Ma non chiamatelo “aborto terapeutico”

Un “aborto terpeutico” ha un epilogo diverso dal previsto, la storia viene raccontata dalle cronache suscitando commozione e commenti, si tratta di una vicenda drammatica ma come avviene per tutte le notizie anche questa è presto dimenticata. Però è proprio quando determinati fatti si fanno più lontani che diventa possibile affrontarli scindendo le riflessioni dalla componente emotiva.

Il termine “aborto terapeutico” è una di quelle associazioni di parole che lascia perplessi, si intuisce che qualcosa non va bene, viene alla mente il romanzo “1984” di George Orwell nel quale la manipolazione delle parole era uno dei metodi usati dal “Grande Fratello” per imporre il suo totalitarismo.

Le parole descrivono il mondo, quelle che descrivono la realtà contemporanea sono dunque necessarie per comprendere determinate fenomenologie. Ma se la parola di cui ci si occupa è il termine “aborto” l’argomento è particolarmente delicato perché riguarda situazioni altamente drammatiche, la trattazione linguistica di tale argomento non può rischiare di essere riduttiva di una complessa realtà umana, essa deve tendere invece a fare chiarezza, ad essere di aiuto a chiunque intenda riflettere approfonditamente.

Compiendo un’operazione di segno inverso alla manipolazione delle parole si può provare ad analizzare la locuzione “aborto terapeutico” utilizzata per indicare, nella maggior parte dei casi, situazioni in cui all’interno di una gravidanza desiderata l’aborto viene praticato in seguito alla scoperta di gravi malformazioni nel feto.

Se andiamo a cercare l’etimologia del termine “aborto” troviamo che essa ci riconduce alla radice “ab-orior”, cioè a qualcosa che avviene dal sorgere, dalla nascita, in questo caso si intende il morire nell’atto stesso di nascere. Il termine “terapeutico” è invece di meno immediata analisi, ma dopo un po’ di confronti col termine “cura” che talvolta viene indicato come sinonimo, si giunge alla conclusione che una terapia dovrebbe essere un trattamento che mira alla guarigione di una malattia.

Se proviamo adesso ad unire i due termini otteniamo che per “aborto terapeutico” si intende un trattamento di guarigione tramite la soppressione di una vita. Guarire e morire sono però due termini in antitesi tra loro e uniti esprimono una contraddizione, si forma così una figura retorica chiamata ossimoro. Nel caso in questione non c’è una guarigione del soggetto malato, al malato viene infatti praticata un’eutanasia, si ha quindi un intervento il cui fine è prevenire la nascita di individui malati e permettere solo quella di individui sani, quindi la locuzione che esprime correttamente quello che avviene sarebbe “aborto eugenetico”.

Ma c’è un’altra considerazione sulla quale è opportuno richiamare l’attenzione, il limite previsto per l’intervento. Nel caso dell’aborto terapeutico il limite massimo è di 22 settimane, prima di tale termine il feto non è considerato un “cittadino” con i relativi diritti, è considerato qualcosa che i romani avrebbero definito “res” in contrapposizione a “civis”.

La conclusione è sorprendente, la differenza tra un feto di 21 settimane e quella di un feto di 22 settimane è la stessa che anticamente esisteva tra schiavi e uomini liberi. Nello “Ius civilis” infatti lo schiavo era considerato una “res”, una entità senza diritti. La schiavitù fu sconfitta con l’affermarsi del cristianesimo, uno dei primi passi verso la soppressione di quella antica realtà fu infatti compiuto nel IV secolo, proprio quando fu dichiarata “omicidio” l’uccisione di uno schiavo. Prima di tale norma la differenza tra schiavo e uomo era dunque di tipo amministrativo, lo stesso individuo che era soggetto ai poteri illimitati del suo padrone, nel momento in cui fosse stato liberato dalla schiavitù sarebbe divenuto un “liberto” con i diritti di un essere umano. Lo stesso principio sembra adesso valere per i feti che conquistano la loro condizione di “liberti” nel momento in cui compiono la ventiduesima settimana di gestazione.

Ma la stessa legge prevede un limite è diverso in assenza di una malformazione del feto, come è noto in questo caso esso si situa al novantesimo giorno, periodo che corrisponde circa alla dodicesima settimana. Questa differenza impone un confronto: dopo 12 settimane di gravidanza un “sano” ha tutti i diritti di un libero cittadino mentre gli stessi diritti per un “non sano” vengono riconosciuti 10 settimane dopo. Si deve conseguentemente ritenere che lo stato di malattia renda un po’ meno uomini e un po’ più “res”? Ancora una volta si assiste ad una manipolazione linguistica, se prima delle 22 settimane un grave difetto fisico è tale da giustificare la morte del portatore, dopo la nascita lo stesso difetto fisico viene minimizzato, anche il linguaggio si adegua fino a sfumare nel “diversamente abile”.

Ritenere che in certi casi una patologia sia così grave da giustificare la morte e, al contrario, accoglierla pienamente in altre circostanze come una “differente abilità”, richiede ancora una volta un esercizio del tipo immaginato da George Orwell nel suo “1984”, si tratta dell’applicazione di quello che egli definiva “bipensiero”: « Raccontare deliberatamente menzogne ed allo stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall’oblio per tutto il tempo che serva, negare l’esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile.»

Ma per affermare il “bipensiero” è necessario prima agire sulle capacità critiche delle persone, sulle capacità di analisi e su tutto ciò che va sotto il nome di “cultura”, non a caso nel romanzo orwelliano sulla facciata del Ministero della verità campeggiava la scritta: L’ignoranza è forza

USA: tra prove di eutanasia e opposizione Cattolica

La copertura mediatica data alla riforma sanitaria negli USA è stata ampia, eppure non è stata rilevata una contraddizione che avrebbe dovuto sollevare delle perplessità: l’estensione della copertura sanitaria ad una fascia più larga di popolazione avviene contemporaneamente ad una forte riduzione di spesa per il programma di assistenza agli anziani denominato “Medicare”.

Il meccanismo di riduzione della spesa è basato sul criterio della “comparative effectiveness”, traducibile come “efficacia comparativa”, termine col quale si indica il rapporto tra il costo di una cura e il beneficio atteso. Non ci sarebbe nulla di insolito nel valutare il rapporto costo-benefici di un trattamento sanitario, il problema nasce quando nel valutare la “efficacia” di una cura si tiene conto dell’aspettativa di vita del paziente.

Ogni intervento che prolunghi l’aspettativa di vita risulterà infatti meno “efficace” se effettuato su un paziente anziano rispetto allo stesso intervento effettuato su di un paziente più giovane. Quindi, in base a questo calcolo, la medesima cura potrà essere somministrata ad un giovane e negata ad un anziano. Si tratta dunque di una eutanasia passiva, quel tipo di eutanasia con la quale al paziente viene negata una salvezza tecnicamente possibile e se ne anticipa in tal modo la morte.

Ma la legislazione USA non è l’unica ad aver introdotto un simile criterio di discriminazione rispetto all’età, esso infatti è già presente nel sistema sanitario inglese il quale, a sua volta, non è stato il primo ad adottarlo. Infatti la prima volta che l’eutanasia venne proposta per gli anziani (e per soggetti affetti da determinate patologie) fu a metà del XX secolo. In quell’occasione però qualcuno protestò: «Si dice che questi pazienti sono come una macchina vecchia che non funziona più… cosa dobbiamo fare di una macchina di questo genere? La mandiamo in demolizione.»

Con queste parole il vescovo cattolico di Münster in Westfalia, Clemens August Graf von Galen, nell’agosto del 1941 denunciava pubblicamente il programma tedesco di eutanasia denominato “T 4”, da Tiergartenstrasse 4, l’indirizzo dell’ente per la salute. Il programma aveva iniziato ad essere applicato nel 1938. Le sue linee ispiratrici erano due: 

– La prima di natura eugenetica rivolta alla eliminazione dei portatori di handicap

-La seconda motivata dalla necessità di stornare risorse economiche dalla sanità per indirizzarle alle spese di guerra.

Il progetto eutanasico era stato promosso attraverso film e pubblicazioni per orientare il consenso e favorirne l’accettazione da parte della popolazione, ma in questo caso l’azione della propaganda non ebbe successo soprattutto per via dell’opposizione della Chiesa Cattolica.

Il programma T 4 dovette essere sospeso e Martin Borman, il segretario del Fürer, chiese di intervenire direttamente contro il vescovo von Galen. Goebbels ottenne però di rinviare il regolamento di conti per non influire negativamente sul morale dei soldati cattolici impegnati sul fronte russo. Il vescovo von Galen è stato beatificato da papa Benedetto XVI il 9 ottobre 2005.

Ma c’è una seconda notizia proveniente dagli USA che mostra dei movimenti in direzione dello stabilirsi di quella che potremmo definire una mens eutanasica, termine utilizzato da papa Ratzinger nell’enciclica “Caritas in Veritate” per denunciare il diffondersi dell’eutanasia e delle manifestazioni di abuso di dominio sulla vita.

La notizia si riferisce allo svolgimento in California, dal 15 al 18 aprile, della conferenza della MAPS (Associazione Multidisciplinare degli Studi Psichedelici) la cui finalità è promuovere l’utilizzo delle sostanze psichedeliche per i trattamenti psicoterapeutici, la terapia del dolore, l’esplorazione spirituale, per le terapie sciamaniche ed altri usi similari. Nel corso dei lavori si è discusso dell’utilizzo di droghe come LSD e l’MDMA (3,4 metilenediossimetamfetamina) comunemente conosciuta come “Ecstasy”, per il trattamento psicologico del fine vita.

Il New York Times, negli stessi giorni in cui portava i suoi attacchi a papa Benedetto XVI, si occupava in prima pagina anche della conferenza dell’Associazione di Studi Psichedelici, ma in questo caso la testata newyorkese, in un rinato spirito psichedelico da anni ‘60, non ravvisava nulla da eccepire sulle finalità dell’associazione.

Nell’articolo del New York Times veniva intervistato il dott. Grob dell’Università della California (UCLA) il quale informava i lettori del fatto che: “Grazie ai cambiamenti avvenuti negli ultimi 40 anni… la nostra cultura è più recettiva, e noi stiamo mostrando che queste droghe possono fornire benefici che i trattamenti attuali (del fine vita) non possono dare.” Per concludere infine affermando: “Sotto l’influenza degli allucinogeni gli individui trascendono la loro primaria identificazione con i loro corpi e sperimentano uno stato libero dall’ego…”

Ma anche l’idea di sostituire la religione con le sostanze psichedeliche, non è nuova, evidentemente l’insegnamento della storia è che ci sono cose che periodicamente riaffiorano. Sembrano novità ma sono solo vecchie idee che hanno cambiato faccia.

Al Gore: qual è la “scomoda verità”?

Quattro anni fa veniva proiettato per la prima volta il documentario “Una scomoda verità” col quale Al Gore, vice presidente degli Stati Uniti d’America sotto l’amministrazione Clinton, si proponeva nella veste di ecologista.

Si trattò di un ritorno fortunato, il film ricevette il premio Oscar 2007 come miglior documentario, seguito nello stesso anno dal più prestigioso dei riconoscimenti, il premio Nobel per la pace per il protagonista Al Gore. Vincere un premio Oscar è un’esperienza che solo a pochissimi è dato provare, lo stesso vale per l’assegnazione del premio Nobel, ricevere entrambi per lo stesso lavoro rientra in una casistica che si pone di diritto oltre la categoria del “raro” per entrare in quella degli eventi unici.

Eppure poco più di sei anni prima Al Gore usciva piuttosto malconcio dalla sconfitta elettorale alle presidenziali USA, si trovò in una condizione di abbattimento nella quale “si fece crescere la barba, si concesse qualche dolcetto o quel whisky in più… ingrassò molto”, come ci informa un articolo di Maria Latella pubblicato sul settimanale “A” del 15 aprile 2010. Quel che fece uscire dalla crisi Gore forse non fu tanto l’aiuto della “bionda e simpatica moglie Tipper”, quanto l’intervento dell’imprenditore e avvocato Joel Hyatt col quale nacque l’idea di fondare un network d’informazione.

L’iniziativa portò nel 2005 alla nascita del canale televisivo “Current”. L’iniziativa fu subito baciata da un successo travolgente, nel 2007, a due anni dalla nascita, Current viene trasmessa da SKY e soli sei mesi dopo vince il prestigioso Emmy Award come miglior servizio TV interattivo. L’anno successivo Current sbarca in Italia, che gode quindi del singolare privilegio di essere il primo paese non anglofono a beneficiare delle sue trasmissioni.

Anno veramente mirabile quel 2007, all’Emmy Award per Current fanno seguito il già citato Oscar per “Una scomoda verità” e il premio Nobel ad Al Gore per lo stesso film. Si tratta di riconoscimenti prestigiosi ed effettivamente la “verità” che Gore mostra al mondo è così importante da giustificare tanta attenzione: le attività umane sono all’origine del riscaldamento globale, se i governi non prenderanno rapidamente i giusti provvedimenti il mondo andrà incontro ad una catastrofe. Il volto dell’ex vice presidente USA diviene quello di un moderno profeta che addita all’umanità la via della salvezza.

Ma un evento inatteso sembra mettersi di traverso alla corsa di Gore che in quel momento sembra inarrestabile, un piccolo “Davide” nei panni di un dirigente scolastico del Kent si rivolge alla magistratura per sottoporle il caso della proiezione del film nelle scuole superiori inglesi. La richiesta trova ascolto e il giudice Justice Burton dell’Alta Corte di Londra analizza il filmato riscontrando nove errori nella “verità” del film.

La presenza di questi nove errori spinge a ritenere che il film rappresenti una visione di parte, una “one-sided wiew” e che la proiezione del documentario può quindi avvenire solo se accompagnata da una guida esplicativa. “Una scomoda verità” è quindi giudicata dalla corte inglese una “verità” di parte, fatto che era evidentemente sfuggito alla giuria del premio Oscar ma, cosa certamente più rilevante, a quella del premio Nobel. Nell’articolo pubblicato sul settimanale “A” viene riferito che gli americani adorano quelli che, come lui, vengono definiti dei “Comeback”, quelli «capaci di tornare e risollevarsi dopo una brutta botta…», caratteristica riferita alla capacità che Gore ha mostrato risollevandosi dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali del 2000, ma Gore dimostra di essere un Comeback anche nell’episodio dell’Alta Corte inglese, infatti, nonostante la scoperta dei nove errori, prosegue instancabilmente la sua opera di propaganda.

Gore sarà però chiamato ancora una volta a dimostrare le sue capacità di Comeback quando alla vigilia del summit sul clima di Copenaghen, a fine novembre del 2009, degli hacker riveleranno uno scambio di e-mail tra gli scienziati dell’East Anglia University impegnati nella Climate Research Unit (CRU).

 Dalle e-mail emerge che i dati riguardanti il global warming sono stati filtrati e manipolati al fine di dimostrare la tesi che il riscaldamento sia causato dalle attività umane. In seguito allo scandalo delle e-mail prima del summit di Copenhagen la tesi di Al Gore subisce un duro colpo ma, ancora una volta, egli dimostra di essere un vero “Comeback” e pochi giorni dopo tiene un discorso in cui rilancia il suo allarme affermando che entro cinque anni il Polo Nord potrebbe essere completamente libero dai ghiacci.

Ma immediatamente lo scienziato da lui citato come fonte della previsione, Wieslav Maslowsky, smentisce di aver fatto tale previsione. Da Comeback di razza, Gore non si scoraggia e prosegue la sua opera di sensibilizzazione, ma gli eventi sembrano accanirsi contro di lui, avviene infatti che il 4 marzo 2010, mentre si trova ad Oslo per una raccolta di fondi per combattere il riscaldamento globale, 50 navi rimangono imprigionate nei ghiacci del vicino Mar Baltico, evento che non si verificava da almeno quindici anni. Quando si dice la sfortuna…

Al Gore: qual è la “scomoda verità”? Parte seconda

“L’Italia e gli Stati Uniti hanno lo stesso problema: la manipolazione delle notizie”. Così esordisce Al Gore nell’intervista rilasciata al settimanale “A”, e questa volta non possiamo che essere d’accordo. Ma non sappiamo se tra le manipolazioni di cui soffre l’informazione egli includa anche i 9 errori accertati nel suo documentario.

Quel che è certo è che la battaglia per la verità continua nel frattempo ad essere combattuta anche sul fronte televisivo, Current Tv è nata con l’impegno di non dipendere da parti politiche o da alcuna ideologia, con lo scopo di raccontare la realtà in “assoluta autonomia”. Se l’impegno è quello di non dipendere da nessuna ideologia, evidentemente tra le ideologie non viene annoverato l’ambientalismo. Coerentemente con le idee del fondatore la programmazione di Current dedica molto spazio alle tematiche relative all’ambiente, nel suo palinsesto è possibile ad esempio trovare il documentario “5 Modi per Salvare il Mondo” che in 55 minuti ci dice che: “Il cambiamento climatico sta trasformando il mondo e se il riscaldamento globale non sara’ arrestato, gli effetti potrebbero essere catastrofici. 5 proposte per abbassare la temperatura e per salvare la vita sulla terra.”

La battaglia contro il riscaldamento globale va dunque avanti senza incertezze, nonostante gli episodi che abbiamo visto e che potrebbero indurre almeno ad una certa prudenza.

Ma tra i temi proposti da Current Italia troviamo anche documentari come “Zeitgeist” nel quale si sostengono tre tesi: 1 Il cristianesimo è “la più grande storia mai raccontata”, dove raccontata è usato nel’accezione di “gabellata”.Si sostiene infatti che il Cristo altri non sia se non una riedizione del dio egizio
Horus.

2 Gli attentati dell’11 settembre sono stati orchestrati da una presunta organizzazione di potere per togliere i diritti democratici ai cittadini statunitensi.

3 Da diversi secoli alcuni banchieri portano avanti una cospirazione per dominare il mondo. Se ci capitasse di poter fare un’intervista ad Al Gore non potremmo fare a meno di domandargli se è al corrente di questa programmazione e se ne condivida i contenuti, sarebbe infatti clamoroso che un ex vice presidente USA e premio Nobel per la pace sostenesse che negli stessi USA dall’11 settembre 2001 non esiste più la democrazia e che, conseguentemente alla terza tesi di Zeitgeist, siano i banchieri di più antica origine i veri signori del mondo.

A questo punto siamo di fronte ad un bivio che ci obbliga a due possibili conclusioni:

A) Al Gore ritiene vero quanto contenuto nel documentario in questione e allora non si spiega come mai non affianchi alla battaglia contro il riscaldamento globale quella contro la “Cospirazione globale”.

B) Al Gore ritiene infondato quanto contenuto nel documentario e allora vengono trasmesse notizie che si potrebbero definire “manipolate” contrariamente agli scopi prefissati.

Riguardo alla prima parte del documentario, quella relativa al cristianesimo, possiamo osservare che nella programmazione sono stati spesso proposti titoli come “Il Vaticano e i crimini sessuali”, “Il Legionario di Cristo” e “Vaticano S.p.A.”, non compaiono invece documentari sull’opera missionaria nel terzo mondo, o sul Nobel per la pace a Madre Teresa (una collega in fondo…) o sull’impegno sociale della Chiesa Cattolica.

Evidentemente per quel che riguarda la “pericolosità” della Chiesa Cattolica si ritiene di non avere dubbi, i dati contrastanti la tesi di fondo non vengono presi in considerazione, così come avviene per le tematiche sul riscaldamento globale. Se tutto questo ci lascia infine pensierosi e non riusciamo a prendere sonno, è possibile fare affidamento ad un ricco palinsesto notturno all’interno del quale si possono trovare programmi di sicura attrattiva come “Sex Mundi: le Misure Contano”. E se anche questa fosse una “scomoda verità”?

Considerazioni sulla Caritas in Veritate, enciclica dimenticata

Se un fatto emerge dalla campagna di stampa sui casi di pedofilia che hanno riguardato la Chiesa Cattolica è che l’obbiettivo dichiarato non è quello perseguito, non è la soluzione del problema “pedofilia”.

Se infatti l’interesse fosse la lotta agli abusi, la cosa più logica da fare sarebbe quella di dare sostegno all’uomo che ancora prima dell’inizio del suo pontificato si era impegnato in tal senso. Come ricorda infatti in un suo articolo Joaquin Navarro-Valls, già nella Via Crucis del 2005 l’allora cardinale Ratzinger pronunciava le seguenti parole: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza

La palese incongruenza tra il fine dichiarato e l’attacco a chi meglio di altri quel fine può perseguire, e che concretamente sta perseguendo, conduce rapidamente alla ricerca delle vere cause di tale attacco, a quei fautori del “pensiero debole” che non tollerano l’esistenza di valori non negoziabili e l’esistenza di quella che, di fatto, è rimasta l’unica opposizione alla dittatura del relativismo. Il “pensiero forte” del pontefice gli aveva già procurato varie accuse tra le quali ricordiamo solo le più clamorose: aver militato nell’esercito nazista; essere avversario di Galilei, essere sostenitore della teoria dell’Intelligent design e nemico della scienza tout court; negazionista dell’Olocausto; essere nemico della lotta all’AIDS e infine essere negazionista delle “colpe” della chiesa sotto il pontificato di Pio XII.

Se l’azione di papa Ratzinger è stata segnata sin dall’inizio da una insistente campagna di screditamento non è possibile non scorgere nella virulenza dell’attuale offensiva un innalzamento del livello dello scontro che spinge a domandarsi se non ci sia stato qualcosa nell’operato del pontefice che abbia causato la reazione attualmente in corso. Se andiamo alla ricerca di un movente possiamo cercare nell’operato dell’ultimo anno, andare indietro di otto mesi per individuare una possibile azione che ha causato tanta ostilità, il riferimento è alla pubblicazione della lettera enciclica “Caritas in Veritate”. L’enciclica è di fatto una forte denuncia dei veri scandali della nostra epoca, in essa avviene lo smascheramento dei meccanismi perversi e non inconsapevoli di un sistema economico che tiene la maggioranza della popolazione mondiale in una situazione di miseria tutt’altro che inevitabile. Questo scandalo, il vero scandalo, viene però celato a quella stessa opinione pubblica che invece viene così esaurientemente, con ridondanza e anche con citazioni erronee, informata di ogni dettaglio degli ultimi cinquant’anni di deviazioni da parte di ecclesiastici.

E così le denuncie contenute nella Caritas in Veritate sono passate sotto silenzio mentre il caso del reverendo Murphy ha meritato le colonne del New York Times, spazio che tanto più proficuamente avrebbe potuto essere utilizzato per rilanciare ad esempio la denuncia delle ONG, organizzazioni non governative , la cui azione di aiuto ai paesi poveri si attua con la promozione delle pratiche abortive (C. in V. 28) o che utilizzano le risorse economiche per retribuire i propri dipendenti con ricchi stipendi (C. in V. 47). I media avrebbero potuto inoltre accendere i riflettori sul “neocolonialismo” (C. In V. 33), sull’operato di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale, su quegli aiuti internazionali che «possono mantenere un popolo in uno stato di dipendenza» (C. in V. 58).

Ma l’enciclica Caritas in Veritate quando venne pubblicata nel luglio del 2009 fu accolta da un silenzio omertoso, la sua carica potenzialmente dirompente non può però essere sfuggita a chi da essa veniva chiamato in causa, e così è stata confezionata una “bomba” per coprire il tutto e distrarre l’attenzione. Per coloro però ai quali la esasperazione delle accuse è evidente, è possibile replicare rilanciando ciascuno nel proprio ambito e secondo le proprie possibilità la denuncia dei veri scandali portati in evidenza dalla lettera enciclica, cercare di portarli all’attenzione dei media cosicché essi siano costretti ad occuparsene, e chissà, potrebbe accorgersene perfino il New York Times.