‘L’ESKIMO IN REDAZIONE’: RILETTURA DI UN CLASSICO. Un invito a levare il dito nell’occhio quando l’informazione diventa accecante

‘L’eskimo in redazione – Quando le Brigate Rosse erano sedicenti’ di Michele Brambilla, Edizioni Ares 1991.

Un volume datato, di un’epoca che non c’è più. Ho pensato di riproporlo per una rilettura che può diventare illuminante, nel contesto dei nostri giorni.

Invito tutti a dissipare ogni perplessità sull’interesse di questo saggio ed anzi rilancio: credo che andrebbe adottato negli istituti scolastici delle medie superiori come testo di approfondimento in varie materie: italiano, storia, filosofia, educazione civica …

Questo libro è infatti un prezioso affresco storico. La storia, si sa, è maestra di vita. Ma purtroppo questa maestra ha ben pochi allievi e quindi non viene granché seguita.

‘L’eskimo in redazione’ è un manuale per aspiranti allievi degli insegnamenti della storia. Chi gli presterà una giusta attenzione potrà decifrare il nostro tempo e le epoche passate con una impensata profondità e con occhi diversi.

Una chiave di lettura

Per prima cosa, come chiave di lettura, proporrei un confronto di quel clima storico e di quella situazione politica dell’Italia anni ’70 con l’attuale contesto sociopolitico, ossessionato da dogmi che non possono essere messi in discussione (in primis agenda gender e poi gestione delle emergenze sanitarie, climatiche, di transizione ecologica, etc).

Sono impressionanti le analogie tra il pensiero unico comunista di quell’epoca e l’attuale regime ‘diversamente democratico’ di liberalismo reale; è sorprendente costatare la stessa attitudine di giornalisti ed intellettuali di ieri come di oggi ad accodarsi ad un copione ideologico di moda. E, oggi come allora, il mainstream rimane implacabilmente progressista. Sebbene con una virata verso l’ideologia liberal che ha ormai inglobato le vecchie concezioni politiche di destra e sinistra.

L’egemonia culturale della sinistra di quegli anni era tale in ogni ganglio del potere (oltre alle istituzioni politiche occupava scuola, magistratura, informazione, persino parrocchie), che concedeva legittimità di pensiero ed espressione solo al progressismo perbenista, allora riconducibile al pensiero marxista.  Qualunque voce che esprimesse dubbi o critiche a tale orientamento era automaticamente bollata come ‘fascista’. E si sa, la gente per bene non parla con i fascisti; chi era accreditato con questo stigma non poteva partecipare ad alcun tavolo di discussione né esprimere la sua voce.

Stampa politicamente corretta: rassegne rassegnate a seguire il conformismo

Le rassegne stampa che commentavano i sanguinosi attentati degli anni ’70 erano caratterizzate da una faziosità e doppiopesismo molto imbarazzante.

Siccome la violenza doveva essere un connotato tipico della destra, ecco che per molti anni (fino all’uccisione di Moro nel ’78) i brigatisti rossi venivano considerati, provocatori di destra. Ad esempio, il sequestro del giudice Sossi, nel ’74, per molti giornali aveva lo scopo di ricompattare i conservatori per favorire il fronte del sì al referendum per l’abrogazione del divorzio. Dice Brambilla nel suo libro1 che se la rivendicazione di un attentato era di destra non c’era dubbio che il gesto fosse stato compiuto da fascisti; se invece era di sinistra era chiaro che la rivendicazione era falsa e che i fascisti attentatori agivano per gettare discredito sulla sinistra.

La parola ‘sedicente’, riferita per troppi anni alle Brigate Rosse, adombra questa teoria, che cioè queste si qualificassero in modo abusivo. Lo stesso Sandro Pertini commentava che le Brigate Rosse di rosso hanno solo il nome.

La firma di punta del Giorno, Giorgio Bocca, il 23 febbraio 1975 se ne usciva con questa acuta disamina, nell’articolo intitolato L’eterna favola delle Brigate Rosse2:

‘A me queste Brigate Rosse fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e i prefetti ricominciano a narrarla, mi viene come un’ondata di tenerezza perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla’. L’autocritica di Bocca arrivò solo nel 1979 quando, in un articolo pubblicato su Repubblica il 13 febbraio ammise3

In quegli anni noi cronisti non capimmo niente della sinistra armata.

Il pericolo principale, ravvisato dal pensiero unico dell’epoca, era quello del golpe fascista e la strategia della tensione era unicamente attribuibile a terroristi di destra, a frange militari deviate o a funzionari dello Stato italiano al soldo della CIA.

Quando le BR si scatenavano, entravano in azione anche eserciti di cronisti, pronti a pilotare l’informazione. Così, quando nel giugno ’74 vennero uccisi due missini con azione rivendicata dalle BR, il quotidiano la Stampa commentò: ‘Tracce (forse troppo vistose) conducono alle Brigate Rosse’. L’insinuazione era forse quella che i missini fossero stati fatti fuori da qualcuno di destra o che magari si erano ammazzati da soli?

I lettori, dunque, apprendevano di fatti di terrorismo come guardando in una lente deformante, ricavandone immagini indefinibili.

Assassinio Annarumma: agente di polizia, sprangato da manifestanti

Fonte Wikipedia

Brambilla analizza alcuni episodi emblematici dell’escalation terroristica. Particolare importanza riveste l’assassinio avvenuto il 19 novembre 1969 del ventiduenne agente di polizia Annarumma, che ebbe il cervello spappolato da una spranga di metallo, sferrata da un manifestante; terribile epilogo di uno dei tanti e violenti cortei che seminavano terrore e danni nelle vie centrali di Milano. Quella tragedia ebbe per testimoni inconfutabili tre altri agenti di polizia che videro da vicino il colpo (uno di essi estrasse il tubo dalla testa della vittima). Fotografie, autopsia e perizie varie certificarono la dinamica di quella brutale esecuzione ma, per il Corriere d’Informazione4

Resta il mistero sulla fine di Antonio Annarumma, l’agente di polizia morto nel ’69

durante lo scontro con i dimostranti.

Si notino, osserva Brambilla, ‘fine’ invece di omicidio e ‘morto’ invece di ucciso. Per non parlare di uno ‘scontro con i dimostranti’ che mette sullo stesso piano il persecutore con la vittima, come se il povero Annarumma avesse cercato lo scontro contro chi gli ha spaccato il cranio con il tubolare.

Il rapporto immediatamente successivo a tali fatti, inviato al Ministero dell’Interno da Libero Mazza, prefetto di Milano, è un documento di fine analisi del momento storico e di lungimiranza. Brambilla lo analizza con gli occhi pacati di un osservatore imparziale. Ma il fanatismo dell’epoca riuscì a trasformare il prefetto (già protagonista della Resistenza) in un infame reazionario, non perdonandogli quel rapporto che denunciava la violenza di sinistra mettendola sullo stesso piano di quella di destra.

Per capire il clima di quei tempi, Brambilla dice che bastava commemorare l’anniversario della morte di uno degli autori più amati dagli italiani, Giovannino Guareschi, che aveva il torto di non essere stato allineato a sinistra, per ‘essere ritenuti non solo dei fascisti, ma addirittura complici morali dei bombaroli che sterminavano innocenti sui treni’5.

Il ‘Caso Feltrinelli’

Interessante è poi la rievocazione della morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, miliardario rosso che dopo aver finanziato numerosi gruppi terroristici anche stranieri (in particolare il gruppo tedesco Baader-Meinhof) e fiancheggiato la rivoluzione con numerosi opuscoli sulla guerriglia e sulle tecniche di lotta e sabotaggio, si prestò anche all’esecuzione materiale di attentati. Trovò infatti la morte a Segrate, maneggiando incautamente una carica di dinamite che doveva far saltare un  traliccio e quindi provocare il black-out in una zona di Milano. Tale azione, congiuntamente al sabotaggio di un altro traliccio ad Abbiategrasso, ‘doveva garantire una migliore operatività a nuclei impegnati nell’attacco a diversi obiettivi’, come confermato nel comunicato 4, letto nell’udienza dell’ 1 aprile 1979 dai brigatisti imputati al processo. Eppure, nonostante la chiarezza della ricostruzione di quell’evento derivante anche dall’autopsia e da accurate perizie tossicologiche e nonostante le immediate rivendicazioni dell’attentato da parte di Potere Operaio, la sinistra impose ad oltranza la teoria mistificatoria del complotto. Omicidio di Stato: Feltrinelli era stato drogato, assassinato, e poi portato sul luogo dell’attentato. Persino il segretario del partito comunista Berlinguer arrivò a dire che ‘pesante è il sospetto di una spaventosa messa in scena’(Corriere della Sera del 18 marzo 1972)6

Il martirio di Calabresi, linciato da campagne d’odio

Luigi Calabresi – Fonte Wikipedìa

Brambilla dedica poi molte pagine alla rievocazione dei fatti che portarono all’esecuzione del commissario Calabresi, freddato il 17 maggio 1972.

La sua persecuzione inizia quando il 15 dicembre 1969, da una finestra della questura di Milano, precipitò il ferroviere Pinelli. Quest’ultimo era stato fermato per interrogatori dopo la strage di Piazza Fontana, avvenuta tre giorni prima.

Le indagini appurarono in seguito l’innocenza del sospettato. Ma anche il commissario Calabresi non poteva essere accusato di niente: nel momento della disgrazia era assente. L’accusa, tanto perentoria quanto infondata, dei giornalisti (in particolare dell’Avanti, dell’Unità e di Lotta continua), fu di brutale assassinio: il commissario avrebbe volontariamente spinto il Pinelli dalla finestra, dopo averlo tramortito con un colpo di karatè. La violenta campagna diffamatoria contro Calabresi, scoppiata senza neanche considerare la perizia necroscopica su Pinelli e la dinamica dei fatti fornita dalla polizia, sfociò in una terribile fatwa. Il giornale Lotta Continua in quei giorni si espresse in questi termini, contro chi aveva già giudicato come torturatore nonché agente della CIA: ‘Siamo stati troppo teneri con il commissario di PS Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente… di continuare a perseguitare i compagni. Facendo questo però, si è dovuto scoprire, il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato ad odiarlo… È chiaro a tutti che sarà Luigi Calabresi a dover rispondere del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e dovrà pagarla cara’7.

Al linciaggio giacobino si accodarono presto tutti i maggiori quotidiani: quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali (fra cui alcune cattoliche) sottoscrissero un documento di solidarietà a Lotta Continua.

Diventò una moda minacciare e diffamare il commissario Calabresi: il 13 giugno 1971 l’Espresso pubblicò un documento, ultimo della serie, una lettera aperta a firma di circa ottocento rappresentanti della cultura italiana, in cui tra l’altro il commissario Calabresi veniva definito un torturatore e responsabile della fine di Pinelli.

Dario Fo deliziò le platee con un’opera teatrale ‘Morte accidentale di un anarchico’, incentrata su quella vicenda. Al cospetto di Fo, scrive Brambilla, si inginocchiarono tutti i critici. Persino quello dell’Avvenire scrisse:

‘Estro assillante, gusto del paradosso, felice ispirazione… all’attore-autore tutto il consenso che gli è dovuto’8.

Le successive indagini, condotte dal magistrato D’Ambrosio, uomo dichiaratamente di sinistra, portarono all’assoluzione di ogni accusa a carico di Calabresi, quando ormai era già stato assassinato. Escluse le ipotesi di omicidio e suicidio, restò come più verosimile quella di un malore. Pinelli, solo nella stanza, stanco dopo tre giorni di interrogatori, e probabilmente digiuno, dopo molte sigarette si sarebbe affacciato alla finestra per prendere aria e, colto da capogiro, sarebbe precipitato.

Luigi Calabresi fu ‘giustiziato’ il 17 maggio 1972. Paese Sera il giorno dopo non concesse pace o tregua neanche al suo cadavere:

Non è da escludere che sia stato ucciso… da sicari assoldati soltanto per alimentare la

strategia della tensione e il polverone fascista9.

Sulla stessa falsariga il Manifesto (‘La logica politica e la tecnica dell’attentato fanno pensare a un nuovo episodio del complotto reazionario’). L’Unità invece, lo stesso giorno commentò: ‘Fascisti e destra della DC tentano di speculare sul criminale episodio’10

Per motivi di spazio non mi dilungherò sugli omicidi dei giovani Ramelli e Brasili, simpatizzanti uno di destra e l’altro di sinistra, ai quali Brambilla dedica un interessante approfondimento. Entrambi furono accerchiati e brutalmente massacrati per futili motivi o pretesti da branchi di picchiatori. I cliché informativi dell’epoca fornirono però resoconti diversi e molto faziosi. Il morto di sinistra suscitò il giusto sdegno e veementi invettive, mentre, quello di destra fu considerato vittima dei fascisti perché, come dichiarò per esempio il politico del PSDI Luigi Vertemati, ‘la logica della violenza individuale è una logica fascista’. Quasi nessuno capì che la violenza non ha colore.

L’attentato a Montanelli

Indro Montanelli – Fonte Corriere.it

Un ultimo accenno merita il capitolo sull’attentato contro Indro Montanelli. Questo giornalista rappresentava allora la voce più forte contro il pensiero unico di quei tempi.

Fu ferito alle gambe con quattro revolverate da un commando delle BR il 2 giugno 1977: quell’attacco fu uno dei più clamorosi casi di censura politica attuata dai mass-media. Montanelli era probabilmente il più famoso giornalista dell’epoca, anche a livello internazionale; eppure, il giorno dopo l’agguato, furono pochi i quotidiani che specificarono nei titoli il nome della vittima e il motivo dell’attentato. Ecco alcuni dei titoli: ‘Giornalista ferito’, ‘Dopo i magistrati e le forze dell’ordine i gruppi armati colpiscono la stampa’, ‘I giornalisti nuovo bersaglio della violenza’. Poca, e a denti stretti, la solidarietà espressa dai colleghi, timorosi di svelare l’esistenza di trame violente di sinistra, perpetrate da silenziatori dell’opposizione. 

Montanelli aveva la colpa di rappresentare la maggioranza silenziosa (e oppressa) che non si riconosceva più nella rappresentazione faziosa e ambigua della realtà spacciata dagli organi di informazione. Da lì a poco, il giornalista si staccò dal Corriere della Sera, dove era inviso e ostacolato, e fondò con altre firme prestigiose la testata indipendente ‘Giornale Nuovo’.

Moltissimi altri fatti, aneddoti e ricostruzioni di Brambilla meriterebbero di essere ricordati. Questo libro è insomma una miniera di spunti che ci restituisce un quadro abbastanza dettagliato degli anni di piombo. E che ci fa capire che il piombo delle tipografie riusciva a colpire anche più duramente di quello delle armi.

…………….

1 – Vedi Brambilla M., L’Eskimo in redazione, Edizioni Ares 2010, p. 21

2 – Brambilla M., op. cit., p. 15

3 – Brambilla M., op. cit., p 126

4 – Brambilla M., op. cit., p. 58

5 – Brambilla M., op. cit., p.85

6 – Brambilla M., op. cit., p. 109

7 – Brambilla M., op. cit., p. 137

8 – Brambilla M., op. cit., p. 145

9 – Brambilla M., op. cit., p. 149

10-Brambilla M., op. cit., p. 152

11-Brambilla M., op. cit., p.

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Autore: Roberto Allieri

Nato a Pavia nel 1962, sposato e padre di quattro figli, risiede in provincia di Bergamo. Una formazione di stampo razionalista: liceo scientifico, laurea in giurisprudenza all’Università di Pavia e impiego per oltre trent’anni in primario istituto bancario. L’assidua frequentazione di templi del pensiero pragmatico e utilitarista ha favorito l’esigenza di porre la ragione al servizio della ragionevolezza e della verità. Da qui sono seguite esperienze nel volontariato pro-life, promozione di opere di culto, studi di materie in ambito bioetico, con numerose testimonianze e incontri per divulgare una cultura aperta alla vita, ancorata alla fede e alla famiglia. Collabora al Blog Oltre il giardino QUI Vedi tutti gli articoli di Roberto Allieri

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