuti nei comunicati.

Le notizie dal Palazzo sono insomma servite via email pronte per l’uso, complete di fatti e opinioni. Come se – ecco il punto – per i giornali del Trentino l’ufficio stampa della Giunta provinciale fosse “la” prima fonte dell’informazione. Quella principale, più attendibile, obbiettiva, imparziale e perciò stesso indiscutibile. L’Ansa al confronto fa ridere.

Come se il governo provinciale non fosse politicamente targato e quindi inevitabilmente “di parte”. Come se fotografasse la realtà e non intendesse invece affermare una certa posizione. Come se si trattasse, appunto, di un’agenzia di stampa, che diffonde notizie Doc, rispetto alle quali non servono verifiche e controlli. Ma soprattutto critiche. Quelle sono davvero merce rara.

Il cronista che si azzarda non dico a mettere seriamente in discussione la “voce” ufficiale del Palazzo, ma anche solo a caricare o enfatizzare un po’ qualche frase o iniziativa del presidente o dell’assessore, viene subito bacchettato e sbugiardato. E rischia di rimanere tagliato fuori dalle “stanze dei bottoni”, dal salotto buono del potere, di perdere cioè la “fonte delle fonti”. E magari di non essere o di non sentirsi più gradito e lusingato (per usare un eufemismo) in Provincia.

Naturalmente fra i giornalisti c’è qualche lodevole eccezione. Ma la regola è questa. L’ipse dixit di Dellai, assessori e capo ufficio stampa della Giunta, che in materia di comunicazione e immagine tutto governa, sorveglia e dispone (e per questo conta più di qualunque altro dirigente). Una volta questi comunicati stampa governativi venivano riprodotti dalle prefetture e poi smistati ai giornali. Oggi c’è un passaggio in meno. Ma restano veline.

Gian Burrasca

Pensando all’eutanasia e a Lincoln Rhyme

A proposito della proposta di introdurre nel nostro Paese l’eutanasia e quindi l’autorizzazione legislativa affinché anche da noi si possa “staccare la spina” alle persone costrette, sofferenti, all’immobilità, mi vengono in mente alcuni libri che ultimamente mi hanno molto appassionato.

Si tratta di una serie di thriller di Jeffery Deaver, ex avvocato e ora noto scrittore statunitense, di cui è protagonista Lincoln Rhyme (nella foto Denzel Washington che lo interpreta in un film), ex criminologo della polizia scientifica newyorkese ridotto sulla sedia a rotelle e in grado di muovere solo gli occhi e l’anulare di una mano in seguito ad un incidente occorsogli mentre raccoglieva indizi durante un’indagine.

Pur in questa tragica condizione e obbligato, suo malgrado, ad essere sempre assistito in tutto da qualcuno, Rhyme è ricercatissimo dalla centrale e dai colleghi con cui lavorava, per la sua straordinaria capacità di identificare e individuare i più efferati e scaltri assassini e serial killer servendosi di tracce infinitesimali che in qualche modo essi lasciano sempre dopo i loro delitti.

Al tempo stesso il criminologo non cessa di oscillare fra la voglia di farla finita procurandosi da una società specializzata il kit necessario per darsi o farsi dare la morte, e la scelta di tentare la strada opposta sottoponendosi ad operazioni chirurgiche estremamente rischiose per migliorare almeno parzialmente la propria situazione e riuscire a muovere magari almeno un braccio o una gamba.

Alla fine, proprio quando sembra deciso a rivolgersi al suo “dottor morte” o a giocarsi tutto con l’azzardo dell’intervento neurochirurgico, non arriva mai a soddisfare né l’uno né l’altro “desiderio” non avendone materialmente il tempo, perché troppo assorbito dalle indagini. In realtà il vero motivo che lo dissuade dalle due opzioni è l’amore per una collega, la donna poliziotto Amelia Sachs, dalla quale è intensamente ricambiato.

Sono la stima, l’intesa, la fiducia e la complicità umanamente profonde che permettono a Linconln di ritrovare continuamente il perché vale la pena accettarsi così com’è e andare avanti. Il pensiero di Amelia lo tiene in vita perché lei lo restituisce a se stesso e rappresenta la sola medicina, l’unico vero antiditodo alla morte che altrimenti lo schiaccerebbe comunque, ben prima di ricorrere all’iniezione letale.

Ecco, la vicenda di quest’uomo, pur inventata da uno scrittore che dalla lettura dei suoi libri non sembra assolutamente un credente, rivela una verità molto semplice e trascurata: una persona “normodotata” anche se viva è in realtà già morta (dentro) se non ama e non si sente amata da qualcuno, mentre può sopportare anche il peggior annichilimento fisico e recupera moltiplicandole, le sue capacità residuali e vicarie, in questo caso eccezionalmente preziose per la società, esclusivamente in forza di questo rapporto.

Già, si dirà, ma questa è appunto una faccenda personale. Cosa centra la legge sull’eutanasia?

Centra, perché uno Stato che consenta per legge di staccare la spina è uno Stato invasivo, che pretende di precludere questa esperienza al singolo malato. Altro che privacy. E’ uno Stato che si intromette nell’intimità della sua vita per dare a lui o a qualcun altro la possibilità (ma alla fine è di fatto un suggerimento) di non sperare più utilizzando la scorciatoia del suicidio o dell’omicidio legalizzato e programmato (perché questo è il vero nome dell’eutanasia).

Gian Burrasca

Vallagarina sì, Valsugana no

L’assessore alle opere pubbliche Silvano Grisenti ha presentato ai Sindaci della Vallagarina il progetto di interramento dell’autostrada nel tratto compreso fra Volano e Mori stazione, che permetterebbe di ridurre la pressione del traffico in superficie nei pressi dei centri abitati. Grisenti ha inoltre assicurato che le risorse ci sono e, con il consenso dei Comuni interessati – i quali avranno tempo un anno per dare l’ok definitivo – la realizzazione dell’opera potrebbe iniziare già nel 2008.

Benissimo. Sarebbe però importante ottenere dall’assessore e dalla Giunta provinciale una risposta a questa domanda: perché la popolazione della Vallagarina avrebbe improvvisamente diritto all’A22 in galleria, mentre quella della Valsugana dovrebbe scordarsi il completamento dell’A31 (Valdastico) invocato e atteso da decenni per liberare la statale e i paesi dal traffico, dai problemi di sicurezza e dall’inquinamento già oggi oggettivamente insopportabili?

In ogni caso i primi cittadini di Rovereto e Vallagarina dovrebbero ascoltare un consiglio: prima di rallegrarsi si preoccupino di accertare se il progetto è condiviso anche dalle componenti diessine (soprattutto Pinter e Cogo) e verdi (Berasi e Bombarda) rappresentate nel governo provinciale. Perché se così non fosse, visti i trascorsi meglio sarebbe per loro chiudere subito il sogno nel cassetto.

Gian Burrasca

Miss Italia, Cogo, la Berasi e le pari opportunità

Dopo aver tempestivamente sparlato di Miss Italia proprio all’indomani dell’incoronazione di Claudia Andreatti, prima trentina a vincere il più nazionalpopolare dei concorsi televisivi (dopo Sanremo), l’assessore alla cultura nonché vicepresidente della Giunta provinciale Margherita Cogo, si è recata a Pergine per omaggiare la mamma della reginetta con un bel mazzo di fiori e chiarire il suo pensiero.

Un comunicato stampa ufficiale della Giunta provinciale ha infatti riferito che l’assessora si è complimentata per la bellezza e l’intelligenza di Claudia, mentre ha ribadito il suo disprezzo per il concorso di Miss Italia.

Motivo? L’annuale manifestazione di Salsomaggiore dimostrerebbe quanto l’obiettivo della parità uomo-donna sia ancora lontano dall’essere raggiunto nel nostro Paese. Il nesso è evidente a tutti. O no?

Di certo il presidente della Provincia Dellai sarà stato preavvisato dell’iniziativa della sua vice e ne avrà apprezzato la rilevanza per l’immagine e le politiche di sviluppo del Trentino.

Non si sa, invece, se anche l’assessora competente in materia di pari opportunità Iva Berasi abbia condiviso l’esternazione della collega di Giunta. O non abbia magari sollevato problemi sia di parità che di opportunità.

Gian Burrasca

Perché riesplode la questione dell’eutanasia

E’ esploso in questi giorni il dibattito politico che, nelle intenzioni di chi ha acceso la miccia, dovrebbe preparare il terreno favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia anche in Italia.

A riportare alla ribalta dei giornali l’annosa querelle sulla “dolce morte”, è stata l’accorato appello rivolto al presidente della Repubblica da un malato di distrofia mulscolare, Piergiorgio Welby, copresidente dell’Associazione Luca Coscioni.

E la bomba è deflagrata, perché il Capo dello Stato gli ha risposto invitando il mondo politico ad aprire un confronto in materia.

Evidentemente Welby ha toccato le corde giuste presentando il proprio dramma personale. E i drammi personali, si sa, piacciono alla stampa che con racconti come questi è consapevole di appagare la curiosità un po’ morbosa dei lettori.

“Ho orrore della morte – ha confessato nella sua lettera Welby – ma la mia non più vita, bensì “un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”.

L’obiettivo di Pannella e soci è chiaro: utilizzare questo malato incurabile per suscitare nell’opinione pubblica da un lato un sentimento di pietà verso quest’uomo, dall’altro diffondere al tempo stesso lo sdegno perché il retrogrado ordinamento del nostro Paese non permette di soddisfare la sua disperata richiesta di staccare la spina, ponendo fine a quella che egli stesso considera una non-vita.

In altri termini ai rosapugnoni e agli esponenti della sinistra radicale, della reale situazione di Welby non frega un accidente.

Fosse per loro potrebbe crepare anche subito se il suo dramma non servisse a muovere le acque per accelerare il sospirato avvento dell’eutanasia nel nostro Paese.

Chi conserva il lume della ragione sa che questo è solo un trucco odioso che ha un nome preciso: si chiama strumentalizzazione. E della peggior specie, perchè gioca sulla pelle di un essere umano in carne ed ossa.

La vera questione è un’altra, come spiega con chiarezza l’articolo dello scrittore Luca Doninelli pubblicato in prima pagina da Il Giornale di ieri (25 settembre 2006). Ne riporto una parte che consiglio a tutti di leggere per non lascairsi abbindolare e cogliere il nocciolo del problema.

“Bisogna dire quello che non va in questa storia”, osserva Doninelli. “Innanzitutto, le storie sono due. Una riguarda il caso personale di Welby, l’altra la battaglia civile che dal caso Welby prende spunto.

? lo stesso Piergiorgio Welby (che è, ricordiamo, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni per la libertà della ricerca scientifica) a presentare le due storie come se fossero una sola.

Ma non è così.

L’attenzione viene immediatamente spostata dalla realtà della sofferenza, una vicenda umana viene usata, proprio usata, ai fini di una propaganda ideologica.

Anche il modo di diramare il comunicato, con un video che lo mostra in tutto lo spettacolo (che non è, scusate tanto, la realtà) della sua sofferenza atroce e la voce sintetizzata al computer ha qualcosa di orribile, ma orribile soprattutto perché costruito, calcolato, misurato.

C’è, dunque, una finzione il cui scopo è quello di riportare al centro del dibattito civile la questione dell’eutanasia.

Su questo punto è bene essere chiari e semplici perché l’ipocrisia non può essere ammessa. Il cuore del contendere si fonda sul seguente dilemma: i padroni della nostra vita siamo noi, oppure la vita è un dono?

Dalle parole di Welby (un po’ letterarie) si capisce che per lui la vita è un dono.

Poi però la sofferenza è tale che la vita smette di essere un dono, è solo una condanna.

Ma una volta giunti al dibattito civile, bisognerà scegliere una delle due vie.

Se la società (opportunamente manovrata) decide che io sono il padrone della mia vita, posso naturalmente avvalermi del diritto a non interrompere la mia esistenza, ma lo farò solo in base a una convinzione privata, a un parere: il parere che la vita è sacra.

Ma sarà sempre un parere privato, senza nessuna pretesa di verità.

La regola pubblica si fonderà, infatti, sul principio opposto. Ma, una volta deciso che la vita è nostra proprietà, che la si può volere e disvolere, una volta deciso che non è un dono gratuito, che non è una porta aperta sul mistero, chi potrà fermare la marcia del più forte? Dove porremo il limite alla sperimentazione genetica? Chi potrà dire “fin qui si può, da qui in avanti non si può”?

Io non voglio essere obbligato ad accettare il principio che la vita mi appartiene.

Lo dico non solo da cristiano, lo dico anche come narratore. Scendendo nel cuore dei fatti che raccontiamo, i casi sono due: o sperimentiamo la loro inconsistenza originaria, oppure sperimentiamo la tenacia della realtà, la sua irriducibilità a tutte le nostre teorie.

Chi sostiene che noi siamo i padroni della nostra vita si fonda sulla prima alternativa, alla quale è stato dato un nome preciso: nichilismo. Bene, io non sono nichilista. Nessuno può dirmi che devo accettare l’inconsistenza della vita salvo poi precisare che, personalmente, privatamente, ritengo che la vita sia una bellissima cosa.

Questa sarebbe una buffonata, perché una volta detto “sì” al principio le persuasioni personali sono paglia e fumo. Welby può chiedere di morire, e io sinceramente non so se abbia torto, a titolo individuale.

Se però mi trovassi nella sua condizione, so che i miei amici mi ricorderebbero che la verità della vita non muta di un punto né di una virgola anche se dalla mia difficile condizione non la si capisce più.

Vorrei ricordare che in Italia esistono cinquemila malati di distrofia laterale: cinquemila persone che, diversamente da Welby, vogliono continuare a vivere. I parenti e gli assistenti di queste persone devono spendere centinaia di euro al giorno per sostenere le cure dei loro cari malati.

Lo Stato non si fa nessun carico di queste situazioni. Mi domando dunque se la voce di un solo Welby, per quanto forte, debba trovare ascolto mentre nessuno si preoccupa di quei cinquemila.

Certo, staccare la spina costa meno che sostenere l’onere di una cura molto costosa. Scusate il cinismo, ma è così. Ma Lei, Presidente Napolitano, che nella risposta a Welby ha mostrato tutto il suo equilibrio e la sua saggezza, non dimentichi l’appello muto, il grido ignorato di tutti quelli che, anziché morire, vogliono vivere.”

Gian Burrasca
pressmail.a@libero.it

Cambio della guardia a l’Adige. E’ in arrivo un (Pier)angelo moralizzatore?

Il trentino Pierangelo Giovanetti, inviato speciale di Avvenire, è il nuovo direttore responsabile del quotidiano l’Adige.

Paolo Ghezzi continerà a firmare la testata fino al 4 ottobre.

La notizia, emersa in sordina come quasi sempre accade nei casi in cui si vogliono coprire operazioni di potere, è stata improvvisa, annunciata da pochi trafiletti laconici.

Scarsi i commenti, quasi tutti per esprimere il rammarico dei collaboratori de l’Adige e dei lettori più affezionati al direttore uscente.

Impossibile per ora cogliere con chiarezza le ragioni del passaggio di consegne.

L’impressione è che in questa scelta dell’editore – la famiglia Gelmi di Caporiacco con la signora Marina in testa – centri un certo disaccordo con le posizioni di Ghezzi.

Ma forse ad essere implicato è anche il quotidiano Avvenire.

Qualcuno ricorderà la non lontana e sia pur defilata presenza al giornale di via delle Missioni africane di Umberto Folena, anch’egli nota firma del quotidiano cattolico nazionale, cui l’editore aveva assegnato il ruolo di vicedirettore e che si sussurrava fosse in procinto di rimpiazzare lui sì, prima o poi, Paolo Ghezzi.

Il cambio non è però mai avvenuto, sembra per contrasti con i colleghi della redazione che non gradivano né un collega estraneo all’ambiente trentino, né il suo modo di fare.

Così Folena se ne è tornato all’Avvenire.

Ora a cimentarsi, reduce dalla stessa testata nazionale, è Giovanetti, ma questa volta senza passare dall’anticamera della vicedirezione. Evidentemente l’editore non ha voluto rischiare un altro fallimento.

Quanto al nuovo direttore, la sua firma iniziò a emergere nel panorama del giornalismo trentino all’inizio degli anni Novanta, per le sue rivelazioni a mezzo stampa in merito alla tangentopoli locale, di cui fu protagonista e vittima eccellente l’allora presidente della Provincia Mario Malossini.

Accreditandosi come penna d’assalto, Giovanetti era così diventato il giornalista simbolo di mani pulite del Trentino.

Non a caso il suo partito era la Rete, per cui era anche stato eletto consigliere comunale in val di Ledro.

Allora, tra i bersagli preferiti delle sue cronache e interviste più velenose, c’erano spesso Comunione e liberazione con il suo Meeting di Rimini e la Compagnia delle opere, rei di mescolare con eccessiva disinvoltura fede e impegno politico, cristianesimo e “presenza” nella società e nelle imprese che, per lui, erano sinonimo di “affari”. Sporchi, ovviamente.

Certo, da quegli anni ad oggi ne è passata di acqua sotto i ponti.

Lasciato l’Adige, Giovanetti ha accumulato alcune esperienze fuori provincia e all’estero (parla bene tedesco e inglese) lavorando anche per gli inserti del Corsera dedicati ai problemi del lavoro.

Autore di qualche libello, nell’ultimo dei quali aveva rimescolato e aggiornato i pezzi su Malossini che l’avevano reso famoso, Giovanetti era tornato per qualche tempo a l’Adige per migrare successivamente all’Avvenire.
Trasferimento, quest’ultimo, che depone ulteriormente a favore di un qualche rapporto fra i Gelmi, editori del giornale trentino, e il maggiore quotidiano cattolico.

Fatto sta che Giovanetti all’Avvenire sembra trasformato.

Smessi gli accenti dello spietato fustigatore di politici corrotti e corruttori, nei suoi servizi e nelle interviste da inviato speciale ad alti prelati e uomini di cultura, sfodera una sorprendente moderazione e una totale aderenza alla linea editoriale del quotidiano cattolico. Che infatti gli dimostra una crescente fiducia mandandolo perfino in Germania a raccontare le reazioni di importanti ecclesiastici e intellettuali alla recente e controversa visita del Papa.

Una “conversione” perfetta, insomma, che forse ha indotto e convinto l’editore de l’Adige ad individuare in Giovanetti un’alternativa a Grezzi.

Alternativa al tempo stesso “morbida”, tale da non dare troppo nell’occhio visti i trascorsi del giornalista, omogenei e apprezzati dal centrosinistra che domina nelle redazioni dei maggiori quotidiani provinciali. Ma anche un’alternativa vera, in grado cioè di garantire una discontinuità con la linea diventata sempre più dura adottata da Paolo Ghezzi.

Nelle ultime settimane non pochi lettori hanno infatti scritto al giornale lamentandosi con il direttore per l’eccessiva acidità con cui i commentatori da lui preferiti si sono espressi sul discorso di Benedetto XVI a Ratisbona e la morte della Fallaci.

Che siano state queste gocce a far traboccare il vaso? Difficile dirlo.

Si tratta ora di vedere se Giovanetti soddisferà le aspettative dell’editore con una correzione di rotta magari soft, ma che gli osservatori non mancheranno di evidenziare, oppure se assisteremo al ritorno, magari soft anche questo, del vecchio “giornalismo all’arsenico” così caro a questo (Pier)angelo moralizzatore e giustiziere.

Gian Burrasca

Pressmail.a@libero.it

Il martirio di Suor Leonella

Quel che più dovrebbe stupire di fronte all’assassinio di Suor Leonella (la religiosa trucidata qualche giorno fa in Somalia) è che i mass media italiani abbiano acceso i riflettori sull’accaduto.

Sono centinaia i cristiani – suore, sacerdoti, semplici fedeli – sistematicamente perseguitati e uccisi negli ultimi anni nei paesi islamici – e non solo da guerriglieri o fuorilegge ma dagli stessi governi – senza che i maggiori organi di informazione si siano mai degnati di riportare adeguatamente la notizia.

A questi nostri fratelli morti ammazzati è sempre stato riservato, nel migliore dei casi, un trafiletto d’agenzia in fondo alle ultime pagine dei giornali, mentre assordante è stato il silenzio delle principali emittenti televisive e radiofoniche.

Solo il sito asianews.it (a proposito, leggetelo e fatelo leggere) e pochi altri giornali online ci raccontano di questi omicidi.

Ora, improvvisamente, la barbara fine di Suor Leonella sembra sorprendere l’opinione pubblica, desta raccapriccio e scalpore.

Evidentemente, il motivo è il conflitto scatenato non solo a parole dall’Islam dopo il discorso del Papa a Ratisbona, dove Benedetto XVI ha osato dire che la vera religione, essendo amica della ragione, è nemica della violenza.

Morale? Il martirio dei cristiani nei paesi musulmani interessa ai mass media solo per effetto del clima surriscaldato dalle polemiche scatenate dalle centrali del terrorismo islamico contro la Chiesa di Roma.

Altrimenti il fenomeno, per quanto di vaste proporzioni, semplicemnte non esiste.

Gian Burrasca

pressmail.a@libero.it