La Chiesa, Israele, i profughi palestinesi

La guerra in Israele genera, come quella in Ucraina, molte reazioni di pancia.

Qualcuno giudica i fatti ricordando le inenarrabili violenze subite dagli ebrei durante la persecuzione nazista; qualcuno è guidato, invece, da una antipatia per gli ebrei in quanto tali, addossando magari all’intero popolo le colpe personali di alcuni; altri invece ragionano più o meno così: “se ci sono gli islamici di mezzo, con le loro guerre sante, il terrorismo, il loro disprezzo della donna ecc., è inevitabile stare con l’esercito israeliano!”.

Si tratta in ogni caso di ragionamenti che tengono poco conto dei fatti, che vanno giudicati indipendentemente dalla simpatia o antipatia che si possono nutrire per ebrei o musulmani.

Non siamo infatti davanti ad una guerra razziale e neppure religiosa.

I palestinesi non sono in guerra con gli ebrei perché spinti da un’ ideologia antisemita, né gli ebrei lo sono per motivi religiosi. Tanto più che all’origine del conflitto la religione non fu per nulla implicata: Israele è nato dall’opera di ebrei socialisti e rocciosamente atei come Ben Gurion e Golda Meier, ed anche l’attuale premier israeliano, benché citi episodi biblici, lo fa considerando la Bibbia un libro di storia ebraica, non certo un libro religioso.

Il linguaggio “religioso” dell’estrema destra israeliana, fortemente venata di razzismo, oggi al governo, è del tutto analogo a quello dei nazionalisti degli anni Trenta. Non si dimentichi che tutte le ideologie atee del Novecento utilizzavano un linguaggio pseudo religioso, professando una vera e propria “fede” nazionalista o socialista.

Campi profughi palestinesi

La guerra in Israele ha una sola origine: l’immigrazione costante e massiccia di ebrei in Palestina sino alla nascita di Israele nel 1948. Allora l’Europa e l’America vollero “risarcire” gli ebrei delle persecuzioni subite, ma lo fecero a danno di un popolo, quello che abitava quelle terre, che non aveva alcuna colpa.

Così lo storico padre Giovanni Sale:

La votazione sulla spartizione della Palestina, dopo lunga e faticosa preparazione, si svolse il 29 novembre 1947; essa fu approvata, grazie all’intervento degli Stati Uniti, da 33 Paesi, e fu respinta da 13 Paesi arabi, i quali non le riconobbero alcun valore. Gli astenuti, tra cui la Gran Bretagna, furono 10. Come è possibile, scrisse a tale riguardo uno storico palestinese, che il 37% della popolazione (cioè gli ebrei) avesse ottenuto il 55% del territorio, del quale fino a quel momento aveva posseduto soltanto il 7%? I palestinesi «non capivano perché si facessero pagare a loro i conti dell’Olocausto […]. Non capivano perché fosse ingiusto che gli ebrei restassero minoranza in uno Stato palestinese unitario, e invece fosse giusto che quasi la metà degli arabi palestinesi diventasse dalla sera alla mattina una minoranza soggetta a un potere straniero»[2]. I delegati arabi dichiararono apertamente che qualunque tentativo di applicare la Risoluzione dell’Onu avrebbe dato origine a una guerra: i capi sionisti lo sapevano e di fatto iniziarono a organizzarsi per lo scontro finale. Dagli occidentali la Risoluzione 181 dell’Onu fu accolta in modo favorevole; essa fu considerata come un gesto riparatore della civiltà europea nei confronti dell’orrore dell’Olocausto, «il pagamento di un debito da parte di nazioni consapevoli che avrebbero dovuto impedire, o almeno limitare, la portata della tragedia degli ebrei durante la seconda guerra mondiale»” (https://www.laciviltacattolica.it/articolo/la-fondazione-dello-stato-di-israele-e-il-problema-dei-profughi-palestinesi/)

Mentre tutto ciò accadeva, quale la posizione della Santa Sede?

Il primo a esprimere forti perplessità fu già Benedetto XV nel 1917: preoccupato dall’atteggiamento britannico, intuì che si stava facendo un pasticcio, e che i cattolici di Terra Santa sarebbero rimasti schiacciati tra palestinesi islamici ed ebrei atei e socialisti. Capì anche che la questione territoriale avrebbe presto coinvolto anche quella religiosa.

Da allora la Chiesa ha sempre avuto una posizione chiara: l’Occidente, l’Onu, l’impero britannico ecc, insomma gli attori occidentali, hanno agito con grande superficialità e arroganza; questo non poteva che favorire il sorgere di conflitti e mettere i cristiani tra una morsa.

Alla nascita di Israele, come noto, Pio XII non riconobbe il nuovo stato: sia per quanto già detto; sia per il rifiuto di Israele di internazionalizzare Gerusalemme, riducendo così le possibilità di un conflitto; sia per le violenze che le chiese cristiane subirono, da subito, da parte di coloni ebrei.

Fin dalla fondazione di Israele, infatti, la profanazione di chiese, i roghi di Vangeli, gli sputi pubblici alle processioni cattoliche e al crocifisso, secondo una ritualità già medievale, destarono l’indignazione del mondo cattolico in tutta Europa.

Non va infine dimenticato che la Chiesa, che si era adoperata in ogni modo per salvare gli ebrei dai nazisti, in questa circostanza prese apertamente le parti dei profughi palestinesi. Molti oggi minimizzano questo fenomeno, che invece fu poderoso e generò una forte mobilitazione a favore dei profughi Palestini, cristiani o musulmani che fossero.

Basti scorrere alcuni titoli dell’Osservatore Romano di quell’anno:

La Terra Santa fu così fortemente nel cuore di Pio XII che egli redasse in breve tre documenti sul tema. Tra questi la IN MULTIPLICIBUS CURIS (https://www.vatican.va/content/pius-xii/it/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_24101948_in-multiplicibus-curis.html ) in cui scriveva tra l’altro:

la miseria dei miseri e il terrore degli atterriti, mentre migliaia di profughi, smarriti e incalzati, vagano lontano dalla patria in cerca di un ricovero e di un pane.A rendere più cocente questo Nostro dolore contribuiscono non solo le notizie che continuamente Ci giungono di distruzioni e di danni causati agli edifici sacri e di beneficenza sorti attorno ai luoghi santi, ma anche il timore ch’esse Ci ispirano per la sorte di questi stessi luoghi, disseminati in tutta la Palestina e in maggior numero sul suolo della città santa, che furono santificati dalla nascita, dalla vita e dalla morte del Salvatore.

La posizione di Pio XII è rimasta nei decenni la stessa: la Chiesa ha sempre condannato l’estremismo islamico e il terrore, ma anche le condizioni che lo rendono possibile e diffuso (senza considerare i doppi giochi di quei governi israeliani che hanno alimentato Hamas per poterlo poi utilizzare al fine di inasprire lo scontro e giustificare un pugno ancor più duro); ha lottato contro le persecuzioni da parte di militanti islamici, ma anche denunciato le persecuzioni in guanti bianchi dei governi isrealiani, persecuzioni cresciute anche durante i mandati di Netanyahu; ha assistito i èrpfughi palestinesi sparsi qua e là ( https://www.limesonline.com/carte/carta-rifugiati-palestinesi-14719002/ ); infine ha continuato a chiedere che i coloni isrealiani smettessero di sottrarre sempre nuovi territori ai palestinesi, contro ogni diritto, con l’uso della mera forza.

In generale, come dimostrano i numerossisimi incontri concessi da Giovanni Paolo II ad Arafat, ma anche le parole di Benedetto XVI, e, oggi, dei cardinali Pizzaballa e di padre Patton, non ha mai dimenticato che all’origine dei fatti di sangue vi è una ingiustizia di fondo: l’aver voluto riparare all’ingiustizia subita dagli ebrei, compiendone una nei confronti della popolazione autoctona, condannandola alla fuga e in vari casi ad una condizione di assoluta minorità (a cui sono sottoposti anche, sebbene in misura minore, i palestinesi cristiani), denunciata per fare un solo esempio, anche da tanti ebrei illustri e illuminati, come Albert Einstein, Hannah Arendt, Noam Chomsky e molti altri.

Una nota finale: l’idea che Israele sia la diga contro il terrorismo islamico viene spesso ripetuta, ma non è per questo meno demenziale. Dopo l’iniqua guerra in Iraq e gli anni folli delle “guerre infinite” di Bush, il terrorismo islamico riprese vigore, come era logico, e l’islamismo si risvegliò anche dove era assopito e quasi scomparso. Lo denunciarono tutte le agenzie di intelligence americane. Ogni atteggiamento di tipo biecamente colonialistico non può che generare ingiustizie ed odio, ed è inevitabile che contribuisca a nutrire tendenze violente, più o meno latenti. Che poi l’islam sia un terreno più fertile di altri, non significa che anche il terreno fertile richiede, di solito, che qualcuno lo semini.

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Autore: Francesco Agnoli

Laureato in Lettere classiche, insegna Filosofia e Storia presso i Licei di Trento, Storia della stampa e dell’editoria alla Trentino Art Academy. Collabora con UPRA, ateneo pontificio romano, sui temi della scienza. Scrive su Avvenire, Il Foglio, La Verità, l’Adige, Il Timone, La Nuova Bussola Quotidiano. Autore di numerosi saggi su storia, scienza e Fede, ha ricevuto nel 2013 il premio Una penna per la vita dalla facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, in collaborazione tra gli altri con la FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana) e l’Ucsi (Unione Cattolica Stampa Italiana). Annovera interviste a scienziati come  Federico Faggin, Enrico Bombieri, Piero Benvenuti. Segnaliamo l’ultima pubblicazione: L’anima c’è e si vede. 18 prove che l’uomo non è solo materia, ED. Il Timone, 2023.