Ateismo e suicidio

Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”: così scriveva Albert Camus ne “Il mito di Sisifo”. Questa frase ritorna attuale oggi con il dibattito sull’eutanasia, che andrebbe a mio avviso affrontato, appunto, insieme al problema del suicidio (e a quello della disgregazione familiare e della solitudine, metafisica e quotidiana).
Non è infatti un caso che la richiesta di legalizzazione dell’eutanasia propria dell’ attualità cresca con il crescere, nel nostro Occidente, del ricorso agli anti depressivi ed al suicidio.
Recentemente l’OMS ricordava che nel 2000 sono morte per suicidio circa un milione di persone, ben più che in tante guerre e calamità messe insieme, mentre “negli ultimi 45 anni il tasso di suicidio è cresciuto del 65% in tutto il mondo, in particolare tra i giovani”.
Uno psicoterapeuta come Viktor Frankl, che sperimentò la durezza del lager, disse che quando c’è un perché, tutti i come diventano sopportabili. Se so perché vivo, se la preziosità della vita mi è chiara, se la vita come dono è un’idea radicata, ogni circostanza, benché dura, diventa più facilmente tollerabile.
Scriveva ancora Frankl, il quale definiva il nostro tempo “l’epoca del vuoto esistenziale”: “Se una persona è riuscita a porre le basi del significato che essa cercava, allora è pronta a soffrire, a offrire sacrifici, a dare anche, se fosse necessario, la propria vita per amore di quel significato. Al contrario, se non esiste alcun significato del suo vivere, una persona tende a togliersi la vita ed è pronta a farlo anche se tutti i suoi bisogni, sotto ogni aspetto, sono stati soddisfatti”.
L’uomo è capace di adeguarsi a tutto, o quasi: solo che lo spirito sostenga il corpo, e se stesso; solo che lo spirito non sia ancora più debole del corpo. Lo abbiamo forse tutti un amico malato che nella vita si muove meglio di noi o di altri amici più forti, più sani o più ricchi.
Lo sappiamo tutti che è difficile trovare più tristezza che in certi attori belli e famosi, in certi divi di Hollywood, ricchi, sani, sazi e disperati.

 

Il suicidio in Cina e Giappone

Se c’è un perché, tutti i come divengono più o meno sopportabili. E non vi è dubbio, a mio parere, che il perché vero sia solo e soltanto Dio, dal momento tutti gli altri, in un momento o nell’altro, possono cedere. Un Dio personale che ci ha creato, che ci guarda e ci conosce e il cui amore rende preziosa ogni singola esistenza.
Un Dio che manca ad esempio ai grandi popoli cinese e giapponese.
Che, non a caso, hanno da secoli un triste primato dei suicidi.
In Cina e Giappone infatti il ricorso al suicidio è estremamente diffuso, amplissimo, e, quel che più interessa, accettato culturalmente. Parlando dei cinesi J. Matignon scriveva, all’inizio del Novecento, che il suicidio “si riscontra in tutte le classi e a tutte le età”, ed è spesso dettato anche da motivi che per la nostra cultura sono del tutto “futili”: per vendetta, per rancore, per collera o gelosia, per questioni di onore… “Capita che un mendicate attui la sua vendetta tagliandosi la gola davanti alla vostra porta”.

Dall’India alla Cina, ricorda Marzio Barbagli,darsi la morte per colpire un nemico, immolandosi con lui o facendogli ricadere addosso la colpa della propria morte, è una scelta messa a disposizione per secoli da culture diverse”.
In entrambi questi paesi, poi, vi sono dei suicidi, come quello della moglie o della concubina sulla tomba del marito, che sono considerati meritori ed auspicabili.
Un altissimo tasso di suicidi si registra anche in Giappone: 24,4 ogni 100.000 abitanti, almeno 4 volte di più che in Italia, visto che il numero reale è in verità ben più alto. Il Giappone ha anche un primato nel numero dei giovani suicidi. Kamikaze e harakiri “sono le parole della lingua giapponese più conosciute nel mondo”. Qualche anno fa la “Guida al suicidio perfetto” dello scrittore Wataru Tsurumi, in cui si spiegava come uccidersi buttandosi dalla finestra o sotto il treno, divenne un bestseller con 550 mila copie in otto mesi.
Perché questo dramma? A prescindere dalle mille motivazioni che possono stare dietro un suicidio, è difficile non notare che anche nel ricco Giappone, come in Cina, l’uomo non è creatura unica, irripetibile, di un Dio che la ama fino a morire per lei.
I giapponesi – ricorda il nunzio apostolico in Giappone, Alberto Bottari de Castello-, non hanno un rapporto personale con Dio. Il concetto dell’individuo, che è al centro della cultura occidentale, non fa parte del loro Dna culturale. Si identificano con il gruppo, la società, l’azienda, la nazione. Quando un cristiano arriva alla decisione di togliersi la vita sa che sta per infrangere una regola sacra: la vita gliel’ha data Dio e solo Dio gliela può togliere. Il giapponese tentato dal suicidio non ha questo freno. Non ha il concetto del peccato. Non ha nessuno, non ha niente, all’infuori del proprio mondo materiale e culturale, a cui chiedere aiuto. Ma nel suo mondo chiedere aiuto è disonorevole, e allora deve risolvere all’interno di se stesso il dramma della propria infelicità, divenuta insopportabile. I cristiani, anche nei momenti più bui, possono sempre tendere la mano verso Dio. I giapponesi no. Hanno otto milioni di dei, migliaia di meravigliosi templi, santuari, altari, altarini, due religioni ufficiali, il buddismo e lo shintoismo, ma vivono senza il Dio unico onnipotente e misericordioso, senza il concetto di Dio padre di tutta l’umanità e presente in ciascuno di noi, sempre” .

Nello stesso tempo in Giappone il buddismo è una religione atea che crede nella reincarnazione, cioè che nega, appunto, l’unicità di una vita personale. Il suicidio quindi non è considerato eticamente negativo, anzi è talora contemplato come possibile “soluzione” ad un determinato problema.
Maurice Pinguet, già direttore dell’Istituto franco-giapponese di Tokyo, nel suo “La morte volontaria in Giappone”, nota anzitutto il profondo immanentismo che caratterizza la cultura di questo popolo, e in secondo luogo mette in luce come in Giappone siano sempre esistite forme di suicidio che la cultura cristiana rifiuta: ad esempio il “suicidio di solidarietà”, in cui i genitori “coinvolgevano i loro figli nella morte, convincendoli, o a loro insaputa”. Infatti alla madre giapponese che uccide il figlio “non viene in mente che il bambino possa rappresentare una esistenza distinta, posta sin dalla nascita, o dal concepimento, sotto la sovranità di Dio”. Vi è poi, sempre nella cultura giapponese, il “suicidio di accompagnamento”: alla morte dell’Imperatore, del sovrano, del padrone, funzionari, vassalli, servi lo hanno spesso accompagnato nella morte, eliminandosi.
Vi è infine il suicidio come rituale, svolto con precisione e solennità: harakiri è l’atto di uccidersi lentamente, aprendosi il ventre, estraendone le viscere, “senza battere ciglio”.
Del resto, se tutta la vita dell’uomo è qui ed ora, come protestare altrimenti la propria innocenza? Come lavarsi di una colpa, che altrimenti rimarrà per sempre? Come cancellare la vergogna? Come salvare l’onore?

 

Il suicidio nei paesi comunisti e post-comunisti

Una conferma a questa ipotesi, e che cioè l’ateismo contribuisca a togliere alla vita umana quella sacralità religiosa che è spesso un utile antidoto alla scelta estrema di eliminarsi, viene dai paesi comunisti, in cui l’ateismo è stato imposto e diffuso a tutti i livelli.
In un celebre film intitolato “Le vite degli altri” si ricorda che negli anni ’70 e ’80, Russia, Ungheria e Germania dell’est, tutti e tre paesi comunisti, avevano il primato mondiale dei suicidi, benché i regimi, che pure catalogavano tutto, nascondessero le cifre relative al disastroso fenomeno. Infatti erano stati proprio molti teorici del socialismo a spiegare che, una volta instaurata l’eguaglianza economica e materiale, alcolismo, prostituzione, furti ed anche suicidi, sarebbero spariti.

In verità con l’avvento del regime bolscevico i suicidi iniziarono a crescere.
Il partito comunista cercò allora di condannarli come “una forma di individualismo borghese”. Il suicidio, per i comunisti atei, era considerata una appropriazione indebita della vita, che apparteneva non a Dio, come si era detto sino a quel momento, ma al partito, allo Stato, alla comunità. Tanto che chi si suicidava subiva l’espulsione postuma dal partito ed altre pene, ad esempio riguardo al suo funerale. Ma l’efficacia di queste posizioni fu inesistente. Non uccidersi perché la vita è un dono di Dio, è un messaggio che può essere convincente, come dimostrano i bassi tassi di suicidio del Medioevo e sino all’esplosione ottocentesca .
Non farlo perché Stalin non vuole, è un dogma meno credibile.
Nel 1924-25, scrive Barbagli, vi fu un forte aumento dei suicidi”, non solo tra gli avversari del comunismo, ma “tra gli iscritti al partito”, tra coloro che professavano la fede del regime. Stalin condannò il fatto spiegando che il suicidio era il mezzo più semplice per lasciare il mondo, tradendo il partito e sputando “per l’ultima volta sul partito”. “In ogni caso, continua il Barbagli, il governo smise di pubblicare statistiche e studi sull’argomento”.
Possiamo quindi ipotizzare un aumento sempre crescente di suicidi in occasione del Terrore, così come c’era stato all’epoca del terrore giacobino e della ghigliottina. Ma con la morte di Stalin la crescita del suicidi non calò e il numero rimase alto sino alla fine. Il crollo del regime, la morte definitiva della fede comunista segnò un ulteriore incremento. Veniva cioè a mancare anche l’ultima forma di “senso”, per quanto labile.

Nel 1994 si arrivò alla cifra impressionante di 43 suicidi per 100.000 abitanti!Pur essendo diminuito negli anni seguenti, continua Barbagli, nel 2004 il tasso di suicidio in Russia (34 per 100.000 abitanti) era da due a tre volte superiore a quello degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa occidentale”.
Anche oggi le macerie spirituali lasciate dal materialismo ateo sono ben evidenti, visto che gli ex paesi dell’ateismo di stato hanno contemporaneamente il triste primato dei divorzi, degli aborti e quello, appunto, dei suicidi.
L’OMS dunque rivela oggi che al primo posto della classifica dei paesi con il più alto numero dei suicidi nel 2009 si trovano la Bielorussia, con 35,1 suicidi ogni 100000 persone; al secondo posto viene la Lituania, al terzo la Russia, al quarto il Kazakistan, al quinto l’Ungheria, al sesto il Giappone, all’ottavo l’Ucraina,… ben 6 dei primi 8 paesi di questa terribile classifica sono ex paesi comunisti!
Eppure non è sempre stato così, dal momento che prima della rivoluzione del 1917 “la percentuale dei suicidi in Russia era una delle più basse al mondo” .

Quanto alla Lituania, seconda nella classifica del 2010, ma prima in quella del 2009, Alvydas Navickas, presidente dell’Associazione lituana di suicidiologia e vicerettore dell’Università di Vilnius, sintetizza così la storia del suo paese: “Prima della Seconda Guerra mondiale, si suicidavano 8 lituani su 100.000. La maggior parte della popolazione viveva in campagna, frequentava la chiesa: esisteva una comunità forte con una routine stabile. In seguito scoppiò la Guerra e venne il regime sovietico: Stalin deportò gli agricoltori più ricchi e installò la maggior parte nei Kolchoz (cooperative agricole). Vodka e alcol prodotti in casa iniziarono a scorrere come anestesia, quotidianamente. Nella decade degli anni ottanta l’indice crebbe ogni anno fino a 30 suicidi su 100.000 persone. Con la caduta dell’URSS il tasso ha subito un forte rialzo, fino a toccare il tetto, tra il 1994 e il 1995, di 46 su 100.000” .

E’ a questo punto inevitabile ricordare quanto scriveva alla fine dell’Ottocento il grande Dostoevskij, nel suo romanzo “I Demoni”, in cui illuminava la mentalità degli atei rivoluzionari del suo tempo. L’autore russo faceva dire ad uno dei suoi personaggi che a frenare la volontà degli uomini di suicidarsi è anzitutto l’idea di “un altro mondo” dopo la morte (idea che non toglie, ma al contrario conferisce valore, proprio a questo mondo concreto in cui viviamo ogni giorno).
Ma quando l’ateismo trionferà, continuava il rivoluzionario, prefigurazione dei comunisti del 1917, l’uomo, messo da parte Dio, affermerà la sua totale libertà: “La piena libertà ci sarà allora, quando sarà indifferente vivere o non vivere”. Un giorno “vi sarà l’uomo nuovo, felice e superbo. A chi sarà indifferente vivere o non vivere, quello sarà l’uomo nuovo! Chi vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. Mentre l’altro Dio non vi sarà… Possibile che nessuno su tutto il pianeta, avendola finita con Dio e avendo posto fede nell’arbitrio, osi proclamar l’arbitrio, nel senso più completo?”.

Conclusione? “Io sono obbligato a uccidermi, perché il mio arbitrio è uccidere me stesso.

Dostoevskij aveva visto giusto: la proclamazione di una libertà illimitata da parte dell’uomo, di una sua autonomia morale, di una sua autodeterminazione totale, luciferina, è anche l’affermazione della sua drammatica solitudine, con le ovvie conseguenze.
Ecco perché oggi sono proprio certi atei come Maurizio Mori, il consigliere di Beppino Englaro, a proclamare la fine della “sacralità della vita”, respingendola come un concetto cristiano che non ci appartiene più, e a collegare il presunto diritto all’aborto, con quello all’eutanasia (o “suicidio assistito”). Riaffermando così il principio dell’autodeterminazione assoluta già proclamato dal rivoluzionario di Dostoevskij.
Dichiarava qualche anno orsono il socialista francese Jacques Attali, già consigliere del presidente Mitterand, e oggi di Sarkozy: “la logica socialista è la libertà, e la libertà fondamentale è il suicidio. Di conseguenza il diritto al suicidio diretto o indiretto è dunque un valore assoluto di questo tipo di società”. Qualche anno prima, su California Medicine, aveva affermato, coerentemente, che la vita non è più da considerare un valore assoluto, ma “relativo”, e ciò significa che accanto al “controllo e alla selezione delle nascite” occorrerà porre la “selezione delle morti”, cioè all’eutanasia, per motivi personali, ma anche, se necessario economici, politici…
Laddove manca Dio, è la vita dell’uomo a perdere valore, e a sfociare più spesso nel suicidio, individuale o legalizzato e statalizzato che sia.

Cristianesimo e suicidio

Alla luce di quanto si è detto si capisce perché tra i paesi col più basso numero di suicidi vi siano quelli di più solida tradizione cristiana. L’Italia, per esempio, con i suoi 6 suicidi ogni 100.000 abitanti, è ben al di sotto della media Ue (15-16 su 100.000) e lontanissima dalle percentuali cinesi, giapponesi o degli ex paesi comunisti.
Basso numero di suicidi è riscontrabile anche in Brasile, Paraguay, Messico, Colombia, Filippine, Paraguay, Grecia, Cipro, Armenia, Malta… Fanno eccezione paesi come la Svezia, la Francia e l’Austria, che però risultano, anche da tanti altri indicatori, essere paesi fortemente secolarizzati. Nel loro “Suicidio. Il rovescio del mondo”, i sociologi Christian Baudelot e Roger Establet sostengono che l’alto tasso di suicidi in Francia è legato anche alla “laicizzazione del paese”, e alla “disgregazione familiare”, ben visibile in un tasso di divorzi e di aborti molto più alto che in Italia (il paese “indietro” per eccellenza, a sentire certuni, a partire da Machiavelli sino ai vari Dawkins, Prosperi ecc…)

Rimane da approfondire perché la cultura cristiana abbia contribuito, e tuttora contribuisca, dove più sopravvive, a diminuire il tasso di suicidi. Il fatto è essa è portatrice di un messaggio nuovo: la figliolanza rispetto al Creatore, di ogni uomo. Da essa deriva il “tabù” del suicidio, che invece era accettato dalle culture pagane.
Si pensi solo al Giuda evangelico: nei commenti dei Padri il grande peccato dell’apostolo non è il tradimento di Cristo, e la sua consegna ai carnefici, ma quello di aver disperato della salvezza e del perdono, uccidendosi.
La portata di una simile idea può essere capita meglio paragonando questa visione a quella giapponese. “Noi giapponesi, scriveva un professore universitario di quel paese, stentiamo a capire la differenza di trattamento che la Chiesa riserva a san Pietro e a Giuda. Entrambi hanno tradito Cristo: Giuda è dannato, Pietro è il capo della Chiesa; e questo malgrado che Giuda si sia suicidato”.
Quello che per un giapponese è riscatto, il suicidio di Giuda, per i cristiani è la vera colpa. Questo perché nel cristianesimo il perdono e la misericordia, vincono la colpa, mentre nella cultura giapponese l’autopunizione anche estrema è, al contrario, un valore.
Il grande peccato di Giuda, dunque, è per la Chiesa il suo suicidio. “Chiaramente, scriveva Agostino, chi uccide se stesso è un omicida”: così condannava per esempio l’uso pagano delle donne violentate di suicidarsi, per rimediare alla perdita dell’onore.
Nel 452 il concilio di Arles definiva il suicidio “furore diabolico”, mentre S.Tommaso avrebbe sostenuto che uccidersi non è un gesto di coraggio, bensì segno “di una certa pusillanimità, incapace di affrontare la sofferenza”.
Sempre, nella sua storia, la Chiesa ha condannato il suicidio più fortemente dell’omicidio, proprio perché uccidere se stessi è l’estrema negazione del Dio Creatore. La condanna ha varie giustificazioni: anzitutto è il riconoscimento di una realtà di fatto, cioè che la vita ci è data. Questo, da una parte rinforza la speranza dell’uomo, in quanto lo pone al di sotto delle ali della Provvidenza: in tutto ciò che mi accade, non sono solo. La fiducia nella Provvidenza, cioè la fede, è dunque il contrario della rassegnazione: invita ogni uomo, in ogni circostanza, a non capitolare, a non arrendersi, a non scegliere mai la via d’uscita di emergenza. Tutto infatti può essere affrontato, perché Dio non dà mai all’uomo prove superiori alle sue forze, e non lo abbandona mai.
Dall’altra, la condanna del suicidio pone all’uomo un limite: gli ricorda che non tutto è lecito, che anzi il suicidio, quello intenzionale e lucido – chè la Chiesa sa bene quante volte invece esso sia incolpevole, per l’impossibilità di chi lo compie di capire la gravità del gesto-, è in cima alla scala dei peccati: viola la fede, la speranza e la carità. La fede e la speranza, perché il suicida non crede e non spera; la carità, perché il suicida reca un’offesa all’amore di Dio e “all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi” (Catechismo della Chiesa cattolica).

La portata della cultura cattolica nella condanna del suicidio è stata messa in luce dal già citato Marzio Barbagli, autore di “Congedarsi dal mondo”, che però sembra criticare la posizione della Chiesa, parlando di una sua presunta “ferocia” nella lotta al terribile gesto (in realtà sarebbe forse opportuno chiedersi se la severità della Chiesa non sia servita, anche in questo caso, a insegnare all’umanità qualcosa di buono su sè stessa).
La Chiesa, sostiene Barbagli, con “minacce ultraterrene” e punizioni concrete (ad esempio mancata sepoltura in luogo sacro per il suicida), contribuì certamente a rendere il suicidio un atto più raro e difficile nella nostra civiltà, sino al Seicento, quando “la rivoluzione scientista cominciò a erodere le basi morali di quella severità” e la diffusione della secolarizzazione diede all’uomo una maggiore autonomia individuale.

E’ da quest’epoca, un secolo prima della rivoluzione industriale, che assistiamo in Europa ad una “crescita impetuosa del fenomeno”, “spiegabile proprio con l’alleggerirsi della repressione morale e penale del suicidio”.

Fatto si è che in età illuministica e romantica, col, progressivo secolarizzarsi della società e diffondersi dell’ateismo materialista e del deismo (una sorta di ateismo pratico), il suicidio perde lo stigma di peccato gravissimo: alla fine del Settecento viene cancellato come reato penale, e cresce fortemente di numero, insieme ad una cultura del suicidio.
Un autore come Nicolas de Chamfort, ardente giacobino, morto in seguito alle ferite conseguenti ad un tentato suicidio, scriveva nelle sue massime e pensieri (1795): “Re e preti, nel condannare la dottrina del suicidio, hanno voluto assicurare la durata della nostra schiavitù. Intendono tenerci chiusi in una cella senza uscita, come quello scellerato della Commedia di Dante che fa murare la porta della prigione dove era rinchiuso lo sventurato Ugolino”.

Pochi anni prima, nel 1755, David Hume compose il trattatoOf Suicide”, in cui sosteneva che il suicidio non è una negazione dei doveri verso Dio, se stessi e il prossimo. Gli uomini, per Hume, sarebbero legittimati a “disporre liberamente della propria vita”, anche perché, e qui l’ottica atea si fa evidente, “per l’universo la vita di un uomo non è più importante di quella di un’ostrica”. Il trattato di Hume sarà subito tradotto ed esaltato dal Barone d’Holbach, l’alfiere dell’ateismo settecentesco francese.
In età positivista, mentre la scienza renderà sempre più sicura la vita fisica, i suicidi continueranno ad aumentare: la Francia, per esempio, passerà dai 4,8 per 100.000 del 1827 ai 16 del 1876! Eppure, in questi anni, di fronte al crescere del fenomeno, i medici positivisti spiegavano che “al cervello del suicida mancherebbe il tasso normale di serotonina”: il materialismo di quegli anni vietava loro di capire che forse, a mancare, era il tasso normale di spiritualità e di vita interiore.

Ma torniamo brevemente al Settecento, punto di svolta nella nostra cultura riguardo al suicidio.
Pensiamo agli autori italiani di questi anni. Alfieri, Foscolo e Leopardi nelle loro opere danno al suicidio un valore nuovo: esso diventa anche un gesto eroico, “sensato”, e perde, almeno in parte, quella negatività che aveva sino ad allora.
Per Foscolo, nelle “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, “la materia ritorna alla materia”, e il protagonista alla fine si uccide: diventerà un eroe per molti romantici, tanto che Mazzini raccontava di aver riletto più volte, quasi con devozione, il romanzo di Foscolo, mentre sua madre temeva che si sarebbe suicidato, come tanti altri imitatori dell’Ortis.
Leopardi, nel suo Zibaldone, scriveva: “Anzi tolti i sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il seguitar sempre a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la quale ci mostra troppo chiaro che non v’è speranza nessuna per noi” (23 Luglio l820); e sosteneva che gli antichi si uccidevano “per eroismo, per illusioni, per passioni violente”, mentre i suoi contemporanei lo facevano perché sono “stanchi e disperati di questa esistenza”. Per Leopardi, se l’uomo dovesse seguire soltanto la ragione, illuministicamente intesa, nulla lo tratterrebbe dal suicidarsi, non essendoci nella vita alcun significato al di là di quello di mantenere il perpetuo circuito di nascita e distruzione della natura.

Non è un caso che tutti e tre questi autori, Alfieri, Foscolo e Leopardi, abbiano sostanzialmente abbracciato una mentalità di tipo materialista e negato un Dio provvidenziale e Creatore, almeno in molti momenti della loro vita.

Ben diversa la posizione dell’altro autore romantico cattolico di quegli anni, Alessandro Manzoni. Alla fine delle tormentate vicende dei suoi “Promessi sposi”, infatti, l’autore lombardo che pure rimaneva fortemente legato al pensiero illuminista, fa un atto di fede nella Divina Provvidenza. Non ha mai neppure per un attimo fatto balenare nella loro mente l’idea del suicidio, come invece accade contemporaneamente a tanti eroi ed eroine romantici, e ora che tutto si è risolto per il meglio, scrive: Renzo e Lucia “conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”.

Ecco, la perdita della fiducia in Dio, e della consapevolezza della nostra origine divina: questo, a me sembra rendere oggi tanto tristi molti nostri giovani, ed aumenta ogni anno il numero dei loro suicidi. Ecco, ancora, perché la nostra cultura ateistica e decadente, protrattasi dal XX al XXI secolo, rivendica la legalizzazione del suicidio assistito, detto anche eutanasia, come un diritto civile, un diritto umano, anche per i non malati: anzi come l’apogeo dei diritti dell’uomo e della sua libertà individuale.
Oggi come ieri la perdita della Metafisica, anziché valorizzare il divenire, gli toglie ogni importanza, valore e significato.
Scriveva il già citato Pinguet, parlando però, questa volta, del nichilismo occidentale: “In un mondo che non ha altra vita che quella quaggiù, altra volontà che quella del soggetto, l’uomo diviene il solo giudice della totalità dell’essere che resta in bilico sul filo di rasoio della sua decisione. Là dove brillava l’onnipotenza divina, una vertiginosa implosione ha scavato il suicidio nichilista, buco nero nel quale l’assolutezza della libertà dovrebbe farsi inghiottire” .

da: Novecento. Il secolo senza croce, SugarCo

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Autore: Francesco Agnoli

Laureato in Lettere classiche, insegna Filosofia e Storia presso i Licei di Trento, Storia della stampa e dell’editoria alla Trentino Art Academy. Collabora con UPRA, ateneo pontificio romano, sui temi della scienza. Scrive su Avvenire, Il Foglio, La Verità, l’Adige, Il Timone, La Nuova Bussola Quotidiano. Autore di numerosi saggi su storia, scienza e Fede, ha ricevuto nel 2013 il premio Una penna per la vita dalla facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, in collaborazione tra gli altri con la FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana) e l’Ucsi (Unione Cattolica Stampa Italiana). Annovera interviste a scienziati come  Federico Faggin, Enrico Bombieri, Piero Benvenuti. Segnaliamo l’ultima pubblicazione: L’anima c’è e si vede. 18 prove che l’uomo non è solo materia, ED. Il Timone, 2023.