Il catechismo di Matteo Ricci

di Fabrizio Cannone

La figura di Matteo Ricci (Macerata 1552 – Pechino 1610), pur discussa nel corso dei secoli, ha molto da insegnare.

Celebrato e commemorato sotto Benedetto XVI, che ne ha esaltato il carisma con un Messaggio al Vescovo di Macerata nel 2009, il Ricci vene spesso presentato come un precursore del Concilio Vaticano II, soprattutto a causa di alcune sue intrepide forme di apostolato e per l’assunzione della lingua, dell’abbigliamento e della cultura cinese, cose che, secondo i novatori, sarebbero il segno di quell’inculturazione tipica dell’odierna missionologia cattolica.

Ma se è vero che il Ricci si mise in rispettoso ascolto delle tradizioni spirituali e filosofiche cinesi, specie il buddismo, il taoismo e il confucianesimo, ciò fu sempre nell’ottica del missionario del XVI secolo: cogliere gli elementi validi di un contesto alieno alla cristianità e attraverso di essi portare gli abitanti di quel contesto alla professione della fede cristiana.

Il suo Catechismo (ESD, Bologna 2013, pp. 500, € 30), con testo a fronte in cinese semplificato, è un’eccellente sintesi della teologia cattolica del tempo, la quale, facendo leva sulla razionalità della fede, si propone ad un tempo di chiarirne il contenuto e di dileguare le obiezioni contro di essa. La visione teologica e spirituale del Ricci «lo ha spinto ad evangelizzare i cinesi attraverso la ragione non perché fosse la via più strategica, nel senso dell’efficacia e della razionalità calcolatrice; né per il gusto del dialogo fine a se stesso; né per realizzare un incontro tra culture» (p. 65), ma perché, come scrive il missionario marchigiano, «tutto ciò che la ragione mostra essere vero, non posso non riconoscerlo come vero; tutto ciò che la ragione mostra essere falso, non posso non riconoscerlo come falso. La ragione ha con l’uomo la stessa relazione che il sole, diffondendo ovunque la sua luce, ha con il mondo» (p. 111).

Se il primo capitolo (pp. 107-139) è un’esaltazione della ricerca della verità religiosal’uomo nobile fonda la propria vita sulla verità», p. 113), e una dimostrazione, attraverso le classiche prove a posteriori, dell’esistenza di Dio (chiamato spesso, con linguaggio autoctono, «il Signore del Cielo»), il secondo capitolo (pp. 141-173) è una confutazione delle «errate conoscenze umane» su Dio, la creazione e la religione in genere. Il testo fa parlare due figure, un Letterato Cinese, che riassume le posizioni di vari personaggi realmente incontrati dal missionario (cf. p. 103) e un Letterato Occidentale, dietro cui appare la figura del Ricci.

Il gesuita italiano confuta, sempre con tatto e pacatezza, ma altresì con chiarezza, una dopo l’altra tutte le assurdità del buddismo e delle filosofie orientali. Queste dottrine «non meritano apprezzamento» (p. 141) e il loro discettare sul “vuoto” e sul “non-essere” come qualità proprie del primo Principio, rappresentano «un modo inadeguato di esprimersi» (p. 147); «i vuoti simboli» dell’antico Oriente «non si fondano su alcuna ragione reale» (p. 149); insomma, a causa dei «menzogneri scritti del Buddha (…) ci si è trovati inconsapevolmente contaminati dalle sue parole velenose» (p. 239).

In seguito padre Ricci spiega i temi di fondo della fede cattolica, come l’esistenza e l’immortalità dell’anima (cap. 3), la distinzione reale tra le varie realtà cosmiche, come animali, vegetali, minerali e spiriti, contro il panteismo orientale (cap. 4), con una lunga trattazione sulla reincarnazione (cap. 5) e in favore del giudizio e della sanzione nell’altra vita (cap. 6).

La forza di missionari quali il Ricci non sta nell’aver assunto la foggia e il linguaggio dei popoli da evangelizzare, ma sta tutta nell’aver abbandonato patria e famiglia, usi e costumi, per farsi tutto a tutti, in modo da salvare tutti o almeno il più gran numero possibile di anime. da: Corrispondenza romana

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Autore: Libertà e Persona

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