Mafalda di Savoia

Dopo un’accurata indagine storica, Cristina Siccardi propone la biografia di Mafalda di Savoia per farne conoscere più a fondo la vicenda: secondogenita di Vittorio Emanuele III ed Elena, morì nel campo di concentramento di Buchenwald nel 1944. In questo volume emergono non solo i momenti tragici, ma anche la personalità di una donna colta e intelligente, briosa e mite insieme; leggendo queste pagine si respira l’atmosfera socio-politica e culturale della prima metà del Novecento.

Riportiamo un capitolo del libro.

21. «Operazione Abeba»

Durante la permanenza di Mafalda a Sofia era stato disposto, in accordo fra la regina Elena e la figlia, che i principini Assia tornassero da Sant’Anna di Valdieri: Enrico a Villa Savoia e i fratellini a Villa Polissena.
«L’atmosfera non era delle più serene. Durante la giornata restavo a studiare nel mio appartamento perché nel resto della palazzina c’era un incessante movimento. Potevo riabbracciare la nonna solo la sera, prima della cena che in quei giorni veniva servita nella grande sala da pranzo del pianterreno essendoci di continuo ospiti». Così ricorda Enrico d’Assia. «Il 7 settembre feci una bruttissima figura con i nonni arrivando a tavola, accaldato e confuso, con dieci minuti di ritardo… il mio orologio da polso era fermo. Essendo di natura molto puntuale, il giorno seguente presi tutte le precauzioni perché non si ripetesse l’inconveniente. Mi preparai con anticipo e pertanto mi sorpresi non poco quando alla mia porta bussò lo staffiere Gambini per avvertirmi: “Sua Maestà desidera che lei scenda subito!”… Ai piedi della scala vidi la nonna che con aria turbata mi disse: “Enrico, non ho tempo di spiegarti, ma ti prego, corri a Villa Polissena, prendi Otto, Elisabetta e la Schwester , [la governante dei bambini, n.d.a.] e portali qui subito! La macchina ti aspetta”. In pochi minuti fui a Villa Polissena: vedo ancora i volti sorpresi dei miei fratelli, spaventati dall’irruzione. Stavano cenando in pigiama e vestaglia: così com’erano, la Schwester e io li facemmo salire in auto».

Giunsero al Quirinale, entrarono dall’ingresso secondario, che dà accesso ai giardini. Poi salirono al primo piano. Sulla via si andavano raccogliendo mille voci e grida: «Pace, pace, viva il re!».
Poi venne disposto che il vicequestore, addetto alla Real casa da ben 16 anni, il dottor Marchitto, accompagnasse i principini in Vaticano fino a quando, disse la regina Elena, «i vostri genitori decidano che cosa fare in futuro».
L’automobile giunse in piazza San Pietro totalmente deserta.

Dopo lunghe trattative senza risultato da parte di Marchitto e un diniego di ospitalità da parte del cardinal Maglione (perché la Santa Sede era già stracolma), grazie a monsignor Montini, sostituto alla Segreteria di Stato, i principini vennero accolti in Vaticano.
«… molti soldati si affollarono al confine della piazza. Io mi ero autoconvinto che fossero americani che, sbarcati nelle vicinanze, avevano già raggiunto e occupato Roma. Purtroppo, mancavano ancora quattro mesi allo sbarco alleato di Anzio e gli spari che sentivo erano batterie tedesche che combattevano contro una divisione di granatieri. I soldati italiani vennero sopraffatti e i tedeschi non si mossero più da quel luogo… L’unica cosa che ricordo in quei giorni era l’ansia con cui controllavamo la bandiera in cima al Quirinale. Se sventolava ci sentivamo abbastanza confortati, ma quando per qualche tempo non si vide più eravamo molto preoccupati. La nomina a comandante della città aperta di Roma dello zio Carlo Calvi di Bergolo la riportò al suo posto e pensammo per un attimo che i nonni stavano per tornare. Ma poi di nuovo sparì e per sempre, perché i tedeschi arrestarono lo zio e lo deportarono in Germania».

Verso le 16 del 21 settembre si apre timidamente la porta dell’appartamento prestato dal futuro papa Paolo VI e appare mammà: «Ci abbracciò tutti e tre nello stesso momento e il nostro slancio fu tale che quasi cadde, anche perché era molto provata… Non l’avevo mai vista così magra e sciupata: sotto il vestitino a lutto, per la morte del cognato Boris di Bulgaria, si potevano immaginare solo ossa. In compenso, dai suoi occhi stanchi si irradiava una gioia infinita per averci ritrovati». Monsignor Montini viene a rendere omaggio alla principessa Mafalda e per qualche minuto passeggiano sulla terrazza conversando.
Poi, insieme ai figli, si reca nei giardini vaticani per prendere un po’ di fresco: «La rivedo seduta sul bordo» della vasca della casina di Pio IV «al suo fianco Otto ed Elisabetta, ognuno per mano. Io mi ero seduto davanti a loro, in terra, per ascoltare meglio il lungo racconto del difficile viaggio da lei affrontato e i tristi giorni a Sofia per i funerali dello zio Boris.

«Noi ascoltavamo attoniti i suoi racconti e intanto calava la sera. Il cupolone di San Pietro, come un’enorme mongolfiera rosa pronta al decollo, dominava la scena sullo sfondo. La sua visione aveva in sé qualcosa di consolante e presto ci sentimmo rassicurati».
Il gruppetto familiare formato da Mafalda e dai suoi tre figli crea un’atmosfera crepuscolare di grande, infinita tenerezza.
Poi Muti si alza, si è fatto davvero tardi. Vuole tornare a Villa Polissena. I bimbi la vogliono con loro. Ma lei deve tornare a casa per cercare di parlare con papà in Germania e inoltre desidera dormire nel suo letto dopo tante notti bianche. «L’accompagnammo alla macchina e ci promise di tornare l’indomani mattina alle dieci: sperava con tante buone notizie. Era felice».

Ma l’indomani mammà non arriva. Enrico, Otto, Elisabetta non la rivedranno più. Dai suoi figli giunge invece il dottor Marchitto, alle ore 16, tranquillo e con queste notizie: Mafalda è riuscita a parlare con loro padre, il quale l’ha pregata di raggiungerlo al più presto in Germania. Era dunque partita lasciando l’incarico a Marchitto di riaccompagnare i principini a Villa Polissena da dove, in seguito, l’ambasciata tedesca avrebbe provveduto a farli trasferire in treno in Germania.
Il giorno seguente i tre fratellini lasciano l’appartamento di monsignor Montini. Il vicequestore toglie dunque dalla sicurezza i figli di Mafalda. Per conto di chi agisce Marchitto? Afferma lo studioso di Casa Savoia, Mauro Navone: «Un funzionario è un burocrate e per abito mentale si attiene a regole schematiche di gerarchia. I tedeschi a Roma erano i nuovi “Superiori”».
È certo che monsignor Montini disse alla principessa Mafalda di restare al sicuro insieme ai suoi figli nel proprio appartamento «fin quando avesse voluto» . Ricorda Enrico d’Assia: «Vedemmo monsignor Montini affacciarsi discretamente, quasi timoroso di turbare con la sua presenza l’intimità del nostro incontro. Mamma gli espresse a lungo la sua riconoscenza per quella provvidenziale ospitalità. Prima di ritirarsi (e io ritengo che fosse venuto esclusivamente per questo motivo), monsignore disse a nostra madre che poteva restare al sicuro con noi» presso di lui.

Il 1° luglio 1963 Enrico d’Assia rivide Giovanni Battista Montini divenuto Pontefice. «Mi tese le mani e volle che abbreviassi la genuflessione. Chiese notizie della mia famiglia e accennò a quel lontano drammatico settembre. “Riuscirete mai a scusarmi per quella tanto poco confortevole ospitalità?” domandò. E nei suoi occhi rividi quell’attimo di angoscia che gli avevo conosciuto sul volto vent’anni prima. Sono certo che in quel momento il pensiero del Papa corse a mia madre, a quell’invito alla salvezza che mamma non aveva potuto raccogliere». Non “saputo”, ma «potuto» raccogliere, perché il suo destino doveva compiersi in Germania. Il suo sacrificio, per l’Italia, per il marito, per i figli, per i Savoia doveva compiersi là, nel campo dei faggi, nel campo degli orrori.
Giunti a Villa Polissena i principini vengono accolti da un’angosciata governante, Madeleine Durand, molto affezionata a Mafalda: Enrico e i suoi fratelli erano contenti di essere nuovamente a casa, ma «rattristati dal vuoto inquietante che la partenza di nostra madre aveva lasciato… La governante… non sapeva darsene pace. Ci raccontò che non aveva neanche potuto salutarla prima che partisse».

Raccontò che dall’ambasciata tedesca era giunta un’automobile e un Ss le aveva ordinato di preparare una piccola valigia per la principessa, la quale si era recata direttamente all’aeroporto dove un aereo l’avrebbe condotta in Germania.
Mafalda era giunta dal suo incontro con i figli verso le 20 del giorno precedente. «Quella sera, nel congedarmi», ha testimoniato Marchitto, «la principessa mi promise che prima di prendere una qualsiasi decisione, prima di ritirare i suoi figli dalla Città del Vaticano, si sarebbe messa in contatto con il marito per farsi da lui consigliare». Non era più dunque tranquilla del suo status di principessa tedesca? Intoccabile? Forse no… forse quella Roma pullulante di tedeschi in assetto di guerra l’avevano impressionata e le parole di generosa offerta da parte di monsignor Montini l’avevano indotta a dubitare su certezze che stavano crollando poco alla volta.

Tornata fra le mura amiche e amate di Villa Polissena Muti era serena, brillante come i tempi andati: «Avessi visto come era tenero il mio batuffolo, la mia Pupi», raccontò a Madeleine, «Le avevo detto che al Papa si doveva un inchino speciale e lei, ogni volta che si chinava per imparare, lo faceva con tanto slancio da cadere di colpo sul pavimento».
Il giorno dopo (22 settembre) a Villa Polissena squilla il telefono di mattino presto. La governante risponde. Le chiedono in tedesco di parlare con la Prinzessin von Hessen.
Mafalda è inquieta, non sa che cosa vogliano; ma dopo il colloquio telefonico con l’ambasciata tedesca tornò ad essere, come testimonia Madeleine Durand «euforica come la sera precedente» e le confidò: «Mi volevano per mio marito. Il principe ha avvertito che alle 11 chiamerà di nuovo l’ambasciata dal quartier generale e ha chiesto che io sia là per quell’ora. Così potrò parlargli dopo tanto tempo. Penso che mi comunicherà dove e quando potremo raggiungerlo».
Poi proseguì: «Svelta, Madeleine, aiutami a mettermi in ordine. Non posso fare tardi, non posso mancare all’appuntamento».

Era partita l’«Operazione Abeba»: cattura e deportazione in Germania della principessa d’Assia.
La voce, al telefono, apparteneva ad Herbert Kappler, organizzatore dell’appuntamento.
Kappler, l’occhio di Himmler, poliglotta magistrale e conoscitore perfetto dell’italiano, aveva parlato in tedesco per dare l’impressione alla principessa di riferire testualmente la fasulla conversazione avvenuta con suo marito.
All’epoca il nazista aveva quarant’anni, proveniva da una modesta famiglia di Stoccarda, era entrato nell’amministrazione statale tedesca prima dell’avvento del nazional-socialismo come funzionario della polizia criminale. La sua entrata nel partito era stata simultanea a quella nelle Ss. Intelligente, rapido e incisivo, era dotato di grandissima memoria ed era considerato uno dei migliori poliziotti tedeschi: lo chiamavano «archivio ambulante di polizia». Quando aveva l’impressione di trovarsi di fronte ad un nemico del nazismo e del Reich «diventava strumento cieco dell’implacabile Gestapo», come ebbe a dire il console tedesco a Roma, Eitel Moellhausen, nel volume La carta perdente.

A Roma, Kappler ha il grado di Obersturmbannführer delle Ss ed è capo dell’ Sd (Sicherheits-Dienst), il servizio di sicurezza delle Ss per la difesa del Reich dai nemici soprattutto politici.
Esistono ben 18 telegrammi, dal 12 settembre al 26 ottobre 1943, scambiati fra Kappler e i comandi dei servizi di sicurezza di Berlino in merito alla cattura della Prinzessin von Hessen. Ma sull’«Operazione Abeba» ne dovevano esistere diversi altri prima del saccheggio avvenuto all’archivio romano della Gestapo in via Tasso.
Nei telegrammi superstiti si comprende come le intenzioni di Hitler fossero quelle di catturare altri membri della famiglia Savoia e di confiscare i beni mobili di loro proprietà.
Per esempio il 12 settembre il generale Walter Schellenberg (direttore del servizio segreto civile di Himmler all’estero) telegrafa a Kappler per comunicargli che Enrico d’Assia e i figli del principe ereditario Umberto di Savoia vengano sollecitamente tradotti nel Reich . Ma i telegrammi successivi riguardano solo ed esclusivamente Mafalda di Savoia.
Non è stato molto faticoso per Kappler accrescere il dossier Mafalda e seguire le tracce della principessa dopo il suo rientro in Italia. Nei documenti traspare il timore che potesse raggiungere il padre al sud. Una volta a Chieti fu uno scherzo per il responsabile dell’Sd di Roma intercettare la vittima.
Il 17 e 18 settembre da Berlino viene ordinato di far partire immediatamente per la Germania Fritz Hollenberg, cameriere del principe Filippo d’Assia «recando con sé ogni oggetto di valore del principe». Kappler fa sapere, nella comunicazione successiva, come Hollenberg è stato fatto partire accompagnato dall’ufficiale Haas delle Ss e prega di mandare all’aeroporto un Pkv, cioè un grosso autocarro militare, per trasferirvi quanto è in arrivo.

Occorre ricordare il metodo tedesco: inviare insieme alle truppe, anche nei paesi apparentemente amici, competenti specializzati in requisizioni di opere d’arte. Leggiamo perciò, fra la corrispondenza scoperta in via Tasso, il telegramma n. 2510 delle ore 19 (è Kappler lo scrivente): «Col trasporto speciale del Maresciallo del Reich, partito da Roma il 26 ottobre, viaggia il vagone contrassegnato Kassel 51952, carico dell’arredamento di casa Volpi e del principe d’Assia, nonché di un quadro comprato personalmente dal principe e destinato al Führer, in quanto porta un’iscrizione che si riferisce a Monaco di Baviera. Inoltre l’”Ss-Ustuf” Paulsen ha caricato tre pietre sepolcrali per il museo germanico di Klagenfurt…».
Per l’appunto alcuni paracadutisti tedeschi (i primi giorni di settembre agirono in Roma) fecero omaggio a Göring di un blocco d’opere d’arte requisite in Italia. L’abitazione dell’ex ministro Volpi venne invece svaligiata completamente e con perizia scrupolosa del suo contenuto da provetti intenditori (l’ordine venne da Göring). Nell’occasione furono persino tolti dalle dita della signora Volpi preziosi anelli. Un chiarimento va fatto per il quadro acquistato «personalmente» dal principe Filippo d’Assia: è noto quanto Hitler raccogliesse vedute di Monaco di Baviera, pertanto nel dispaccio si legge la destinazione al Führer.
Lo scambio dei telegrammi si fa pressante e il tempo stringe per chiudere il più presto possibile «l’operazione Abeba». Perciò l’occhio nazista non si sposta più dal suo bersaglio: Mafalda viene osservata ai funerali del cognato a Sofia, a Belgrado, poi non si sa se ritorni a Roma oppure si fermi a Venezia. Kappler, in un lungo dispaccio, segnala a Berlino che la principessa forse per raggiungere il padre, si è fermata a Chieti e ha tentato di mettersi in contatto telefonico con il consorte. Da Berlino Kaltenbrunner risponde con il blitz n. 1709, precisando di aver informato il Feldmaresciallo Kesserling sulla presenza della principessa a Chieti, affinché provveda al fermo e alla consegna alla Polizia di sicurezza della langravia d’Assia.

La principessa, frastornata dagli avvenimenti di quelle ultime settimane, non pensò minimamente come sarebbe stato più semplice telefonare a Villa Polissena, anziché chiamare Kappler all’ambasciata tedesca, tra l’altro il quartier generale di Hitler era provvisto di linee privilegiate con precedenza sul normale traffico telefonico.
«Mafalda continua a non rendersi conto di ciò che realmente è avvenuto in quei giorni e di quanto personalmente ciò la riguardi. Dall’8 settembre, i due titoli che le competono per nascita e per matrimonio… non possono più coesistere [per i nazisti, n.d.a.] nel suo blasone e sono ormai diventati inconciliabili anche nella sua persona» .
Prima di recarsi all’ambasciata in via Conte Rosso, Mafalda si premura di andare all’albergo Imperiale, in via Veneto, dove alloggia il conte Di Vigliano. Sono le dieci e la principessa comunica al cerimoniere di corte di rimandare all’indomani la colazione promessa per quel giorno perché: «La comunicazione internazionale potrebbe farsi attendere a lungo come è già successo».
Questa la testimonianza rilasciata nel dopoguerra dal dottor Nicola Marchitto, il quale accompagnò Mafalda a villa Volkonsky, sede dell’ambasciata tedesca, la mattina del 22 settembre 1943 :
«Il primo ad essere arrestato è l’autista [Cerrutti, n.d.a.], quasi contemporaneamente brutti ceffi, elmetto in testa, mitra a tracolla, vennero verso di noi e senza profferire parola ci condussero a piedi in direzione dell’ambasciata. La scena aveva avuto uno svolgimento fulmineo: era chiaro che nulla era avvenuto per caso, ma io stentavo a capacitarmi di quella perfetta sincronia di movimenti, di ordini, di gesti. La principessa afferrò al volo la situazione e mentre aspettavamo, in mezzo ai due sbirri, che qualcuno si facesse vivo, trovò il modo di dirmi a voce bassa, con una punta di commozione: “Siamo stati giocati. Ma questo non porta bene alla Germania”.

«Trascorsero altri minuti penosissimi, di nuovo mi rivolse la parola: “Le chiedo scusa, forse sono stata poco gentile con lei, ieri. Aveva ragione…”
«”Posso capire, posso ammettere”, continuò la principessa, “che abbiano fermato me. Io ho la nazionalità tedesca e il mio posto in questo momento è in Germania. Ma lei cosa c’entra?”.
«Stavamo parlando, quando all’improvviso si aprirono i battenti del pesante cancello di ferro. Un’automobile scoperta con a bordo un ufficiale superiore tedesco e una donna vennero verso di noi.
«L’ufficiale si avvicinò alla principessa e, esprimendosi nella sua lingua, le chiese dei principini, dove si trovassero in quel momento. Il tono era insolente, ostile. La reazione della principessa fu pronta, il suo sdegno fermissimo. Rispose che non gradiva parlare con una persona che non conosceva. Poi, impersonalmente, senza rivolgersi a nessuno, protestò per l’inganno subito, per il raggiro che le avevano fatto, convocandola quella mattina all’ambasciata con il pretesto di metterla in comunicazione telefonica con il marito.
«L’ufficiale non la lasciò finire. Con modi da sbirro l’afferrò per un braccio e le fece capire che doveva salire sull’automobile. Io come per proteggerla feci un balzo in avanti, mi misi al fianco della principessa, ma a mia volta fui afferrato per un braccio, fatto scendere e risalire davanti, alla destra del soldato che guidava la macchina. L’ufficiale e la donna presero posto sui sedili posteriori, tenendo in mezzo a loro la principessa, ormai prigioniera.
«Si partì a velocità sostenuta. Ci dissero che si andava all’aeroporto di Ciampino, dove un apparecchio in arrivo da un momento all’altro ci avrebbe portato in Germania. Nessuno parlò durante tutto il tragitto, ognuno raccolto nei suoi pensieri, senza più un’illusione sulla sorte che ci attendeva…
«L’apparecchio che doveva portarci in Germania non era ancora arrivato e il contrattempo causò non poche inquietudini all’ufficiale che ci accompagnava. Lo vidi dare disposizioni concitate al personale di servizio; e alla fine si aggrappò al telefono per comunicare, non seppi a chi, che le modalità della nostra partenza erano cambiate: la principessa avrebbe preso il volo subito, con un apparecchio rinvenuto al momento, io l’avrei seguita di lì a poco con l’apparecchio in arrivo.
«La principessa, che non aveva evidentemente perso una sillaba di quella conversazione, trovò il tempo di dirmi:
«”Marchitto, si salvi! Se le riuscirà di fuggire pensi ai miei figli. Mi portano via subito!”.
«Per la prima volta, dopo tutte quelle ore di angoscia, vidi che aveva la faccia rigata di lacrime. Stavo anch’io per dire qualcosa, quando la donna tedesca che ci aveva accompagnato l’afferrò per un braccio e la cacciò di nuovo dentro l’automobile, che partì a grande velocità verso il centro del campo, dove un apparecchio militare con i motori già avviati attendeva di decollare» .

Mafalda è in volo per Monaco di Baviera, accompagnata dal tenente Theil, figlio di un’italiana (al tempo dell’occupazione nazista il tenente conviveva con la segretaria – una signora tedesca divorziata – e divenne un personaggio noto negli ambienti dell’Eiar di Roma, dove curava i programmi radiofonici di propaganda militare), il quale ha il compito di consegnare la principessa al capo dell’Ufficio IV delle Ss. Nonostante il vicequestore avesse visto in quale tagliola fosse caduta la principessa Mafalda e nonostante quest’ultima gli avesse affidato l’incolumità dei suoi figli, Marchitto tolse dal Vaticano i tre principini asserendo che l’appartamento occorreva ai nipoti di monsignor Montini. L’intrigo internazionale si fa sempre più complesso: è il giallo nel giallo.
«Ci affidò al colonnello Kappler», afferma Enrico d’Assia, «che, per completare il suo piano, spedì me e i miei fratelli in Germania…
«Stimo pura fortuna se, nonostante la leggerezza di valutazione della conseguenza del gesto di Marchitto, o altro di cui non sono a conoscenza, oggi posso raccontare quei fatti lontani.
«O forse sono state le preghiere di mia madre a proteggerci, in aggiunta al suo olocausto».
Va sottolineato che la notte del 21 settembre Kappler telegrafò al comando di Berlino: «La principessa Mafalda è moglie del principe d’Assia. Poiché mi risulta che questi è ospite del Führer al quartier generale, prego confermarmi l’ordine di arresto tenendo conto della speciale circostanza».

Kappler dimostra di avere grande prudenza. Conosce la delicatezza dell’«Operazione Abeba» e vuole essere sicuro al cento per cento di quello che sta per accadere.
Riceve subito la risposta- per altro seccata per le sue riserve e titubanze – la quale conferma la cattura e precisa che il principe non è più ospite, bensì prigioniero. Hoettl, firmatario del comunicato, sostiene: «Gli scrupoli sono inutili. E io non sono poi tanto fesso da non saper evitare una grana».
Mafalda agì di sua spontanea volontà. Forse, avesse avuto disposizioni o consigli dai suoi familiari (genitori o marito), avrebbe agito altrimenti. Ma, visto e considerato, che non parlò più con nessuno dei suoi (da prima del suo viaggio in Bulgaria), si comportò secondo i dettami del suo cuore di madre e di moglie.
Spiega l’ingegner Navone: «Mafalda raggiunse Roma da sola e da sola si mise in contatto con l’ambasciata tedesca, come pensava suo dovere di principessa e cittadina tedesca in quel momento e naturalmente come moglie e madre di una famiglia tedesca, divisa fra Italia e Germania, ben lungi da ogni altra considerazione politica di opportunità e prudenza. Ciò prova che Mafalda non fu un’intrigante, come pensavano Hitler e soci, ma una semplice donna, figlia di re, sposa di un principe tedesco».
In Germania le donne che si occupavano di politica erano mal viste, anzi bandite: Mafalda per i nazisti non solo si occupava di politica, ma ora appariva una spia, una traditrice. L’ideale della donna tedesca era quella dell’Ottocento. «Ricordiamoci che nel Settecento le donne erano già a metà emancipate. Fu in gran parte il movimento neoromantico sul finire del secolo successivo che tentò di nuovo sul serio di bloccare la emancipazione della donna» .

Per Hitler la donna doveva restare in casa. Non doveva neppure studiare.
Esiste un film tedesco, girato nel 1936, molto emblematico dal titolo La gioventù va al Führer, e mostra la Hitlerjugend (gioventù hitleriana), in marcia da tutta la Germania verso Norimberga; la Germania appare come un Paese sottosviluppato e le donne si presentano in una sola occasione, in una danza popolare.
«Ci fu un vero e proprio accanimento contro la principessa Mafalda di Savoia», afferma il prof. Giulio Vignoli, studioso di Casa Savoia, nonché docente di Diritto della Comunità europea, di Organizzazione internazionale, di Diritto comunitario alla facoltà di Scienze politiche all’Università di Genova, «anche Maria, sua sorella, fu deportata, come i duchi d’Aosta, in Austria, ma ebbero altri trattamenti.
La posizione di Mafalda era grave: aveva sposato un tedesco.
Comunque i sospetti su di lei iniziarono dall’infausto incontro con il principe Michele a Bad Homburg, un appuntamento fondato su due perni, diplomatico e segreto, purtroppo il risultato fu negativo. Il “pressapochismo” fu evidente: mandare allo sbaraglio Mafalda, senza precauzione alcuna, implicava una reazione tedesca. All’epoca la Germania era ancora nostra alleata e il non essere avvertita di fatti che la riguardavano molto da vicino (interessatissima ai Balcani e dunque del Montenegro) la indussero a studiare la vendetta.
Per quanto riguarda il non mettere in allarme Mafalda, durante il suo viaggio verso la Bulgaria e di ritorno da esso, a mio avviso, fu dovuto ad una ragione: nessuno dei membri di Casa Savoia venne avvertito delle enormi novità che si stavano preparando con gli Alleati. Tutti i figli (tranne Umberto) furono colti di sorpresa.
Probabilmente si sottovalutava anche l’azione e la reazione di Hitler.
Vittorio Emanuele III era un uomo dell’Ottocento, ormai anziano, travolto dagli eventi, disorientato e confuso.
Un punto interrogativo è anche da porre sulla questione dei principini Assia: perché Enrico, Otto ed Elisabetta furono condotti fuori dal Vaticano? Lì sarebbero stati al sicuro, non avrebbero corso alcun pericolo, invece uscirono da quell’isola di sicurezza per l’ignoto. Perché partì l’ordine e da chi? Visto che il padre era già da parecchio imprigionato e la madre già catturata? Il Vaticano ebbe “voci” importanti, altrimenti non li avrebbe lasciati andare».

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Autore: Libertà e Persona

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