Elogio del matrimonio giuseppino

San_Giuseppe

In un articolo recente, ho presentato una serie di argomenti, tratti soprattutto da san Tommaso, per mostrare la superiorità della continenza sul matrimonio, e perfino della continenza sull’uso del matrimonio, da parte delle persone sposate. Il fatto che varie coppie di santi sposati abbiano praticato la castità perfetta nel matrimonio è un argomento persuasivo e sicuro per dire non che, ovviamente, tutti i cristiani debbano comportarsi in quel modo, ma che certamente il cosiddetto “matrimono giuseppino”

resta una scelta legittima. E con un plusvalore di radicalità. Avevo citato in quell’articolo i casi di s. Enrico Imperatore (+ 1024) e s. Cunegonda (+ 1040) che per tutta la vita praticarono l’astinenza dai pur legittimi piaceri della carne e quindi la totale continenza, e i beati Beltrame-Quattrocchi che, alla nascita del loro quarto figlio, di comune accordo, e per meglio santificarsi, decisero la piena astinenza dall’uso del loro matrimonio.

Ma gli insegnamenti tratti dalla storia della Chiesa sono per molti più persuasivi. Così abbiamo pensato di tornare sul punto, riferendoci ad un testo, probabilmente unico nel suo genere, di un grande storico francese: Ivan Gobry, Mariage et continence, Clovis, 2013, pp. 210, € 13. L’autore, accademico e intellettuale cattolico, presenta una vasta casistica, in cui santi uomini e pie donne, vissero castamente la loro vita, seppur nel matrimonio. Addirittura presenta il caso di vari santi che, dopo un matrimonio validamente celebrato, ispirati da Dio, decisero di abbandonare la vita coniugale per farsi monaci o eremiti.

Lo storico, che tra l’altro è un grande esperto di Medioevo, di amore, di celibato e di matrimonio (cf. Les moines en Occident, Le célibat sacerdotal, Amour et vocation, Amour et mariage, Angèle de Foligno, Mathilde de Toscane) ha deciso di rispondere a tre quesiti di fondo in questa sua recente opera: “L’uomo o la donna che aspira a una vita di continenza, per rispondere a questa aspirazione, può trionfare sulle sollecitazioni della carne e le pressioni della società? L’uomo e la donna che contraggono il sacramento del matrimonio, possono vivere assieme, non solo in alcuni periodi, ma definitivamente, nello stato di continenza? L’uomo e la donna che hanno contratto matrimonio, possono romperlo, sia prima di ogni consumazione, sia dopo l’onesta consumazione, per vivere nella continenza?” (p. 5). Le risposte ai tre quesiti, se vogliamo sia storici che teologici, sono unanimemente positive. E ciò viene dimostrato dal Gobry, proprio attraverso la canonizzazione e l’elevazione a modello di quelle coppie, o di quei singoli uomini coniugati, che scelsero, spesso per ragioni mistiche e dopo forti impulsi interiori, la vita solitaria di perfetta castità.

Dopo aver precisato che il libro è anzitutto “un’opera di edificazione”, benché la “condotta dei personaggi evocati [sia] sufficientemente stabilita dall’esame della verità storica” (p. 6), Ivan Gobry suddivide il suo lavoro in 4 parti. La prima tratta della rottura del fidanzamento in nome della scelta della continenza. La seconda parte si diffonde sul caso, non così raro, della continenza comunemente scelta dai coniugi, attraverso la separazione fisica e l’abbandono del tetto coniugale. La terza indaga quei casi in cui, per comune accordo, gli sposi cristiani decisero di vivere nella perfetta castità, e ciò sin dall’inizio del matrimonio e rimanendo nella convivenza. La quarta parte, mostra gli esempi storici di separazione degli sposi (magari con l’ingresso di uno o di entrambi in un monastero), dopo la consumazione del matrimonio stesso e nonostante la prole. Gli ultimi 3 capitoletti del libro (11-12-13) sono dedicati alla dottrina della Chiesa sul rapporto tra la verginità e il matrimonio, che è un rapporto non tra un bene e un male naturalmente, ma tra due grandi beni, di natura e di grazia, ma non di pari valore ascetico e spirituale. Tutta la Tradizione cattolica, senza alcuna soluzione di continuità, ha insegnato l’eccellenza della castità perfetta e della verginità sulla pur degnissima e assai più comune scelta matrimoniale. Noi che siamo felicemente sposati, per difendere un valore secondo noi irrinunciabile iscritto nella Tradizione e nella stessa Scrittura, osiamo dire ciò che in larga parte, consacrati e monaci (non escludi molti alti prelati…), non osano dire più.

Nella prima parte l’Autore ci racconta le vite di alcuni santi che fuggirono nei boschi e nei deserti, dopo il fidanzamento, per cercare l’assoluta ascesi e la vita contemplativa. Tra di essi s. Leobardo (+ 593) il quale, fidanzato ad una fanciulla per volontà dei genitori, alla morte degli stessi, rifiutò il matrimonio già programmato, e fuggì in un luogo isolato, presso l’abbazia di Marmoutier. In questa scelta fu approvato dal suo direttore spirituale, che era s. Gregorio di Tours. Casi simili di rottura del fidanzamento e rifiuto di un matrimonio già previsto, solitamente organizzato dalla famiglia, sono quelli di s. Mauroute (+ 706) che morì abate, s. Hunegonda (+ 690) che andò in pellegrinaggio a Roma assieme al suo promesso sposo, scelto però dai genitori, e il papa in persona, Vitaliano, le diede il velo monastico; s. Angadrema (+ 700 circa), s. Luigi d’Anjou, parente di san Luigi IX.

Poi ci sono le rotture di matrimonio. S. Macario il Grande (+ 392) “aveva fatto davanti a Dio voto di continenza” (p. 18), ma nondimeno i ricchi genitori gli trovarono un “buon partito”. Non riuscendo ad impedire le nozze, accettò di contrarle, rimanendo fermo però sul voto fatto. Così allorquando “la donna si offriva a suo marito per consumare l’unione, lui la fuggiva” (p. 18). Macario chiese a Dio la soluzione di una situazione invivibile e la sposa, ancorché giovane, all’improvviso morì. Quando ricevette i beni in eredità, li diede ai poveri e passò oltre 60 anni nel deserto egiziano. Similmente s. Abramo di Edessa (+ 360) apparteneva ad una ricca famiglia di Siria e i genitori lo fidanzarono senza interpellarlo. Ma lui aveva un’altra passione nel cuore, “l’amore incondizionato di Gesù Cristo a cui consacrò personalmente la vita” (p. 19). Fu letteralmente costretto a sposarsi e le feste di nozze durarono 7 giorni. Quando infine lo lasciarono solo con la sposa, capì che “ora era un uomo libero, poiché il matrimonio lo sottraeva all’autorità paterna” (pp. 19-20). Quella stessa prima notte di nozze si alzò e andò in montagna, recandosi in una cella eremitica. Le 2 famiglie lo cercarono e lo trovarono ma lui convinse tutti al rispetto della sua scelta. Fu presto venerato dalla gente. Un caso simile fu quello di s. Eteldreda (+ VII secolo) che si sposò due volte, per compiacere i familiari, ma ogni volta ribadendo la sua scelta di castità perfetta e alla fine si separò dal secondo marito, divenne badessa, e fu consacrata da s. Wilfrido.

“Accanto alle unioni conflittuali, in cui uno solo dei due congiunti è deciso a vivere nella continenza, troviamo il caso più frequente, specie nel Medioevo, di due sposi che, trovandosi ancora sotto l’autorità familiare e accettando il matrimonio per semplici ragioni sociali, decidono di conservare la continenza di comune accordo” (p. 25). Impossibile vedere, neppure di passaggio, i tratti salienti di queste sante esperienze religiose. Mi limito dunque a riportare alcuni dei nomi citati dallo storico.

Nell’antichità cristiana, Gobry segnala i casi dei santi Cecilia e Valeriano (+ 230), Galatone e Epistema (+253), Crisante e Daria (+ 284), etc. Nel periodo medioevale e moderno sono numerosi, tra cui i santi Gomberto e Berta (+ 680 circa), Enrico e Cunegonda (+ 1040), Elzearo e Delfina (+ 1323); a volte trattasi di coppie di cui uno solo è stato canonizzato o dichiarato venerabile, come s. Pulcheria (+ 453), s. Thierry (+ 533), s. Wandrille (+ 677), s. Teofane (+ 818), s. Riccarda imperatrice (+ 894), s. Edoardo il confessore (+ 1066), s. Simone di Crepy (+ 1080), la beata Salomé, regina di Galizia (+ 1268), s. Cunegonda di Polonia (+ 1292), s. Caterina di Svezia (+ 1381), la beata Giovanna-Maria di Maillé (+ 1414), la beata Angelina da Marsciano (+ 1435), il beato Sebastiano d’Apparizio (+ 1600), etc.

Oltre ai casi appena citati di santi e sante che rimasero nella vita sponsale da continenti, numerosi sono anche coloro che, dopo il matrimonio e i figli, lasciarono tutto, per servire Dio solo, nel monachesimo, il sacerdozio e l’episcopato, seguendo in ciò l’esempio dell’Apostolo Pietro (prima marito poi vescovo). Tra costoro spiccano i nomi di s. Ilario di Poitiers (+ 368), s. Gregorio di Nissa (+ 400), s. Paolino di Nola (+ 431), il beato Nicola Giustiniani (+ 1180), la beata Umiltà da Faenza (+ 1310), s. Brigida di Svezia (+ 1373), s. Francesca Romana (+ 1440), i santi coniugi Claude d’Elbée (+ 1982) e Louise de Sèze (+ 1980), in seguito, per dispensa concessa da Roma nel 1920, padre Jean e madre Claire, etc. Non è citato il patrono della Svizzera, s. Nicolao della Flue, padre di numerosa prole, poi, vivente la consorte, asceta in un eremo ancora oggi meta di pellegrinaggi.

Insomma, anche nel matrimonio vale il principio che la continenza è un bene più elevato che l’uso del matrimonio stesso. Che questa pratica vada diffusa e universalmente incoraggiata non lo diciamo affatto (giusta la precisazione di s. Paolo, in 1 Cor 7 3-7), come non vanno troppo incoraggiate le scelte radicali dell’eremitismo e della clausura. Che però questi principi tradizionali vadano difesi, ora e sempre, ci pare indubitabile.

 

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