I martiri otrantini

Stanno li, ci fissano nel vuoto di enormi orbite, fra tibie e crani svuotati dal tempo. Come in un mosaico monocromo, un rilievo osseo, una scultura contemporanea e provocatoria, ci guardano e alimentano il nostro stupore. Ampi armadi a muro alti tre metri, chiusi da vetri immacolati offrono al nostro occhio solitamente distratto i resti di ottocento esseri umani. I martiri otrantini. E la Santa Vergine come uno scudo, con il bimbo sulle ginocchia sta davanti, quasi volesse dire: “la forza è nell’amore che tengo sul mio grembo e nel sangue che avete dato, come mio figlio… Non temete martiri.”

Furono volti abbronzati dal sole e dal sale di Puglia, furono sogni e pensieri, chiome come bandiere nel vento di un mare di un azzurro impossibile. Furono fanciulli che correvano per le bianche vie del paese spalancando immacolati e straripanti sorrisi fra i chiusi bastioni di Otranto. Furono pescatori e artigiani, abili intagliatori, lupi di mare spavaldi e teneri, che d’improvviso, senza volerlo si fecero guerrieri. Furono belle donne dalla bronzea pelle, dai seni colmi di vita e di latte, dagli occhi scuri come il carbone, dai capelli forti e serici come trecce di un lino purissimo.

Le avevano avvistate all’orizzonte, nel nitido mattino, le sagome e le vele nere del turco musulmano, che sognava, per suo dire, di bivaccare un giorno o l’altro persino in S. Pietro.

La vecchia Anna, nel suo antro pieno di spezie e reti, con i capelli bianchi e intrecciati, stava davanti a un tenue residuo di fiamma, cenere e braci. Fissava un punto lontano come se guardasse il mare o ripensasse al marito, che l’acqua, in un giorno cattivo si era portata via, quando ancora era un ragazzo. Anna gli fu fedele e non prese più uomo, ma un po’ pazza divenne e cominciò a profetare. E la gente del paese la ascoltava da lungo tempo e si fidava. Anna quel giorno doveva aver visto qualche cosa di scuro, di solido e sconosciuto, perché ripeteva una litania lugubre di sciagure e di vele, perché il mare le era tornato ostile. Quel presagio prese forma e si profilò nel mattino di cristallo come una teoria di vele infinite, di gabbiani orgogliosi che puntano ciechi verso terra.

Si credevano discendenti di Enea e legittimi successori dei Troiani, avevano tratti marinari e forti, ampi turbanti e lunghe spade. Corse la voce per le vie, suonarono le campane, non per la festa. Allora il cielo si fece basso e nuvole danzarono come cavalli bizzarri e il silenzio per un attimo fu perfetto. Poi… Diciottomila uomini strinsero d’assedio Otranto, parlando una lingua sconosciuta che fa tremare il sangue, una lingua rapida, risoluta, che suona nelle orecchie come un rimprovero.

Dopo quindici giorni in cui cinsero la città in una ferrea morsa la marea turca dilagò e distrusse tutto quanto incontrò, le donne violentate, i bimbi lanciati in alto e trafitti con la spada. Molti fuggirono nella cattedrale dove li attendeva il vescovo in preghiera. Sono donne e bambini, uomini e ragazzi. Il vecchio arcivescovo Stefano distribuì la S. comunione. Frà Fruttuoso levando alta la voce esaltò la virtù del martirio, di li a poco una scimitarra lo avrebbe tagliato in due. Allora il Vescovo, preoccupato per l’infedele e non di se stesso, gli intimò di convertirsi ma quest’ultimo in risposta gli tagliò la testa.

Sfidato dalla dolcezza e dalla fede di quell’uomo il capo musulmano rimase stupito, quasi vinto. Ma Agomat Pascià, così si chiamava, non pago della strage perpetrata nel santuario fu preso da un onda di rabbia incontrollabile per il tempo perso durante l’assedio. Pensò allora di giustiziare i sopravvissuti alla distruzione della città. Accampato sul monte di Minerva propose agli otrantini rimasti, la resa incondizionata; se avessero abiurato la loro fede avrebbero avuta risparmiata la vita.

Il vecchio cimatore di funi Antonio Primaldo Pezzullo che aveva organizzato la difesa grida :“ Noi abbiamo inteso, fratelli, le larghe promesse fatteci dai turchi. Io a nome vostro, le respingo. Nessuno tema le loro minacce, ma seguaci di Cristo abbracciamo la Santa croce e il martirio che per noi sarà vita eterna. Un coro fece eco alle parole del campione invitto: Si vogliamo morire per amore di Cristo! Ottocento uomini da quindici anni in su , con le mani legate sul nudo dorso a gruppi di cinquanta sfilarono per le vie del paese. L’offerta della vita fu ripetuta e Antonio ancora una volta rispose per tutti: “ Avete sentito a quale prezzo ci viene proposto di comprare gli avanzi di questa misera vita”? E come nuovi martiri del Nerone turco andarono al patibolo sereni.

 Sulla terra percorsa da questi martiri cristiani cammino in un giorno di luglio del 2010, i turisti con le loro macchine fotografiche immortalano il panorama, le vie sono ricolme di negozietti meravigliosi. I corpi abbronzati si sprecano, i gelati colano multicolori dalle mani di grandi e bambini, le guide turistiche illustrano le bellezze di Otranto, nell’aria risuona la taranta, una danza di vita pazza, una magia, un farmaco. Eppure se alzo lo sguardo vedo lo stesso cielo che vide Antonio, se entro in un negozietto per comprare una cartolina, forse sotto quelle volte di pietra profetò Anna.

Poi, scendo nella cripta della cattedrale, dove il vescovo cadde insieme ai suoi fedeli. Sento che sto camminando sopra un immenso altare, dove scorse il sangue purissimo di quei martiri. Risulta allora facile il parallelo con la fede esile, colma di compromessi e di silenzi tipica dell’uomo contemporaneo. Ci sono cattolici che oggi si vantano di vivere come se Dio non esistesse, che fanno di questo vanto un programma ideologico, al fine, dicono, di andare incontro al mondo. Spesso sono credenti grigi, angosciati e irriconoscibili. Il mondo ha chiesto loro quello che il turco invasore chiese agli otrantini: Pubblicamente abiurare, per vivere serenamente la propria fede nel chiuso della coscienza. Così, si profana ancora una volta la forza e l’amore di coloro che seppero morire per gridare la fede. Essi morirono per vivere perché Dio esistesse.

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