OCCHI DI OSSIDIANA DI UN VECCHIO EMIGRANTE. Peppe U Carbunaru.

Fonte – Gravina oggi

Nonno Giuseppe era un calatino poco avvezzo al riso; serio, viso spigoloso, baffetti sottili. Uomo di poche, pochissime parole, pareva incarnare il monito di evangelica memoria: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no. Il di più viene dal maligno.” (Mt 5,37). Quando riascolto nella mia mente le “cose” della sua infanzia, raccontate con parole

centellinate, estorte con la santa pazienza, mi sembra di veder materializzarsi davanti a me un Tom Sawyer dei tempi moderni.

A otto anni si spostava da solo, nelle contrade semideserte che circondavano il paese, per andare a scuola o per raggiungere suo padre alla “fossa” del carbone. Da bambino abitava nella Contrada Noce con la sua numerosa famiglia che contava sette figli.

A girovagare ora per quelle terre “muore il cuore” poiché lo spazio è stato riempito per costruire il carcere nuovo (quello vecchio, “Il carcere di San Bonaventura” si trova esattamente nel punto più alto del paese vecchio e l’altro di remota memoria, “il carcere Borbonico”, è situato al centro del paese): uno spaventoso cubo di cemento che deruba lo sguardo di tutto l’orizzonte.

Nonno Giuseppe apparteneva, sia pur nella memoria, a una vecchia famiglia di carbunari. E carbonaio era nato Giuseppe, perché figlio di carbonaio.

Queste famiglie esercitano il mestiere per generazioni. Si tratta di un lavoro difficile e particolare che si ricorda dalla notte dei tempi (da quando Prometeo rubò il fuoco agli dei?) ed è testimoniato già al tempo dei Fenici.

Carbonia – Fonte Beni Culturali imeresi

Ė “affare” complesso e, soprattutto, durissimo, per “genti altre” lontane da quelle moderne, non più abituate alla fatica. Gli uomini moderni accettano, sì lo sforzo, purché finalizzato ad uno scopo ludico o, quantomeno, mosso da un interesse personale.

La fatica, in quanto ingrediente del vivere quotidiano, non è più pensabile e non è contemplata nell’idea che ci siamo forgiati della civiltà moderna (Occidentale). Ecco perché questo mestiere, a breve, lo racconteremo soltanto, dato che un simile modo di vivere non è più, oggi, proponibile.

L’idea di tempo scompare perché la carbonaia va controllata e alimentata anche di notte. I carbonai siciliani usano dire «andiamo a “civare” (imboccare) a fossa», ad indicare che questa va curata come un figlio. 

Fonte – Pinterest

Un errore durante la cottura per la trasformazione del legno in carbone comporta la perdita di settimane di lavoro e di mancato guadagno. Quando mio nonno me ne parlava leggevo ancora lo sconforto trasparire dai suoi occhi, perché una fossa di carbone “mancata” era una disgrazia per l’intera famiglia. Lo è ancora oggi per i pochi carbonai rimasti.

Tutti i membri della famiglia, e un tempo anche i più piccoli, sono coinvolti durante la preparazione della carbonaia e poi nell’insaccamento del carbone.

Nonostante venga denominata “fossa”, essa è sopraelevata e può avere la forma di un igloo o, se è più grande anche di una montagnola. In verità, si scavano anche delle buche, ma solo per la produzione della carbonella per ottenere la quale si deve cuocere il legno in buche sotto terra.

L’inizio del lavoro consiste nell’estirpare la vegetazione dalla piazzola scelta per costruire la “fossa”. Il lavoro più faticoso è quello di tagliare la legna che il piccolo Giuseppe, però, guardava fare agli uomini, mentre lui si occupava dei legni più sottili da raccogliere e portare alla carbonaia.

Si trattava di rami caduti dagli alberi o anche di ramoscelli della Ginestra dei carbonai che, proprio perché utilizzata da questi uomini nel loro lavoro, si è guadagnata tale nome. Oltre che per bruciarli, i rami di questa pianta, venivano utilizzati per costruire il tetto delle capanne dove vivevano durante il lavoro.

Per fare questo il giovane Giuseppe si perdeva la scuola che «Beh, nenti ci fa, ché tanto è lontana da raggiungere!».

Poi i legni vengono disposti in verticale a formare una specie di cono molto largo alla base e più piatto verso l’alto con un’apertura in cima. Lo si ricopre, quindi, con uno strato di foglie e frasche e, ancora sopra si mette la terra in modo che non entri aria e che il legno possa “cuocere” senza fiamma e trasformarsi in carbone anziché in cenere.

Fonte – I luoghi del silenzio (QUI)

Preparata la “fossa” si introduce il fuoco nel camino da una piccola fessura chiamata “purtedda”, con una palata di brace e quando il fuoco inizia ad ardere, si copre l’apertura e si praticano piccole bocche lungo i lati per permettere la respirazione.

D’altronde carbone è dal greco “Karpho”, asciugare, ovvero la lenta cottura sotto le cupole in assenza di ossigeno. Quello che fuoriesce non è fumo (le esalazioni non sono nocive), ma è vapore. E l’aroma cambia a seconda del legno che si usa: leccio, faggio, …

In base al colore del fumo che fuoriesce dai fori laterali, il carbonaio può seguire l’andamento della combustione: solo quando il fumo è turchino e trasparente il carbone è pronto. Quello di ottima qualità deve “cantare bene”, cioè fare un bel rumore.

Non va sottovalutato l’alto valore culturale di questo lavoro e la sua importanza a livello ambientale. I carbonai svolgono un’azione di cura dei boschi; li puliscono, li controllano e tutelano. Infatti la carbonizzazione del legno è stata da sempre un’attività economica trainante nel territorio siciliano; questo anche in virtù del fatto che in esso è custodito un immenso patrimonio boschivo e ha permesso la nascita di attività legate al bosco stesso.

Essi sono delle importanti sentinelle del paesaggio, come pure tutti gli agricoltori… I carbonai, infatti tagliano gli alberi rispettando alcune disposizioni di legge che prevedono un diradamento (“taglio”) delle piante e non un disboscamento.

Fonte Wikipedìa

Un documento storico della fine dell’Ottocento recita: “La legna per fare carbone deve provenire dai tagli di diradamento eseguiti nelle giovani faggete e dai materiali di scarto”.

In alcune zone il mestiere è ancora praticato, facendo così sopravvivere quel mondo misterioso costruito attorno ad esso, animato da personaggi immaginari. Una leggenda vuole che la Befana, attraversando le selve, durante il suo viaggio, si fermi proprio nelle carbonaie per prendere dei tizzoni da portare ai bambini non troppo buoni.

O l’insieme di credenze e riti esistenti intorno all’uomo nero del carbone.

E non possiamo offendere la Storia dimenticando le Società segrete che si ispirarono ai carbonai.

Massoneria, Carboneria, Società Segrete Repubblicane
Fonte Associazione Mazziniana

Alla fine del XIV secolo molti francesi, per sfuggire alla tirannia della regina Isabella, abbandonarono le città per nascondersi nelle foreste delle Alpi. Quando decisero di fondare una società segreta la chiamarono “Carboneria”. Le diedero questo nome poiché per vivere essi vendevano il carbone che ottenevano con la legna ricavata dalla foresta.

Più tardi, ancora i francesi, fondarono una società segreta per combattere il dominio di Napoleone e la chiamarono anch’essi “Carboneria”.

Anche i patrioti italiani adottarono quel nome per la loro.

Fonte – I percorsi della storia

Le riunioni si tenevano in una grande sala. Su di una parete c’era un quadro che raffigurava S. Teobaldo (1033-1066), innalzato a protettore della Società grazie al lavoro che svolgeva in villaggi nei pressi delle foreste.

Il simbolo stesso della Carboneria era rappresentato dagli strumenti tipici dei carbonari e venivano utilizzati, inoltre, riti di iniziazione e un linguaggio simbolico, indecifrabile dai non adepti, che richiamava l’antico mestiere.

Il carbone stesso era simbolo dell’attività che doveva tenere vivo il fuoco della Libertà; proprio come il carbonaio doveva tenere vivo il calore all’interno d’u fussune. Per questo non poteva spostarsi da lì e quindi viveva nel bosco in una capanna da lui stesso costruita: “u pagghiaru”.

Questa maniera di vivere sopravvive in alcuni modi di dire che “la dicono lunga” sulla loro identità: “U stissu c’iu rissi ‘u cabbunaru” (“Tutto è uguale lo dice solamente il carbonaio”), poiché per costui un pezzo di carbone vale l’altro. Questa frase viene usata quando si vuole sottolineare una differenza tra situazioni, persone o cose, in contrapposizione a chi tende ad appiattire, banalizzare o omologare.

U carbuni s’un tinge, mascarìa” (“Il carbone se non colora sporca”), è l’equivalente de “Il lupo perde il pelo, ma non il vizio”.

Giuseppe Pitrè (1841-1916), noto antropologo siciliano, testimonia dell’importanza di questo materiale che veniva usato da uomini facoltosi come dono per favori ricevuti: “Copriamoci gli occhi per non leggere altro. No, non si tratta più, osserva giustamente un egregio uomo, di un gentile dono di carbone che il ricco produttore e proprietario delle carbonaie di Coronia facea ai magistrati che doveano decidere delle sue liti…”.

E testimonia, ancora, di come il prezzo del carbone fosse, a volte, oggetto di contese e condanne: “Giovanni Cane, carbonaio […] per molti mesi vendette a 14 o 15 tarì (moneta araba) la salma (“sarma”: unità di misura di Superficie agraria che corrisponde a 17.415,37 metri quadrati), il carbone che avrebbe dovuto per accordo ed ordine del Senato vendere solo a 12 tarì (L. 5,10). Guarentito dai suoi amici scampava il carcere; ma il ribaldo lasciava nelle peste i suoi benefattori col solito rifugio sacro…”. (Villabianca, 1794, p. 619; ed. a. 1796, p. 379). (G. Pitrè, Folklore. Opere complete di Pitrè, cap.XIV “Asilo sacro, o immunità ecclesiastica”, pp. 241-242).

La famiglia di Giuseppe o “ri carbunari” non era facoltosa, non doveva elargire doni e non speculava di certo sul prezzo del carbone vista la sua situazione economica. “U fussune” era esclusivamente fonte di sostentamento.

Ma il carbone aveva lo stesso colore della vita che molti a quel tempo conducevano: quello dell’ossidiana. Di una pietra vulcanica, “sputata” fuori dal ventre della Madre Terra, tanto incandescente quanto il carattere siciliano. La sua “anima” è così pulsante che questa pietra ha una storia antichissima, fatta di credenze popolari e leggende, in particolar modo tra i Maya e gli Aztechi, dove le statue del dio della notte, Tezcatlipoca (“specchio fumante”) venivano spesso scolpite nell’ossidiana.

E così, per mitigare un poco l’intensità di quell’”assenza di colore”, un bel giorno Giuseppe, Giuseppina sua moglie e i loro tre figli, prepararono le valigie e le riempirono di poche cose e di tanta speranza.

Caltagirone. I campanili del Calatino – Fonte La Gazzetta del Calatino

Quel giorno si lasciarono alle spalle il loro “campanile” e Giuseppe divenne, genericamente “italiano”: mai più interamente calatino, né mai completamente milanese. Un limbo esistenziale nel quale, per lo meno in principio, ci si riconosceva uomo, uomo siciliano, solo rifugiandosi tra i propri nomi ed il proprio dialetto.

Il lavoro portò il benessere e questo richiuse la ferita. Ma la cicatrice… quella, forse, avrebbe avuto bisogno del balsamo che le civiltà precolombiane realizzavano con la polvere di ossidiana al fine di far guarire più in fretta le ferite ed attenuare il dolore.

Nonno Giuseppe ha vissuto alla maniera del “Continente”, ma non è mai diventato un uomo “d’oltre Faro”.

(S’intende il Faro di Messina. Le vicende storiche collegate al toponimo del “Faro di Messina” ebbero inizio il 27 luglio 1139, quando Papa Innocenzo II legittimò la nascita del Regno di Sicilia. Il “Regno di Napoli” era detto anche “Regno di Sicilia di qua dal Faro”; l’”isola di Sicilia” veniva indicata dai re di Napoli come “Regno di Sicilia di là dal Faro”, definizione che restò fino al 1860).

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Autore: Francesca Bronzetti

Insegnante specialista di Religione Cattolica nei licei e di Teologia alla Università Cattolica del sacro Cuore di Milano.

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