S. Giuseppe, il papà per eccellenza

San Giuseppe è l’uomo che carica Maria e Gesù sull’asino, e cammina al loro fianco; l’uomo che serve, in silenzio; l’uomo che si dà tutto, senza risparmiarsi.

La sua forza è la sua generosità, il suo altruismo, la sua assoluta libertà da ogni tentazione narcisista.

E’ un modello di uomo di padre completamente diverso da quello proprio del mondo antico precristiano, nel quale dominava il padre con potere assoluto, persino di morte, sui propri figli.

Il concetto nuovo sta nel fatto che non solo Giuseppe, ma ogni padre, è putativo: solo al padre vero, il Creatore, appartiene la vita dei suoi figli.

Al di là del significato religioso, personalmente, se devo descrivere il ruolo del padre con un’ immagine, mi viene da pensare ad una scena classica: il padre che prende il bimbo, in braccio, lo solleva in aria, e poi lo getta verso l’alto, per riprenderlo un attimo dopo.

E’ un gesto che ai bambini piace tanto: piace, benché provochi un piccolo brivido di paura

In un certo senso questo gesto naturale nasconde tanti significati: il padre che lancia per aria il bambino rappresenta il riconoscimento dell’ alterità del figlio, che non è riducibile ad una proprietà dei genitori.

Dovrà fare la sua strada, dovrà imparare a camminare, ad affrontare anche alcuni pericoli e difficoltà, a prendere il volo; ma dovrà farlo dopo aver sperimentato che accanto a lui c’è qualcuno; che insieme all’affetto tenero della mamma, c’è il braccio forte del papà.

Sperimentare il volo, la paura, ma anche la possibilità di potersi fidare di qualcuno: abbiamo bisogno di questo, nella vita, per poterla attraversare con fiducia!

Quel braccio del padre è anche la fermezza dell’educatore: i figli hanno bisogno di coccole, ma anche di paletti, di regole, di limiti, che insegnino loro il dominio di sé, l’autocontrollo, senza il quale non esiste vera libertà; e nello tesso tempo devono sentire tutto ciò come dettato da una autorità amorevole e giusta che sia, letteralmente, “ciò che fa crescere” davvero, non solo fisicamente.

Fatta questa premessa, vorrei “regalare” ai lettori una riflessione sulla paternità di una straordinaria filosofa del Novecento, la spagnola Maria Zambrano.

La quale, riflettendo sul suo rapporto splendido con il padre, ma allargando il discorso, ebbe a scrivere: “Niente è più decisivo in una vita delle proprie origini. Per questo il padre rappresenta molto di più di un uomo in carne e ossa che ci ha generati. Ci dà un nome. Finché la nostra vita individuale dura, sarà segnata da questo nome e grazie ad esso smettiamo di essere uno per essere un qualcuno ben definito. La nostra individualità, così concreta, è legata al nome che riceviamo da nostro padre, per noi sigillo, segno distintivo. Avere un nome significa avere un’origine chiara, appartenere a una stirpe, avere un destino, sentirsi chiamati da voci inconfondibili, sentirsi legati e obbligati. Avendo un nome sentiamo che in ogni nostra azione mettiamo in gioco tutta l’eredità che ci vincola, ci sentiamo responsabili di cose che, se fossero solo nostre, non ci premerebbero, e, invece, ci premono molto di più di quelle che ci riguardano direttamente. E’ il peso, la chiamata di coloro che si chiamano come noi, continuità viva che forma la storia reale; siamo eredi, siamo sempre continuatori. Niente ha avuto inizio [assoluto] con noi… La forza del padre, la sua autorità, si confonde con la forza sacra dell’origine di tutti gli uomini, di tutto ciò che è qui. Prima che esseri di ragione o di coscienza, d’istinto o di passione, siamo infatti figli, ed essere figlio significa dover rispondere, doversi giustificare di fronte a qualcosa di inappellabile. Saperlo chiaramente significa avere umiltà… E’ anche fiducia, credere all’ombra di una forza protettrice, che offre un riparo di cui non si metta in dubbio forza e clemenza. È questa l’educazione fondamentale su cui deve fondarsi qualsiasi cultura successiva, è l’esperienza prima della vita, l’incontro originario e decisivo da cui proviene tutto il resto. È l’insostituibile. È difficile abbandonarsi alla vita con fiducia, dar credito ad alcunché, credere, se non siamo cresciuti così, sentendoci guidati da una mano forte e delicata che sa misurare, sentendoci osservati da uno sguardo di fronte al quale non è possibile alcuna simulazione, sentendo la nostra fragilità connessa a un principio invulnerabile. Nessun terribile avvenimento successivo potrà aver ragione di questa educazione, se ha avuto luogo; nessuna catastrofe potrà portarsi via questa fiducia originaria, nessun rancore potrà cancellare nell’anima il peso della tenerezza venuta dall’alto. Nessuna ingiustizia potrà sradicare dall’anima la fiducia ingenua nella vita di chi viene guidato paternamente nei suoi primi passi”.

Da: La voce del Trentino

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Autore: Francesco Agnoli

Laureato in Lettere classiche, insegna Filosofia e Storia presso i Licei di Trento, Storia della stampa e dell’editoria alla Trentino Art Academy. Collabora con UPRA, ateneo pontificio romano, sui temi della scienza. Scrive su Avvenire, Il Foglio, La Verità, l’Adige, Il Timone, La Nuova Bussola Quotidiano. Autore di numerosi saggi su storia, scienza e Fede, ha ricevuto nel 2013 il premio Una penna per la vita dalla facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, in collaborazione tra gli altri con la FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana) e l’Ucsi (Unione Cattolica Stampa Italiana). Annovera interviste a scienziati come  Federico Faggin, Enrico Bombieri, Piero Benvenuti. Segnaliamo l’ultima pubblicazione: L’anima c’è e si vede. 18 prove che l’uomo non è solo materia, ED. Il Timone, 2023.

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