Pensando all’eutanasia e a Lincoln Rhyme

A proposito della proposta di introdurre nel nostro Paese l’eutanasia e quindi l’autorizzazione legislativa affinché anche da noi si possa “staccare la spina” alle persone costrette, sofferenti, all’immobilità, mi vengono in mente alcuni libri che ultimamente mi hanno molto appassionato.

Si tratta di una serie di thriller di Jeffery Deaver, ex avvocato e ora noto scrittore statunitense, di cui è protagonista Lincoln Rhyme (nella foto Denzel Washington che lo interpreta in un film), ex criminologo della polizia scientifica newyorkese ridotto sulla sedia a rotelle e in grado di muovere solo gli occhi e l’anulare di una mano in seguito ad un incidente occorsogli mentre raccoglieva indizi durante un’indagine.

Pur in questa tragica condizione e obbligato, suo malgrado, ad essere sempre assistito in tutto da qualcuno, Rhyme è ricercatissimo dalla centrale e dai colleghi con cui lavorava, per la sua straordinaria capacità di identificare e individuare i più efferati e scaltri assassini e serial killer servendosi di tracce infinitesimali che in qualche modo essi lasciano sempre dopo i loro delitti.

Al tempo stesso il criminologo non cessa di oscillare fra la voglia di farla finita procurandosi da una società specializzata il kit necessario per darsi o farsi dare la morte, e la scelta di tentare la strada opposta sottoponendosi ad operazioni chirurgiche estremamente rischiose per migliorare almeno parzialmente la propria situazione e riuscire a muovere magari almeno un braccio o una gamba.

Alla fine, proprio quando sembra deciso a rivolgersi al suo “dottor morte” o a giocarsi tutto con l’azzardo dell’intervento neurochirurgico, non arriva mai a soddisfare né l’uno né l’altro “desiderio” non avendone materialmente il tempo, perché troppo assorbito dalle indagini. In realtà il vero motivo che lo dissuade dalle due opzioni è l’amore per una collega, la donna poliziotto Amelia Sachs, dalla quale è intensamente ricambiato.

Sono la stima, l’intesa, la fiducia e la complicità umanamente profonde che permettono a Linconln di ritrovare continuamente il perché vale la pena accettarsi così com’è e andare avanti. Il pensiero di Amelia lo tiene in vita perché lei lo restituisce a se stesso e rappresenta la sola medicina, l’unico vero antiditodo alla morte che altrimenti lo schiaccerebbe comunque, ben prima di ricorrere all’iniezione letale.

Ecco, la vicenda di quest’uomo, pur inventata da uno scrittore che dalla lettura dei suoi libri non sembra assolutamente un credente, rivela una verità molto semplice e trascurata: una persona “normodotata” anche se viva è in realtà già morta (dentro) se non ama e non si sente amata da qualcuno, mentre può sopportare anche il peggior annichilimento fisico e recupera moltiplicandole, le sue capacità residuali e vicarie, in questo caso eccezionalmente preziose per la società, esclusivamente in forza di questo rapporto.

Già, si dirà, ma questa è appunto una faccenda personale. Cosa centra la legge sull’eutanasia?

Centra, perché uno Stato che consenta per legge di staccare la spina è uno Stato invasivo, che pretende di precludere questa esperienza al singolo malato. Altro che privacy. E’ uno Stato che si intromette nell’intimità della sua vita per dare a lui o a qualcun altro la possibilità (ma alla fine è di fatto un suggerimento) di non sperare più utilizzando la scorciatoia del suicidio o dell’omicidio legalizzato e programmato (perché questo è il vero nome dell’eutanasia).

Gian Burrasca

Perché riesplode la questione dell’eutanasia

E’ esploso in questi giorni il dibattito politico che, nelle intenzioni di chi ha acceso la miccia, dovrebbe preparare il terreno favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia anche in Italia.

A riportare alla ribalta dei giornali l’annosa querelle sulla “dolce morte”, è stata l’accorato appello rivolto al presidente della Repubblica da un malato di distrofia mulscolare, Piergiorgio Welby, copresidente dell’Associazione Luca Coscioni.

E la bomba è deflagrata, perché il Capo dello Stato gli ha risposto invitando il mondo politico ad aprire un confronto in materia.

Evidentemente Welby ha toccato le corde giuste presentando il proprio dramma personale. E i drammi personali, si sa, piacciono alla stampa che con racconti come questi è consapevole di appagare la curiosità un po’ morbosa dei lettori.

“Ho orrore della morte – ha confessato nella sua lettera Welby – ma la mia non più vita, bensì “un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”.

L’obiettivo di Pannella e soci è chiaro: utilizzare questo malato incurabile per suscitare nell’opinione pubblica da un lato un sentimento di pietà verso quest’uomo, dall’altro diffondere al tempo stesso lo sdegno perché il retrogrado ordinamento del nostro Paese non permette di soddisfare la sua disperata richiesta di staccare la spina, ponendo fine a quella che egli stesso considera una non-vita.

In altri termini ai rosapugnoni e agli esponenti della sinistra radicale, della reale situazione di Welby non frega un accidente.

Fosse per loro potrebbe crepare anche subito se il suo dramma non servisse a muovere le acque per accelerare il sospirato avvento dell’eutanasia nel nostro Paese.

Chi conserva il lume della ragione sa che questo è solo un trucco odioso che ha un nome preciso: si chiama strumentalizzazione. E della peggior specie, perchè gioca sulla pelle di un essere umano in carne ed ossa.

La vera questione è un’altra, come spiega con chiarezza l’articolo dello scrittore Luca Doninelli pubblicato in prima pagina da Il Giornale di ieri (25 settembre 2006). Ne riporto una parte che consiglio a tutti di leggere per non lascairsi abbindolare e cogliere il nocciolo del problema.

“Bisogna dire quello che non va in questa storia”, osserva Doninelli. “Innanzitutto, le storie sono due. Una riguarda il caso personale di Welby, l’altra la battaglia civile che dal caso Welby prende spunto.

? lo stesso Piergiorgio Welby (che è, ricordiamo, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni per la libertà della ricerca scientifica) a presentare le due storie come se fossero una sola.

Ma non è così.

L’attenzione viene immediatamente spostata dalla realtà della sofferenza, una vicenda umana viene usata, proprio usata, ai fini di una propaganda ideologica.

Anche il modo di diramare il comunicato, con un video che lo mostra in tutto lo spettacolo (che non è, scusate tanto, la realtà) della sua sofferenza atroce e la voce sintetizzata al computer ha qualcosa di orribile, ma orribile soprattutto perché costruito, calcolato, misurato.

C’è, dunque, una finzione il cui scopo è quello di riportare al centro del dibattito civile la questione dell’eutanasia.

Su questo punto è bene essere chiari e semplici perché l’ipocrisia non può essere ammessa. Il cuore del contendere si fonda sul seguente dilemma: i padroni della nostra vita siamo noi, oppure la vita è un dono?

Dalle parole di Welby (un po’ letterarie) si capisce che per lui la vita è un dono.

Poi però la sofferenza è tale che la vita smette di essere un dono, è solo una condanna.

Ma una volta giunti al dibattito civile, bisognerà scegliere una delle due vie.

Se la società (opportunamente manovrata) decide che io sono il padrone della mia vita, posso naturalmente avvalermi del diritto a non interrompere la mia esistenza, ma lo farò solo in base a una convinzione privata, a un parere: il parere che la vita è sacra.

Ma sarà sempre un parere privato, senza nessuna pretesa di verità.

La regola pubblica si fonderà, infatti, sul principio opposto. Ma, una volta deciso che la vita è nostra proprietà, che la si può volere e disvolere, una volta deciso che non è un dono gratuito, che non è una porta aperta sul mistero, chi potrà fermare la marcia del più forte? Dove porremo il limite alla sperimentazione genetica? Chi potrà dire “fin qui si può, da qui in avanti non si può”?

Io non voglio essere obbligato ad accettare il principio che la vita mi appartiene.

Lo dico non solo da cristiano, lo dico anche come narratore. Scendendo nel cuore dei fatti che raccontiamo, i casi sono due: o sperimentiamo la loro inconsistenza originaria, oppure sperimentiamo la tenacia della realtà, la sua irriducibilità a tutte le nostre teorie.

Chi sostiene che noi siamo i padroni della nostra vita si fonda sulla prima alternativa, alla quale è stato dato un nome preciso: nichilismo. Bene, io non sono nichilista. Nessuno può dirmi che devo accettare l’inconsistenza della vita salvo poi precisare che, personalmente, privatamente, ritengo che la vita sia una bellissima cosa.

Questa sarebbe una buffonata, perché una volta detto “sì” al principio le persuasioni personali sono paglia e fumo. Welby può chiedere di morire, e io sinceramente non so se abbia torto, a titolo individuale.

Se però mi trovassi nella sua condizione, so che i miei amici mi ricorderebbero che la verità della vita non muta di un punto né di una virgola anche se dalla mia difficile condizione non la si capisce più.

Vorrei ricordare che in Italia esistono cinquemila malati di distrofia laterale: cinquemila persone che, diversamente da Welby, vogliono continuare a vivere. I parenti e gli assistenti di queste persone devono spendere centinaia di euro al giorno per sostenere le cure dei loro cari malati.

Lo Stato non si fa nessun carico di queste situazioni. Mi domando dunque se la voce di un solo Welby, per quanto forte, debba trovare ascolto mentre nessuno si preoccupa di quei cinquemila.

Certo, staccare la spina costa meno che sostenere l’onere di una cura molto costosa. Scusate il cinismo, ma è così. Ma Lei, Presidente Napolitano, che nella risposta a Welby ha mostrato tutto il suo equilibrio e la sua saggezza, non dimentichi l’appello muto, il grido ignorato di tutti quelli che, anziché morire, vogliono vivere.”

Gian Burrasca
pressmail.a@libero.it

L’eutanasia, l’inganno della “dolce morte”

L’eutanasia: l’inganno della “dolce morte”.
A trent’anni è difficile immaginare la vecchiaia. Arridono tante speranze, tanti desideri. Anche se non si è in cerca del sol dell’avvenire, solo vivendo il presente che ci è dato e il futuro che si spera, si è già sufficientemente occupati.
E poi i vecchi, non si vedono quasi.
Il buon gusto odierno ha imparato a relegarli ai bordi, nella tristezza degli ospizi. Viviamo a compartimenti stagno, perché oggi le generazioni non durano vent’anni, ma cinque, e il dialogo tra giovani e adulti è quasi assente, quasi nullo quello con gli anziani.
Nonostante questo gli amici di Gs, Gioventù Studentesca, girano negli ospizi, il sabato pomeriggio, per rallegrare questi locali bigi, con le pareti affumicate, o bianchi, talmente bianchi che già il vecchio padron ‘Ntoni di Verga, che aveva amato tutta la vita la sua famiglia e la sua “casa del nespolo”, ne provava orrore.
Si sentiva soffocare, non dalla morte, ma dalla morte asettica, senza grandezza, senza intimità, senza il calore dei suoi cari ad accompagnarlo.
Poveri anziani, ospedalizzati, quando ancora stanno abbastanza bene, privati della gioia dei nipoti, che non ci sono, o sono troppo indaffarati, a scuola o nei mille impegni che gli abbiamo costruito intorno, quasi a forma di gabbia, per tenerli ben ben occupati!
Eppure anche la vecchiaia ha la sua bellezza, il suo profondo significato.
La hanno celebrata poeti di ogni epoca, filosofi come Cicerone, nel De Senectute, e, nel nostro tempo, due non credenti come Carducci e Pascoli.
In “Nevicata” il sanguigno poeta toscano sottolinea la lunghezza delle ore, quando si è vecchi e stanchi: “lenta fiocca la neve pel cielo cinereo…”.
E’ cinereo il cielo della vecchiaia, lento il cadere dei fiocchi ed il passare del tempo, ma ciò non toglie che il cuore del poeta non si rassegni, voglia ancora battere e pulsare: “tu calmati, indomito cuore…”.
Non è solo anagrafe, la vita, ma è anche questione di spirito. Lo ripete benissimo Pascoli, suo allievo, ne “L’ora di Barga”, quando il suo fanciullino interiore,
l’Adamo che scopre nelle cose la loro lacrima e il loro sorriso, fa sentire il suo grido tinnulo di meraviglia, di sotto alla voce roca e stanca dell’uomo ormai vecchio.
In questa poesia Pascoli, seduto alla finestra, ascolta i rintocchi del campanile, nel suo “cantuccio”, quasi assediato dalla morte, che lo ha stretto in un angolo.
Ascolta i rumori che provengono da fuori, guarda i colori, che gli giungono attutiti, attraverso gli occhi appannati e per il tramite di un vetro, “come da un velo”.
Il poeta si rivolge allora al campanile, che sembra ricordargli il momento della fine, e con voce accorata gli chiede ancora un istante di vita: “Tu dici, E’ l’ora; tu dici, E’ tardi, /voce che cadi blanda dal cielo. / Ma un poco ancora lascia che guardi /l’albero, il ragno, l’ape, lo stelo, /cose che han molti secoli, o un anno,/ o un ora e quelle nubi che vanno. /Lasciami immoto qui rimanere /fra tanto moto d’ale e di fronde; e udire il gallo che da un podere/chiama, e da un altro l’altro risponde…”.
Sono le cose belle della vita, le più semplici, le più apparentemente insignificanti, quelle che hanno molti secoli, a divenire improvvisamente nuove, meravigliose, come se avessero solo un’ora: l’albero, il ragno, l’ape, lo stelo.
Dopo un cancro, superato con fatica, monsignor Alessandro Maggiolini ha scritto: ” Adesso mi sento regalato due volte: perché mi ha creato e perché mi concede ancora di vivere.
Ma il sipario delle vita eterna si è fatto liso come una carta velina…Voglio vedere negli occhi Gesù, ho una lista dei miei cari che vorrei rivedere subito…”.
Voler vivere e voler morire: è una incredibile, paradossale, comprensibile condizione dei vecchi. Voler vivere, accanto a qualcuno, per vedere la sua realizzazione e la sua storia.
Voler morire, per incontrare qualcuno. “Uccelli raminghi picchiano a vetri appannati, /gli amici spiriti reduci son, /guardano e chiamano me”, scrive Carducci, nella citata poesia, quasi commosso dal richiamo.
Analogamente Pascoli conclude così: “Sì, ritorniamo,/ dove son quelli che amano ed amo”.
Personalmente non ho ricordi più grandi, più profondamente scolpiti, dell’ultimo addio a mia nonna che moriva, stringendo le mani di sua figlia, raccomandandosi per me, che restavo; o del cadavere di un amico, morto come avrebbe voluto, nella sua fede e nei suoi affetti più cari.
Morire bene, da anziani, è una gioia, e lascia, anche in chi resta, una tristezza serena, quieta, che non esaspera lo spirito.
Morire strappando forzatamente il velo, violentemente, per scelta, suicidio o eutanasia, è come salutare sbattendo la porta, senza riconoscere, a chi ci ama, il valore della sua presenza; senza riconoscere alla nostra vita, un senso che la abbia resa sacra.
Eppure di eutanasia (“dolce morte”), intesa come suicidio assistito, come porre fine, con l’aiuto di un medico, ad una vita ritenuta ormai indegna di essere vissuta, si parla sempre più spesso.
Ma cosa c’è di “dolce”, nella scelta di morire? Scriveva Chesterton: “Per me il suicidio non è soltanto un peccato, è il peccato; è il male supremo e assoluto, il rifiuto di prendere interesse alla esistenza, di prestare il giuramento di fedeltà alla vita. L’uomo che uccide un uomo, uccide un uomo; l’uomo che uccide se stesso uccide tutti gli uomini: per quanto lo riguarda distrugge il mondo…”.
Se l’eroe, o il martire, muoiono per amore della vita, o di ciò che alla vita dà sapore, perché anche gli altri ne siano partecipi, disdegnando la morte, il suicida consapevole muore per amore della morte, disdegnando la vita.
Muore senza salutare, senza girarsi indietro, disperando possa esistere qualcosa, qui o là.
E’ la cosa più triste, più tragica che possa accadere, e lascia in tutti coloro che rimangono un senso di colpa, di prostrazione, di sbigottimento.
Non c’è evidentemente nulla di “dolce”, né di “dignitoso” in tutto ciò. Eppure non si può negare, sarebbe sciocco farlo, che la vita può diventare, in alcuni casi, troppo crudele, apparentemente assurda, specie per chi non creda in Dio.
Perché allora negare ad altri il diritto di una morte assistita, con il medico a fianco? Anzitutto, penso, per un principio di buon senso: come decidere quando, e in quali circostanze, con quali limiti?
Una volta violato il principio della sacralità della vita, come decidere sugli accidenti? La tecnica dei propugnatori dell’eutanasia, infatti, è la solita: presentare casi estremi, per aprire la breccia, per abbattere le resistenze psicologiche ( magari dimenticando di spiegare che ad esempio il rifiuto dell’accanimento terapeutico non coincide con l’eutanasia).
Michel Schooyans la ha chiamata la “tecnica del salame”: “si erode il rispetto che si deve a un principio dando alla legge il compito di moltiplicare e di banalizzare i casi in cui il diritto positivo giustifica che vi sia fatta eccezione” (“Bioetica e popolazione”, Ares).
Ma poi, passato il principio, chi vieterà al giovane depresso, all’adulto squattrinato, all’uomo o la donna in crisi per motivi amorosi, di ricorrere, nella angoscia e debolezza del momento, alla mutua; di chiedere alla collettività e ad un uomo in camice bianco di farsi carico della sua eliminazione?
Come fermare una deriva nichilista ed individualista, per cui la vita e la morte diventano possesso personale di ognuno, così che anche i valori più umani, di carità, di assistenza, di compassione, vengono svuotati dall’interno?
Non bisogna farsi illusioni: l’eutanasia passerà, perché è figlia di una società che ha già infranto il principio della sacralità della vita.
Ha già abolito il senso del dolore, la portata immensa del destino umano, il sacrificio come legge dell’esistenza.
A mio parere occorre opporsi all’eutanasia per fermare la caduta, rallentare la corsa del masso che rotola, ben sapendo però che ad ogni causa corrispondono determinate conseguenze, ancor più nella vita morale che in quella fisica.
Una società che non fa figli, che non si stupisce di fronte al mistero della vita nascente, non può farlo di fronte ad un mistero velato, nascosto tra rughe e debolezza.
Una società che non si fa carico della famiglia, dell’aiuto ai genitori, non può farsi carico, a lungo, degli anziani, semplicemente perché non è economicamente possibile. Può solo chiuderli in un ospizio, in attesa magari di disfarsene un giorno, come è successo tante volte, per tirarli giù dalle spese.
Ha scritto Jacques Attali, già “consigliere speciale” del presidente francese Mitterand, nel suo “L’avenir de la vie”: “Quando si sorpassano i 60-65 anni, l’uomo vive più a lungo di quanto non produca e costa caro alla società…
L’eutanasia sarà uno degli strumenti essenziali delle società future… Macchine per sopprimere permetteranno di eliminare la vita allorchè essa sarà insopportabile o economicamente troppo costosa”.
Lo stesso concetto è ribadito nel suo “Dizionario del XXI secolo” (Armando editore): ” Alcune delle democrazie più avanzate sceglieranno di fare della morte un atto di libertà e di legalizzare l’eutanasia. Altre fisseranno dei limiti precisi alle proprie spese per la sanità…”.
Del resto è cosa che è successa già innumerevoli volte, in molti paesi ed anche in Italia.
Recentemente ad esempio il dottor Ivan Villa ha affermato proprio a riguardo dell’eutanasia:” I rimborsi regionali per questo tipo di malati (gravi, ndr.) sono sempre modesti, non sono remunerativi, e molti ospedali tendono a liberarsene” (“Corriere della Sera”, 18/12/2004)
Sono solo alcune riflessioni, le mie, che non voglio concludere prima di aver notato un dato, “storico”, non filosofico: il poveretto che soffre, che non riesce ad affrontare la vita, un momento della vita, da che mondo e mondo si suicida, senza tante filosofie, senza rivendicare nulla. Sente di aver perso e non cerca alibi, solo compassione.
Nella storia invece coloro che hanno lottato e lottano ogni giorno, dopo i nazisti, perché questo suicidio divenga benedetto, ipocritamente “dolce”, falsamente “dignitoso”, follemente “caritatevole”, sono di solito consapevoli nemici della vita, nichilisti orgogliosi, che vogliono urlare la loro ribellione con la grinta e la violenza di Capaneo; oppure persone che riflettono su altri il loro male di vivere, che attribuiscono ad altri una disperazione, di fronte al dolore, che è anzitutto loro. Sono persone che alla vita, loro per primi, non riconoscono nulla.
Basterebbe ricordarne qualcuno, per aver timore di tutto ciò che propongono.
I due medici sostenitori dell’eutanasia più famosi sono il celebre dottore americano Kevorkian, ribattezzato “dottor morte”, e il medico inglese Harold Shipman, anch’egli noto nel suo paese con lo stesso appellativo.
Del primo ci parla Fabrizio Del Noce, descrivendo la sua “ossessione tanatologica, che lo aveva portato ad assistere ad esecuzioni capitali e successivamente a proporre di utilizzare i condannati a morte per esperimenti medici.
Aveva addirittura tentato di fotografare gli occhi di un morente, per fissare con l’obiettivo quell’attimo in cui la vita si spegne”. “Il guaio della medicina- ha detto Kevorkian a Del Noce-è che è sempre stata dominata dalla religione”, mentre “la vita e la morte in questo mondo sono competenza dei medici…” (“Non uccidere”, Mondadori).
Per i suoi assistiti il dottor Morte propone poi, a conclusione dell’ “assistenza”, l’ espianto degli organi.
C’è poi il dottor Shipman, inglese, un medico che già agli inizi della carriera si presenta come un tipo non particolarmente brillante ma volitivo.
I colleghi lo considerano sgarbato e strano.
Poi si accorgono delle sue improvvise crisi, in cui arriva a perdere conoscenza: fa infatti uso di petidina, un analgesico simile alla morfina, fino ad intossicarsi.
Nel 1977 lavora all’ospedale di Hyde, nel nord dell’Inghilterra e qui, dopo poco, qualcuno nota l’eccessivo numero di pazienti deceduti sotto le sue cure.
Ama recarsi in casa di anziane signore, spesso sole, di solito all’ora del the, o quando ritiene che in casa non vi sia nessun altro.
Un giorno la figlia di una sua assistita, Angela Grundy, decide di andare a fondo riguardo alla morte della madre, Kathleen, una donna ancora troppo vispa e vitale per aver scelto autonomamente di morire.
Si scopre che Kathleen è morta per una overdose di morfina e che nel suo testamento c’è uno strano lascito, proprio al dottor Shipman.
Nel 1999 al tribunale di Preston si apre il processo e Shipman viene riconosciuto colpevole di almeno 15 omicidi.
Nessuna delle vittime era gravemente malata.
Col tempo la Commissione del Ministero della Sanità riconosce la sua probabile responsabilità in almeno 236 decessi in 24 anni, di persone tra i 41 e i 93 anni: sarebbe uno dei serial killer più terribili della storia.
Solo che, a parte il caso della Grundy, manca sempre un movente preciso: un sadico desiderio di morte? Follia? Odio per gli anziani, riguardo a cui aveva detto più volte che sono capaci soltanto di dissanguare il servizio sanitario?
Anche in Italia abbiamo qualche episodio balzato agli onori della cronaca. Si può ricordare ad esempio la storia di Giorgio Conciani, medico vicino ai radicali, autore di aborti clandestini, sostenitore dell’eutanasia, radiato dall’Ordine dei medici per istigazione al suicidio, che drammaticamente pose fini ai suoi giorni impiccandosi a una trave in cantina.
Conciani faceva tutto per una sorta di perversa convinzione, ma si faceva pagare: alla sua morte i magistrati trovarono a suo nome “conti cospicui, depositi di preziosi, tra cui, particolare singolare, un quintale d’argento in grani” (Carlo Casini, Sul fronte della vita, LDC).
Vi è poi il caso, ancora, di Guido Tassinari, radicale, morto a Milano agli inizi dell’ottobre 1993, impegnato per la legalizzazione del divorzio, dell’aborto, della sterilizzazione volontaria, dell’eutanasia, e fondatore della Associazione per lo sbattezzo.
Una vita intera dedicata ad una strana forma di carità “inversa”.
Nel maggio 1989 venne condannato a quattro anni per aver assistito il suicidio di Umberto Santangelo, un cameriere di 33 anni. Nel 1995, per proseguire nel breve elenco, fece un certo scalpore la vicenda di Alfonso De Martino, infermiere di professione, condannato a quattro ergastoli per omicidio plurimo volontario, aggravato e continuato.
Era un personaggio singolare, sempre vestito di nero, addobbato con strani monili e teschi, dedito a forme di satanismo: si riteneva titolare della facoltà sovrannaturale di poter disporre della vita e della morte dei malati sottoposti alle sue cure.
Infine per arrivare a fatti di questi giorni, si continua a parlare delle vicende di Sonia Caleffi, una povera infermiera anoressica, con una vita infelice, accusata di aver eliminato lei, di sua solitaria iniziativa, almeno cinque persone, forse anche suggestionata dalla lettura di libri sulla “dolce morte”. Accusata, neppure ricordava più i nomi delle vittime che aveva eliminato, e si limitava a definirli, nei suoi scritti, “pazienti”, con la abbreviazione (“p.ti), come fossero pratiche da sbrigare.(da : “Voglio una vita manipolata”, Ares).

E’ esistito in Italia il far west della provetta? Quali sono i rischi della PMA?

E’ opportuno iniziare questo studio sulla bioetica in generale partendo dalla discussione attualmente più calda e partecipata: quella sulla fecondazione in vitro (Fiv), detta anche fecondazione extracorporea. o procreazione medicalmente assistita 

Lo farò anzitutto in una prospettiva storica, facilmente accostabile da tutti, ed in particolare servendomi di un’opera di impostazione completamente antitetica rispetto alla mia, e cioè “La fecondazione proibita” di Chiara Valentini, giornalista de "L’Espresso" (Feltrinelli, 2004). La Valentini si propone di raccontare la storia della fecondazione in vitro in Italia, ma anche, e soprattutto, di far “capire le ferite imposte da una legge giudicata da molti la peggiore d’Europa”, ovvero la legge 40 sulla fecondazione assistita, contro la quale si è mossa la macchina referendaria di buona parte della sinistra, oltre a quella radicale. Succede, però, che a volte le intenzioni vengano sopraffatte dalla realtà. E la Valentini, giornalista di lungo corso, raccontando la realtà della procreazione assistita, finisce paradossalmente per dar ragione a chi la legge 40 la sostiene, se non, addirittura, a chi la ritiene eccessivamente permissiva. Vediamo come. Il suo testo si presenta come una storia degli esperimenti, delle prove, degli smacchi e dei successi di medici e intrallazzoni di tutta Italia, oltre che di altri paesi dell’Occidente. Paradossalmente, infatti, la critica alla legge 40 è relegata nello spazio di poche, acide pagine, e questo permette al lettore di capire da un punto di vista storico, e quindi oggettivo, cosa sia veramente successo (mi permetterò, qua e là, qualche aggiunta).

Nel 1978 nasce in Inghilterra la prima bambina fecondata in vitro, Louise Brown. In quello stesso anno un intellettuale comunista convertito, André Frossard scrive: "Il giorno, e vi dico che non tarderà, in cui i vostri biologi avranno trovato il modo di cambiare la natura umana agendo sulle cellule iniziali, essi se ne serviranno, statene certi, anche se dovessero in un primo momento popolare la terra di fenomeni da baraccone". Effettivamente da quella bambina in poi avviene qualcosa di nuovo, qualcosa che prima era assolutamente inimmaginabile. Medici intraprendenti, biologi specializzati nella fecondazione in vitro di vacche e conigli, come il francese Testart, dottori esperti in aborti come Patrick Steptoe, un "socialista accanitamente ateo" come il biologo Robert Edwards, e tanti altri, si dedicano a scoprire modalità di ogni tipo per rendere possibile la fecondazione umana extracorporea. Tutto avviene nel segreto delle cliniche, di solito private, e viene alla luce soltanto nei casi più clamorosi.

In Italia si distinguono i dottori Daniele Petrucci, Ettore Cittadini e Vincenzo Abate. Quest’ultimi due si contendono a colpi di stampa il primato del primo bambino realizzato in provetta: Abate, che poi rinnegherà il suo passato per scrupoli morali, rivendica a suo merito la nascita di Alessandra Abbisogno, nella clinica Posillipo di Napoli, mentre Cittadini fa venire al mondo, nel 1984, a Palermo, Eleonora Zaccheddu. A questa generazione di medici pionieri si aggiungono col tempo alcuni ginecologi destinati a grande fortuna, spesso specializzatisi all’estero, in particolare Carlo Flamigni e Luca Gianaroli, oggi entrambi attivi a Bologna, città che la Valentini definisce "il triangolo d’oro" della fecondazione in vitro (Fiv) in Italia. "Triangolo d’oro" fa venire alla mente il traffico di schiavi degli inglesi e dei portoghesi nel Seicento-Settecento, o il triangolo dell’oppio tra Inghilterra, India e Cina nell’Ottocento.

Non di questo si tratta, ma comunque, di certo, di un giro enorme d’affari. E’ infatti evidente che, dopo i primi "successi" della Fiv, la voce si sparge, e le coppie sterili, sempre di più, cercano un conforto alla loro tristezza e un aiuto da chi promette di darglielo. Sono disposte, evidentemente, a mantenere riservatezza su ciò che viene loro chiesto, e a pagare profumatamente, se necessario ipotecando la casa o vendendo dei beni. Sono disposte a tacere riguardo a ciò che viene loro fatto, sia nel campo delle sperimentazione di nuove tecniche, sia sotto ogni altro aspetto: "il corpo di quelle donne veniva usato come una cosa inanimata e senza volontà, come se la situazione di medico che può far partorire un figlio gli desse un diritto speciale" (p.107).

Nascono dovunque laboratori improvvisati, perché, a differenza che per qualsiasi altra specialità medica, non è richiesto alcun permesso nè alcuna specializzazione: un dentista di Firenze la sera, deposto il trapano, trasforma il suo studio in un centro di Fiv; altri dottori, poco attrezzati e poco esperti, improvvisano improbabili tecniche o si limitano a spillare quattrini, senza alcun risultato. Sorgono addirittura "finanziarie collegate a studi medici pronte ad erogare prestiti ad aspiranti genitori": un "businesss per decine di miliardi e senza regole" ("Panorama", 11/12/1997). "Chi operava nel privato – scrive la Valentini – non aveva regole specifiche da rispettare…Non c’era alcun obbligo di far verificare la scientificità e la sicurezza dei propri metodi agli ispettori del ministero. Non c’erano limiti alle tariffe e non esisteva neanche un registro nazionale dei centri con iscrizione obbligatoria, come in molti altri paesi" (p.100).

Le tecniche infatti sono ancora molto sperimentali e molto costose: basti pensare che oggi un ciclo di Fiv può costare anche diecimila euro, esclusi annessi e connessi (solitamente viene ripetuto più e più volte), e che una donazione di ovociti arriva a ottomila euro. Si sa di coppie, in America, che spendono tuttora sino a trecentomila dollari per realizzare il sogno di un bambino tutto loro: del resto si tratta di un sacrificio che, dal punto di vista umano, è perfettamente "comprensibile" (“la Repubblica delle donne”, 16/10/2004). Il fatto triste è che in queste cliniche private e non, a cui lo Stato italiano non porrà alcun limite fino al 2004, succede un po’ di tutto: siamo nella fase iniziale, e occorre sperimentare, come per ogni procedimento scientifico.

Di quello che è successo, in realtà, sappiamo ben poco, perché tutto è rimasto a lungo nell’ombra. Per questo si è parlato per anni di “far west della provetta”, di sperimentazione selvaggia sul corpo delle donne e sulla speranza delle coppie. Ne parlavano, già negli anni Ottanta, non solo i cattolici, ma anche alcuni movimenti di sinistra, specie femministe e ambientalisti. Lo ricorda la Valentini, accennando qua e là ad alcuni nomi di personalità della sinistra italiana che dimostravano in quegli anni una certa preoccupazione per un fenomeno così grave e così assolutamente deregolamentato: il verde Alex Langer, Nilde Jotti, Livia Turco, la sociologa Franca Pizzini e la psicoanalista Marisa Fiumanò. Soprattutto in ambienti ecologisti e femministi ci si poneva il problema molto chiaramente: cosa è questa fecondazione in vitro? Che effetti ha sulla donna la tempesta di ormoni destinata a favorire l’iperstimolazione ovarica, preliminare ad ogni fiv? Come nasceranno gli eventuali bambini? Saranno sani o no? C’è il rischio di pratiche eugenetiche? E gli embrioni?

Del resto è ovvio chiederselo: siamo veramente in grado di controllare la vita?

Oggi, nell’anno 2004, in seguito all’emanazione di una legge che regolamenta qualche eccesso, quasi tutta la sinistra, in alleanza con i radicali e con le cliniche private nelle quali si pratica la Fiv, afferma che il far west non è mai esistito, e che l’assenza di qualunque controllo è meglio di qualunque divieto.

Lo scrive il professor Flamigni: "Non c’è mai stato nessun far west" ("Io donna", settembre 2004). Eppure la Valentini ci offre un ventaglio di storie da vero far west, raccapriccianti. In un capitolo intitolato "Benvenuti al circo Barnum" descrive le prodezze del ginecologo romano Severino Antinori, famoso anche perchè portava al punto giusto gli spermatozoi immaturi nei testicoli dei topi. L’Antinori ha reso possibile, negli anni, la gravidanza di "decine di donne over sessanta", la più famosa delle quali è senz’altro Rosanna Della Corte, di anni 63. Questa donna "si sarebbe presentata nello studio romano di Antinori tenendo tra le mani un piccolo contenitore di azoto liquido" contenente lo sperma del marito, morto dieci anni prima (p.80). Sempre Antinori ha fatto partorire due gemelli ad una "imprenditrice inglese miliardaria di 59 anni", ed ha fatto sì che una ragazza siciliana, Manuela, portasse "in grembo l’embrione frutto degli ovociti della madre e degli spermatozoi del patrigno" (p.85). E’ successo anche il contrario: una mamma napoletana, Regina Bianchi, "aveva accettato di portare la gravidanza al posto della figlia", ma aveva perso il bambino. In più occasioni, in questi anni di sperimentazione selvaggia, venivano concepiti con Fiv, non unici, ma in serie, quasi prodotti artificiali, spesso per l’impianto di troppi embrioni, 5, 6, addirittura 8 gemelli: con conseguenze gravi sulle mamme, con uteri che arrivavano a pesare 16 chili, mentre i bimbi in gran parte morivano, o nascevano prematuri, sottopeso, con gravi menomazioni fisiche e mentali (otto gemelli: a Napoli nel 1979, a Palermo nel 1989, a Trapani nel 2000…). Perché tanti gemelli? Anche perché non vi era alcun limite rispetto agli embrioni da impiantare. Sempre la Valentini ci racconta il caso di una donna di Reggio Emilia a cui vennero impiantati dal professor La Sala ben dieci embrioni. Ne nacquero "quattro minuscole creature, che pesavano meno di otto etti". Due morirono quasi subito, gli altri erano fragilissimi, e ci vollero "sei mesi di incubatrice e di cure intensive" per salvarli(p.105).

Il problema dei troppi embrioni che i medici impiantavano, per maggior "efficienza", viene affrontato dalla Valentini anche a pagina 140 e 141, con una malizia che è stata spesso utilizzata in questi mesi da parte del fronte referendario. Si legge infatti a pagina 140 che una donna di 38 anni, dopo l’entrata in vigore della legge 40, è rimasta incinta di ben tre gemelli "a causa dell’obbligo di impiantare comunque tre embrioni": la colpa sarebbe dunque della legge, che impone l’impianto di troppi embrioni (ma prima non se ne impiantavano anche dieci?). A pagina 141 si parla invece di un’altra donna, le cui speranze di avere un figlio sarebbero pochissime causa l’ "obbligo di impiantare massimo tre embrioni": la colpa sarebbe dunque ancora della legge, questa volta perché permette l’impianto di troppo pochi embrioni! La verità è che la Legge 40 prescrive di impiantare un numero di embrioni "comunque non superiore a tre", e quindi anche inferiore, anche perché non si verifichino più casi come quelli degli otto gemelli citati.

Un altro fenomeno orribile di cui la Valentini dà conto è quello degli uteri in affitto. La Fiv senza regole infatti crea una sorta di nuovo lavoro: affittare il proprio utero per realizzare il desiderio di maternità di una coppia. In tutta Europa e in America nascono agenzie specializzate. Fabrizio Del Noce, nel suo "Non uccidere" (Mondadori), racconta che nel 1995 in Usa un utero in affitto veniva a costare circa 41.000 dollari; 16.000 all’agenzia, 10.000 alla prestatrice d’utero, 15.000 per le spese mediche e l’assistenza legale. Perché l’assistenza legale? Perché l’utero in affitto porta con sé dei gravi problemi. Ne parla la Valentini da pagina 86 a pagina 94. Succede, per esempio, che la gestante si affezioni al bambino portato in grembo, e che alla fine decida di non "consegnarlo"; o che faccia pesare la sua presenza anche dopo il parto, ritagliandosi a forza uno spazio nell’affetto del bimbo e nella famiglia. Oppure approfitta per alzare il prezzo, man mano che l’ora del parto si avvicina. Si registrano anche casi di gestanti che decidono in corso d’opera che non ne vale la pena, e abortiscono; che sono malate di aids, e contagiano il nascituro; che gestiscono la gravidanza senza alcuna precauzione, danneggiando il futuro neonato. Succede, ancora, che la coppia committente, nell’arco dei nove mesi, si separa, e nessuno allora vuole più il bambino; o che alla fine del parto nessuno riconosce il neonato come suo. In Italia c’è un caso divenuto celebre: quello di un ricco pasticcere di Seregno, che affitta l’utero di una donna algerina. Costei ne approfitta e alza di continuo il prezzo: chiede 40 milioni, poi una paninoteca in gestione, poi una macchina sportiva. Alla fine il pasticcere si secca e la allontana. Ma la moglie, disperata per tutta questa vicenda, si spara in testa: non muore, ma rimane cieca. Quando il bambino nasce, e visto che in Italia il figlio è (e continua a essere) di chi lo partorisce, riconoscono, accanto alla madre algerina, la paternità del pasticcere, ma permettono a sua moglie di adottare il bambino, se colei che ha partorito è d’accordo.

In vari punti la Valentini parla della fecondazione eterologa, dichiarandosi ovviamente a favore. Ciò non le impedisce di raccontare che in molti paesi in cui l’eterologa è permessa vi sono dei registri col nome dei "donatori", affinchè il futuro bambino o bambina possa un giorno conoscere la sua origine genetica, per evitargli gravi danni psicologici. I genitori che non dicono subito ai figli che sono stati generati con gameti altrui, sostiene la Valentini, "danneggiano i figli", come dimostrano quattro casi da lei riportati: Heidi, nata da donatore, "ha gravi problemi psichici"; Peter racconta di aver finalmente capito perché il padre lo aveva sempre rifiutato solo dopo essere venuto a conoscenza del fatto che non era suo padre genetico; Robert, venuto a sapere per caso di essere nato da donatore, afferma: "E’ come essere stato investito da un treno"; Susannh, invece, spiega: "appena sarò più grande cercherò di sapere chi è l’uomo che ha dato alla mamma il seme che mi ha fatto nascere. E’ duro crescere senza sapere niente di metà del proprio patrimonio genetico". In Australia, scrive ancora la Valentini, in un "documentario andato in onda nel 2000 viene seguito passo dopo passo il viaggio di una ragazza di 17 anni alla ricerca del donatore che le aveva dato la vita" (p.168.169). Non si capisce, dopo questi esempi, dove stia la positività dell’eterologa (anche l’ovodonazione tra parenti viene definita "un disastro" a p.77).

Tanto più che essa richiede la crioconservazione (con il conseguente degrado biologico) e l’esistenza di banche del seme e degli embrioni: ne nascono alcune in questi anni di far west in Italia, tra cui quella di Roma, fondata da Emanuele Lauricella. Esse effettuano di solito la vendita di sperma e ovociti per corrispondenza, senza alcun controllo sanitario. C’è addirittura "un vero e proprio mercato di ovociti rubati e anche molti embrioni cambiavano proprietario" (p.102). Abbondano i "donatori", come li chiamano con un eufemismo i medici che fanno la Fiv (espertissimi nella neolingua orwelliana): si tratta di uomini e donne che vendono il seme o gli ovuli, di continuo, anche una volta al mese, spargendo a destra e a manca figli, che magari un giorno potrebbero anche incontrarsi senza saperlo. La Valentini nel suo libro ne intervista due, un maschio e una femmina: l’uomo è un tipo "colto, di sinistra", che vende il suo seme per 100.000 lire una volta al mese, affermando di provare un "generico senso di potenza". La donna è un’aspirante attrice, che mette insieme qualche soldo "donando" (ma in realtà vendendo) ovuli (pratica comunque pericolosa per la sua salute): anche lei provava, scrive la Valentini, "una specie di sensazione di potenza" all’idea di quanti bambini aveva fatto nascere nel suo quartiere.

La cosa incredibile è che alla fine gli autori di queste nefandezze, intendo soprattutto i medici, non hanno mai pagato. Sempre la Valentini sostiene che delle cinquanta donne da lei intervistate "quasi la metà ha riferito di episodi di malasanità in genere": molestie sessuali, impianto di embrioni altrui, eterologhe fatte senza permesso della coppia, stimolazioni ovariche eccessive, impianto di troppi embrioni, dosaggio sbagliato dei farmaci, aborti procurati per errori medici (p.101-102-103)… Eppure quasi nessuna coppia si arrischiava a denunciare i medici responsabili. Anche se lo avesse fatto, in assenza di legge, non sarebbe successo nulla. E’ emblematico a riguardo il caso del dottor Giovanni Mencaglia (p.108): costui "si era inventato la vendita dello sperma per corrispondenza". Nei suoi affari aveva venduto a vari centri di fecondazione artificiale un migliaio di dosi di seme di un solo donatore, affetto per di più da epatite C. Scoperto dalla polizia nel 1997, indagato per tentata epidemia, non aveva subito alcuna conseguenza ed era potuto tornare tranquillamente ai suoi esperimenti di fecondazione artificiale.

L’ultimo aneddoto istruttivo che citerò è quello di Brigitte Fanny Cohen, specialista di medicina del canale tv France 2, sottopostasi inutilmente a iperstimolazione ovarica per avere un figlio con Fiv. La Valentini racconta che durante una conferenza stampa la Cohen spinge un medico ad ammettere il rischio tumore connesso a tale pratica. Poi gli chiede: "Perché non avvertite le pazienti?". E il medico: "Se lo dicessimo nessuna farebbe più la fecondazione artificiale" (p.95).

Infine, riguardo a tutta la problematica sulla sanità o meno dei bimbi nati da Fiv, la Valentini non ritiene opportuno parlare. Sfaterebbe il mito scientista, così ben costruito dalla stampa, a dispetto della realtà. Con la leggerezza di un uccello in volo si limita a scrivere, a pagina 160, che i trigemini, l’8% dei nati da Fiv, corrono vari rischi di "disagi fisici o mentali". Inoltre "si può ipotizzare che alcune tecniche danneggino la buona salute e la crescita regolare del bambino". Riguardo all’Icsi, conclude, "alcuni studiosi parlavano di lievi ritardi mentali nel primo anno di vita. Altri sostenevano che poteva provocare anomalie dei cromosomi sessuali"… ma non paiono problemi degni di approfondimento!

Eppure vi sono decine e decine di studi, non necessariamente contrari alla Fiv, che sottolineano le controindicazioni insite in queste nuove tecniche scientifiche.

Nel suo "Procreazione medicalmente assistita" (Armando editore, Roma, 2004), ad esempio, Manuela Ceccotti riporta uno schemino tratto da alcune indagini italiane ad opera di Eurispes (1990), Flamigni (1998), Sismer (1998), in cui risulta che in seguito a Fiv gli aborti vanno addirittura dal 18 al 30%; le prematurità dal 9 al 18%; i parti gemmellari, che sono sempre classificabili come complicazioni serie, dal 20 al 35 %; i parti trigemini, che sappiamo associati a rischio morte per la madre e a deficit fisici e/o mentali per i bimbi, dallo 0.5 al 6 %; la mortalità perinatale dal 13 al 17%; il basso peso alla nascita, con evidenti conseguenze sulla salute, dal 5 al 10%

Si tratta per chiunque abbia un minimo di onestà di un bilancio angosciante, testimoniato da personalità e centri favorevoli alla Fiv, del resto perfettamente in accordo con quanto scriveva il già citato dottor Cittadini, pioniere della Fiv in Italia, nel suo "Il tempo del sogno", Sellerio. A pagina 31 ad esempio affermava: "Nel 1982 abbiamo trattato con Fivet 18 donne, avendone due gravidanze, entrambe esitate in aborto. Nel 1983 su 51 tentativi abbiamo avuto quattro gravidanze, delle quali due sono oggi presso il termine e due sono esitate in aborti…".

Ma torniamo al libro della Ceccotti. A pagina 111 si dice: "La mortalità materna è tre volte superiore nelle gravidanze multiple rispetto alle gravidanze singole, prevalentemente come conseguenza del maggior rischio di preeclampsia e di emorragia al parto (Nicolini e Hall). Per quanto riguarda i feti/neonati, molti sono i problemi derivati dalla prematurità. L’epoca gestazionale media per il parto è pari in media a 37 settimane per gravidanze bigemellari e 33.5 per trigemellari. La percentuale di nati di peso inferiore ai 1500g è del 10% per gemelli, 25% per trigemelli e maggiore del 50% per nati da gravidanze con quattro o più gemelli. Come conseguenza la mortalità perinatale è 4-5 volte superiore nelle gravidanze bigemellari e 9 volte superiore nelle gravidanze trigemellari… La probabilità di morte trascorso il periodo neonatale è 3 volte superiore nei gemelli rispetto ai singoli nati e quella della mortalità infantile 5 volte più elevata. Il rischio di paralisi cerebrale è del 7% nei gemelli e del 28% nei neonati da gravidanza trigemellare. Anche quando i bambini sopravvivono sono comuni i problemi di ritardo del linguaggio e le difficoltà di apprendimento. L’impatto sulla famiglia è inoltre importante: sono comuni infatti i problemi comportamentali nei fratelli maggiori dei gemelli e la depressione è più frequente nelle madri di gemelli che in quelle di nati singoli…". La Ceccotti prosegue ricordando che "il rischio di anomalie cromosomiche è aumentato", e che "esiste comunque un eccesso di rischio pari ad un fattore di circa tre volte per alcune malformazioni: difetti del tubo neurale, occlusioni del tratto gastroenterico, onfalocele ed ipospadia".

In conclusione, dopo aver letto il libro della Valentini, nonostante le strane omissioni, non è ben chiaro perché, per sentirsi buoni e amici della scienza, occorra essere intransigenti avversari di una legge che vieta le mamme-nonne, gli uteri in affitto, le banche del seme, l’impianto di troppi embrioni, e che istituisce per la prima volta in Italia un registro nazionale dei centri di Fiv e l’obbligo del consenso informato alle coppie. Consenso che spieghi le spese cui si va incontro, i rischi della iperstimolazione ovarica e quelli per la salute degli eventuali nascituri. Del resto è la stessa giornalista a dire, ad un certo punto, che il danno più grave non è quello fatto alle coppie sterili ma quello agli operatori del settore: "La categoria che forse più esce con le ossa rotte dalle nuove norme sono i medici della fecondazione assistita" (p.135). E questo può dispiacere a lei, che a fine libro ringrazia soprattutto loro, uno per uno, da Flamigni a Gianaroli a La Sala, ma non certo a chi crede che anche la scienza, come tutto, sia vincolata alla verità, alla giustizia e al bene delle persone.

Aveva quindi ragione il già citato Frossard, allorché proponeva Ponzio Pilato come patrono di quegli scienziati che si ritengono al di là del bene e del male, che non si pongono il problema riguardo alla bontà o meno di ciò che fanno: “Non ho sentito dire – concludeva – che gli alchimisti di Los Alamos abbiano perso il sonno dopo Hiroshima e Nagasaki. E’ stato un aviatore ad entrare nei trappisti dopo aver sganciato la bomba; quelli che gliela avevano fornita non l’hanno neppure accompagnato fino alla porta del convento”.

Bisognerebbe sempre ricordarsi che sono esistiti gli psichiatri alla Lewis Yealland, che nella I guerra mondiale sperimentavano le scosse elettriche e le molle arroventate sui soldati in preda a crisi nervose; che è esistito il dottor Mengele, con la sua accolita di dottori nazionalsocialisti; che il neurochirurgo Egas Moniz vinse il premio Nobel nel 1949 per aver inventato la lobotomia, cioè perché tagliava i lombi frontali del cervello dei malati psichici trasformandoli in zombie. Bisognerebbe ricordare che in questi nostri anni il dottor Kevorkian si fa paladino dell’eutanasia per poi espiantare gli organi dei suoi assistiti; che centinaia di bambini sono stati rapiti ed espiantati, in Brasile, in Madagascar, nei paesi dell’est, da medici che lucravano sui loro organi… "Mors tua vita mea": è una filosofia troppo diffusa, per non andare coi piedi di piombo di fronte a fenomeni nuovi ed inquietanti come la Fiv.

(tratto da: Francesco Agnoli, "Voglio una vita manipolata", Ares)

 

Le strane battaglie di Umberto Veronesi.

Sul numero del Novembre-Dicembre 2004 del bimestrale scientifico “Darwin”, l’ex ministro Umberto Veronesi introduceva con un suo editoriale un corposo dossier sulla fecondazione artificiale, improntato sostanzialmente alla demolizione della legge 40/2004 e all’esaltazione del “progresso civile” che troppe forze oscure tenterebbero di frenare. Il paragone buttato lì dall’illustre scienziato è tra la nostra epoca ed il Seicento, secolo in cui “Newton, Cartesio e Galileo” convivevano insieme agli spietati bruciatori di streghe. L’armamentario, insomma, è quello solito della retorica più grossolana e anti-storica che possa esistere, aggravato dall’aver accostato in un ordine assurdo, cronologicamente e logicamente, i tre personaggi citati.

Per intenderci: Galilei muore nel 1642, anno in cui Newton è appena nato! Ma la cosa non stupisce chi ricordi alcune prodezze del personaggio in questione. Veronesi, infatti, fu il ministro della Salute che introdusse le prime grosse limitazioni sul fumo “nei luoghi chiusi, pubblici e privati”. “La scelta -affermava allora- è stata quella di essere integralisti per difendere i 44 milioni di non fumatori”. “Integralista”, e però, contemporaneamente, con ragionamenti non proprio coerenti, né punto brillanti, manifestava una certa antipatia per altri proibizionismi, non da lui ugualmente condivisi, in materia di droga. Riguardo all’ecstasy, per fare un esempio, sosteneva che “nessuno può dire che sia una cosa di grande benessere, però fortunatamente non è mortale e non dà grande dipendenza”. Come a dire che, in fondo, è sicuramente meglio delle sigarette, che fanno invece ben “50.000 morti all’anno in Italia”. Si sa invece che l’ecstasy è una droga sintetica euforizzante con effetti imprevedibili, che non andrebbero mai sminuiti, tantomeno da un ministro della Sanità. Può infatti non provocare nulla di immediatamente riscontrabile, in molte circostanze, ma essere addirittura mortale, nell’arco di poche ore, in altre. Può generare inoltre irritabilità, stati depressivi e gravi conseguenze di tipo psichiatrico.

Con la stessa leggerezza ideologica con cui si schierava contro il fumo e a difesa dell’antiproibizionismo in materia di droghe leggere, Veronesi si è più volte pronunciato per la clonazione terapeutica, spiegando che è solo il mondo cattolico ad aver deciso “di chiamare embrione la cellula dopo l’incontro tra spermatozoo e ovocita”, mentre “per esserci un embrione deve esserci lo spermatozoo, l’uovo e l’utero” (La Stampa 29/11/2001). Si tratta evidentemente di una affermazione ridicola, purtroppo ripresa recentemente anche dal celebre filosofo cattolico Giovanni Reale: “qualcuno dovrebbe spiegarmi come si può considerare persona sia pure in potenza un embrione che non si trova ancora nel luogo giusto, cioè nel ventre materno” (L’Espresso, 3/2/2005). Se occorre spiegarlo, dunque, lo spieghiamo. L’embrione non è appendice di nessuno, ma un nuovo organismo che si sviluppa senza soluzione di continuità, senza salti, e che “conserverà sempre la sua singolarità genetica, perché non usufruirà di nessun apporto di materiale genetico organizzato che intervenga dall’esterno a modificarlo”. Inoltre sarà “sempre geneticamente autonomo dal controllo genetico della madre e meccanicamente isolato dall’organismo materno grazie ad una membrana mucopolisaccaridica prima e al trofoblasto poi” (Giorgio Carbone, “L’embrione umano: qualcosa o qualcuno?”, ESD). Non importa quindi che cresca nell’utero della madre o in quello della nonna, in un utero con affitto gratuito o a pagamento, in una mamma bianca o nera, come nella nostra epoca è successo e succederà: le sue caratteristiche genetiche, fisiche, sono già scritte, indipendentemente da colei che lo accoglierà. L’embrione non è, infatti, come la statua fatta da un falegname, plasmata a suo piacere, nel tempo voluto e secondo un suo personale disegno, che può essere tranquillamente considerata una proprietà e un “brevetto” del falegname stesso. E’ qualcosa di autonomo, affidato all’ospitalità generosa del grembo materno: la donna lo accoglie, non per plasmarlo o determinarlo, ma per assisterlo, per aiutarne lo sviluppo, perché l’embrione non è suo, ma dipende da lei “sotto l’aspetto metabolico funzionale per l’apporto dell’ossigeno e del materiale”. Dipende da lei similmente a come il pesce dipende dall’acqua e noi dall’ossigeno: nessuno può dunque dire che il pesce fuor d’acqua, cioè fuori dal suo “luogo giusto”, non è un pesce! Tanto più assurdo dunque il discorso di Veronesi e di Reale riguardo alla Fiv o alla clonazione terapeutica. Infatti l’embrione scientemente prodotto viene “coltivato” in vitro, cioè in un ambiente che vuole sostituire l’utero materno: è possibile creare l’embrione, per poterne sfruttare le caratteristiche, e dire al tempo stesso che non esiste, perché manca l’utero?

In altra occasione, presentando a Milano un libro di Giacomo Properzi, “C’erano una volta i laici”, Veronesi esponeva teorie assai simili a quelle di Francis Galton, l’inventore della moderna eugenetica, e a quelle di alcune personalità del nazismo. Occorre infatti realizzare, affermava, “il controllo dell’evoluzione dell’umanità”. Nientemeno. Infatti “l’evoluzione del mondo è una evoluzione moralmente cieca. La selezione naturale è il risultato di due grandi fattori. La casualità delle mutazioni che occorrono in milioni ogni giorno, tra di noi, e che sono puramente cieche e casuali, e l’ambiente che permette o non permette alle nuove mutazioni di sopravvivere o meno. In questa condizione abbastanza disastrosa di pura casualità di tutti gli eventi, per cui, come dice un grande teologo protestante, il mondo è pieno di mostruosità, di orrori, di sbagli dove tutti sono contro tutti, come dice Engelhardt, dove l’evoluzione è priva di una normativa etica intrinseca, forse incominciamo a delineare di intervenire geneticamente, almeno ad ideare, ad immaginare anche l’utilizzo della genetica ai fini di un miglior controllo di queste assurdità evolutive”. Proponeva cioè, con uno stile più involuto che evoluto, che alla casta sacrale degli scienziati, cui lui appartiene, sia affidato il compito di guidare, di controllare l’evoluzione umana, attraverso la manipolazione genetica; il compito di mettere ordine là dove, in natura, si trova solo disordine; di eliminare presunte mostruosità ed errori, e cioè creature umane malriuscite, per creare l’uomo, che non sia più figlio della “pura casualità”. Un delirio di onnipotenza che ha qualcosa di terrificante: il mondo che evolve ciecamente, raddrizzato, regolato, riprogrammato dai conoscitori del Dna, per conto del mondo intero! Ma in base a quali principi? Con quali giustificazioni etiche? Veronesi lo lascia capire qualche riga più sotto, quando cita Engelhardt, definendolo “il più grande bioetico del mondo”. E chi è costui? Trattasi di un famoso medico filosofo statunitense che sostiene che né l’embrione, né il feto, né l’infante, sino ad una certa data sono da considerarsi persone, essendo in realtà il loro “status morale” inferiore a quello dei mammiferi adulti!

Ma passiamo al dossier in questione. Ci aspetteremmo che gli “amici” dell’illustre Ministro ci raccontino gli splendori della scienza, la sua capacità di ridurre le mostruosità e gli errori della natura, di portare alla causalità ordinata, logica e benigna, la casualità assurda della natura. Invece no, a leggere attentamente non è proprio così. Sembra, anzi, che le mostruosità le compiano gli uomini, nei loro laboratori. Andiamo con ordine. Il primo articolo, a firma Arne Sunde, definisce la legge 40 “disastrosa per le coppie infertili e per le cliniche di fecondazione assistita”, anche se, almeno, lascia aperta la porta al congelamento degli ovociti: “quest’ultima è una tecnica che è ancora nella sua infanzia e ha dato vita a un numero di bambini troppo modesto perché possa essere considerata sicura”. Non è sicura, quindi, ma intanto la adottiamo! Altri articoli presentano contraddizioni ed assurdità patenti, che è meglio non analizzare, per giungere subito all’esposizione di Annapia Ferraretti, Maria Cristina Magli, Arianna D’Angelo, tre operatrici nel campo della fecondazione artificiale. Costoro dicono chiaramente che la gravidanza multipla “è oggi riconosciuta come la complicanza più frequente dei trattamenti per l’infertilità”, sia che si tratti di gravidanza gemellare che plurigemellare. “L’unica misura preventiva sarebbe il trasferimento del minor numero possibile di embrioni”, cosa che non avviene in Italia: il nostro infatti “è tra i paesi con la più alta incidenza di gravidanze multiple”, per via della consuetudine di impiantare troppi embrioni. Il registro mondiale del 1998 segnala che ogni 100 bambini nati con Pma, 30 sono gemelli e 9 trigemini, “mentre nella popolazione normale la gravidanza gemellare incide per 1 su 80 e quella trigemina per 1 su 6.400”. Cosa significa tutto ciò? “E’ noto da tempo che le gravidanze multiple comportano un alto rischio di complicanze sia per la madre sia per i neonati. Ma solo più recentemente è risultato chiaro come queste gravidanze possano avere ripercussioni a lungo termine sulla salute dei nati. E’ infatti ben documentato come la gravidanza multipla sia associata a una serie di rischi per la salute della madre, quali ipertensione, fenomeni tromboembolici, infezioni urinarie, anemia, distacco di placenta. In questi casi la gestante necessita più frequentemente di riposo assoluto, di ospedalizzazione, di cure mediche, di tagli cesarei ed è ad alto rischio di parti prematuri con conseguenze sulla salute dei nati…La maggior parte dei rischi per la salute dei neonati, sia per la mortalità che per la morbilità, è legata al fatto che nascono più frequentemente da parti pretermine e con un peso più basso rispetto ai nati da gravidanze singole…La prematurità aumenta inoltre il rischio di complicanze neonatali quali l’emorragia intraventricolare, la sindrome da distress respiratorio, la sepsi, la retinopatia, raggiungendo percentuali con incidenza variabile tra il 10% e il 40% nei nati da gravidanze plurigemellari…Per quanto riguarda le complicanze pediatriche i nati da gravidanze multiple, che sopravvivono al periodo post-natale, hanno un maggior rischio di complicanze nello sviluppo fisico e psichico. Rispetto alle gravidanze singole il rischio di handicap è quasi il doppio nei nati da gravidanza gemellare e triplo nei nati da gravidanze plurigemellari. Le complicanze più frequenti compaiono a carico del sistema neurologico e possono variare da lievi anomalie, come ritardo nello sviluppo del linguaggio, a deficit mentali veri e propri. Oltre a quanto descritto la gravidanza multipla sembra avere un impatto anche a livello psicologico nel contesto familiare. Uno studio eseguito nel 1998 ha messo in evidenza un maggior livello di stress nei genitori e più frequenti problemi comportamentali nei figli”.

Lo status della questione è poi chiarito da uno schemino, che riporta la situazione italiana: nel 1997, con un numero medio di 3,5 embrioni trasferiti, vi è stato un 20% di parti gemellari, un 5% di parti trigemini, ed un 1% di quadrigemini; nell’anno 2000 su 2.841 parti vi sono state 533 gravidanze interrotte, 571 parti gemellari, 97 parti trigemini e 8 parti quadrigemini… Se ne desume, ad occhio, che la fecondazione artificiale è una sorta di roulette russa, e che “il mondo pieno di mostruosità, di orrori, di sbagli” di cui parlava il Veronesi non è il nostro, attuale, ma quello che i manipolatori della vita stanno apparecchiandoci, seppure con la loro rassicurante, immensa e grassa prosopopea.

John R. Tolkien: “Il Signore degli anelli”, il positivismo e la bioetica.

Nell’Inghilterra contemporanea, patria, spesso, delle più incredibili sperimentazioni sulla vita e sull’uomo, si distinguono però, per la loro tenace ed efficace battaglia in difesa dei valori più alti, alcuni personaggi, in particolare due grandi scrittori cattolici, Gilbert Chesterton, l’inventore della figura di padre Brown, e J.R.R.Tolkien, il celebre autore de “Il Signore degli anelli”.

John R. Tolkien nasce nel 1892 in sud Africa, ma ben presto si trasferisce in Inghilterra. Rimane precocemente orfano del padre e nel 1900 sua madre, Mabel, si converte dall’anglicanesimo al cattolicesimo. Non è una scelta facile in Inghilterra, perché comporta l’emarginazione e la riprovazione sociale. Dall’epoca di Enrico VIII infatti, quando venivano squartati e i loro corpi disseminati agli angoli delle strade perché fungessero da monito, i cattolici sono considerati come stranieri, anche se sul finire dell”800 la loro condizione è in parte mutata.

Presto Tolkien rimane orfano anche della madre e, pur essendo molto povero, con l’aiuto di un prete riesce ad entrare all’università di Oxford, dove studiano i rampolli dell’aristocrazia inglese. Nel 1915 viene chiamato in guerra, la I guerra mondiale, e non potendo sopportare la separazione dalla fidanzata Edith Bratt, si unisce a lei in matrimonio (nasceranno negli anni, quattro figli, uno dei quali diverrà sacerdote). Nella I guerra mondiale l’uomo scopre per la prima volta la sua piccolezza di fronte alle macchine di morte e alla tecnologia che lui stesso ha creato. Crolla così l’illusione illuminista-positivista, l’idea di un uomo capace con le sue forze, grazie alla scienza, di dominare il mondo e la realtà, totalmente, divenendo Dio a se stesso. Affonda, con lo stesso fragore e dolore del Titanic, l’idea di poter procurare la felicità e l’immortalità, qui, su questa terra. Lo scrittore Domenico Giuliotti scrive: “Era il 1913…i cervelli, finchè non si smontavano nella pazzia, funzionavano automaticamente come gli stantuffi delle macchine che avevano inventate e delle quali stavano divenendo, senza saperlo, accessori. Il mondo avvolto giorno e notte nel fumo, nel fragore e nella polvere, puzzava di morchia, di benzina, di bruciaticcio e di bestemmia. E in mezzo a questo ciclo di lordure, l’oro rotolava sulla libidine e la libidine sull’oro, in avvinghiamenti spasmodici. Sembrava che, dopo aver rifiutato il cristianesimo, alla società inebetita fosse caduta la testa e si fosse posta in adorazione, così decapitata, dinnanzi alla materia, mentre questa, divenuta, per un prodigio infernale, micidialmente intelligente, si preparava ad annientarla”.

Nel 1916 Tolkien combatte sulla Somme, in una battaglia epocale, fra le più disastrose della storia. La vita in trincea è segnata dall’ansia dell’attesa e del logoramento, dall’esposizione continua al fuoco di sbarramento, dalle nubi di gas stagnanti nell’aria, dal fango e dalla terra bruciata dalle granate e desertificata. Si diffondono, per la prima volta nella storia, una grande quantità di nuove nevrosi, figlie della guerra industrializzata: la “nevrosi del sepolto vivo”, la “simpatia isterica per il nemico”, isterie che si verificano dopo un trauma da esplosione, con i sintomi di paralisi, spasmi, mutismo, cecità e analoghi.

I medici osservano come un grosso calibro caduto vicino, o un fuoco di sbarramento prolungato danneggino il sistema nervoso del soldato ed il suo autocontrollo, generando scatti improvvisi, pianti isterici, sordità, rifiuto di avanzare, desiderio di suicidio…

Sono scenari, quelli della Somme, che torneranno ne “Il Signore degli anelli”, per la descrizione della terra di Mordor, la terra dell’Oscuro Signore; così come torneranno il nemico lontano e senza volto, il coraggio, il sacrificio e il cameratismo dei soldati semplici, i tommies, i Frodo di tutti i giorni, di contro alla viltà e all’inettitudine degli ufficiali. A tale riguardo lo scrittore francese Bernanos, anche lui combattente, afferma: “Dio non ci ha lasciato che il sentimento profondo della sua assenza”; e ancora: “La maggior parte dei soldati ignorava perfino il nome di grazia…Voglio dire soltanto che forse erano stati talvolta degni di questa grazia, di questo sorriso di Dio. Infatti vivevano senza saperlo, in fondo a quelle tane fangose, una vita fraterna”, una vita fraterna, e, tante volte, eroica, alla faccia di chi la guerra la aveva voluta, per lo più meschinamente e segretamente, come nel caso dell’Italia.

Rientrato dalla guerra Tolkien crea un sodalizio di amici con Lewis, Belloc e Chesterton. I quattro si trovano ogni martedì sera in un pub per parlare di letteratura, di fede, di vicende personali. Riguardo all’amicizia Tolkien scrive: “La vita, la vita terrena, non ha dono più grande da offrirci”; e altrove, all’incirca: “quando due divengono amici si allontanano insieme dal gregge”.

Diviene poi professore all’università di Oxford, dove insegna letteratura inglese, studia i miti nordici, si reca ogni giorno a messa e fa i conti con il problema del male.

Dopo la I guerra già un’altra si prepara: la dittatura comunista asservisce duramente 180 milioni di persone, quella nazista 60 milioni di tedeschi. Ma anche la sua Inghilterra, che si ritiene al di sopra di ogni critica, esercita una forte oppressione sull’Irlanda cattolica e sulle sue colonie. E’ nella sua patria che inizia a provare “dispiacere e disgusto” di fronte all’imperialismo inglese, e a divenire, insieme a Chesterton, un amante delle “piccole patrie”, delle specificità e delle tradizioni locali, contro ogni tentativo di unificare, forzatamente o subdolamente. Il mondo non bello che lo circonda nasce dall’orgoglio, dal desiderio di potere, sugli uomini e sulla vita, che, a livello poetico, viene raffigurato nell’anello. Sauron, colui che lo ha forgiato, il Nemico, il menzognero, tende ad unificare il mondo sotto di sé, ad appiattire, a livellare le diversità, gli uomini, i nani, e gli elfi, la Contea, Gran burrone, Gondor e Rohan…Un po’ come fanno, con metodi diversi o analoghi, la Germania, la Russia, l’Inghilterra e l’America: Tolkien non risparmia nessuno. Nel suo poema Sauron vuole imporre a tutti anche la stessa lingua, il Linguaggio Nero, soppiantando così tutti gli idiomi preesistenti: Tolkien, che ama profondamente la parola e i linguaggi, come espressione della diversità multiforme delle culture, ha paura che questo possa veramente avvenire. Nel 1945, lui che apprezzava profondamente il latino liturgico, lingua solenne, maestosa, sacra, e nello stesso tempo universale, cattolica, ha paura che una lingua non della preghiera ma del commercio e del denaro, non che unifica ma che colonizza, l’inglese, il suo inglese, si affermi sulle altre lingue. Nel 1945 prospetta inoltre un mondo post-bellico massificato, omologato, globalizzato, nella lingua, l’inglese, nei gusti, in ogni cosa.

Quando scrive la sua opera più famosa Tolkien ha in mente questo mondo, il nostro, ma lo trasporta in uno mitico, metatemporale, perché sa che il problema del bene e del male è antico come l’uomo. Discende infatti dalla Caduta, termine con cui definisce il peccato originale: c’è in noi, fin da bambini, una tendenza al male che lotta con una tendenza di segno contrario. Si esprime nell’egoismo, nella superbia, nella volontà di dominio, sulle cose, talora nei rapporti con gli altri…

Per Tolkien non esiste, però, una contrapposizione manichea: non ci sono un Dio del bene e un Dio del male. Il suo riferimento filosofico è quello cristiano, da S.Agostino a S.Tommaso: Dio ha creato ogni cosa buona, omnia bona, ma ha lasciato la libertà di scegliere. Gollum, ad esempio, non è originariamente cattivo, anzi è una specie di hobbit: è l’anello a pervertirlo, rendendolo omicida e menzognero. Così Melkor e il suo servo Sauron sono semplicemente, come il Lucifero cristiano, degli angeli (Ainur) decaduti, che hanno deciso di opporsi al loro creatore, di cantare non più la sua musica armoniosa, creatrice, ma una musica propria, stridente e stonata, distruttrice. Melkor, divenuto il Nemico, assume gli attributi tipici di Satana, del diavolo: desideroso di potere, di gloria, menzognero, è, etimologicamente, “colui che è separato e che separa”, che non ama, che cerca di guastare l’opera bella, armoniosa del creatore. Abita in una terra desolata, impervia, in cui pullulano macchinari e rifiuti industriali. Non ha amici o collaboratori, ma solo servi, come Sauron, o sciocchi servitori che sperano di essere un giorno padroni, come Saruman. Del male si può infatti divenire solo servi, perché abbracciando la menzogna e il vizio si perde la propria libertà. Ciò che cerca e ciò che vuole, Sauron, è l’anello: chi lo porta assume poteri immensi ma si lascia a poco a poco soggiogare. Non è il portatore, alla lunga, che decide, ma l’anello che decide per lui. Anche dell’anello si può essere solo servi, e non è lecito usarlo, usare un mezzo cattivo per fini buoni, come vorrebbe Sauron. In una sua lettera ad un figlio, dopo lo sganciamento della bomba atomica, che aveva permesso agli americani, e quindi anche agli inglesi, di essere totalmente vincitori, Tolkien afferma: “abbiamo usato l’anello!”.

Ma se in questo tempo così “feroce” Sauron si è risvegliato, se la sua ombra si allunga da est verso le terre ancora libere e il mistero d’iniquità sembra totalmente dominante, non manca la speranza: l’ “arbitro” della storia non è Melkor, ma Dio, che appare nel libro come una sorta di Provvidenza nascosta, che affida ai suoi il compito immenso di contrastare il male, di caricarsi del “fardello”. “quando le cose sono in pericolo, qualcuno vi deve rinunciare, perderle, affinchè altri possano goderle”. A caricarsi del fardello, come un novello Cristo portatore della croce, è il piccolo Frodo, un mezzouomo, apparentemente il meno adatto di tutti. Eppure è in lui che si realizza il detto secondo cui Dio ha scelto ciò che è debole in questo mondo per confondere i forti. Frodo è una creatura mite, semplice, attaccata alla sua terra, ma capace di sacrificio: questa è la sua grande virtù! Non è chiamato, come nelle cerche dei miti e delle storie passate, dall’Iliade alla Gerusalemme liberata, a conquistare qualcosa, ma a rinunciare, a sacrificarsi: “E’ l’eroismo dell’obbedienza e dell’amore- scrive Tolkien-, non quello dell’orgoglio e dell’ostinazione, a essere il più alto e commovente”. Eppure Frodo non è l’eroe senza macchia, il superuomo di Nietzsche o del positivismo, ma è il mezzouomo, l’uomo di tutti i giorni, il soldato semplice inglese della I guerra, il Tolkien qualsiasi chiamato a vivere in un’epoca spaventosa, ma ciononostante, a vivere con dignità e grandezza interiore. Ha le stesse paure di tutti: “Avrei tanto desiderato che tutto ciò non accadesse ai miei giorni!”, esclama di fronte a Gandalf, che gli risponde: “Anch’io, come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato”. E altrove: “Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo”. Di fronte al compito immenso che gli è proposto Frodo acconsente e parte; porta l’anello fino a Gran Burrone, ma qui una alleanza di elfi, gnomi, uomini e hobbit, la Compagnia, è chiamata a decidere: cosa fare e a chi affidare l’anello per il viaggio finale. Nessuno sembra adatto, e allora Frodo afferma: “Prenderò io l’anello, ma non conosco la strada”. C’è, in questa affermazione, tutto il concetto che Tolkien ha di eroismo: la generosità, il non arretrare di fronte alle responsabilità (“Prenderò io l’anello”), e nello stesso tempo l’umiltà, la necessità di un aiuto di una compagnia (“ma non conosco la strada”). Se guardiamo alla vita di Tolkien, tramite le sue lettere, la Compagnia diventano la Chiesa, gli amici, e la figura di Gandalf assume i contorni dell’angelo custode.

Eppure, lungo il cammino, Frodo dovrà fare i conti con sé stesso: il male, e questo è uno dei concetti più anti-moderni espressi da Tolkien, non è solo fuori, negli altri, nei sistemi politici ecc., ma in ognuno di noi, e va combattuto con coraggio e strenua lotta interiore. Anche Frodo è preso, talora, dal desiderio dell’anello, gli viene da pensare che in fondo se lo è meritato, oppure viene tentato di non vivere fino in fondo il compito che gli è affidato: devo stare, afferma, “in guardia contro i ritardi, contro la via che pare più agevole, contro lo scrollarmi di dosso il peso che grava sulle mie spalle”.

Lotta con i nemici e lotta con se stesso. La sua forza sta nella disposizione d’animo che risulta, non senza difficoltà, vincente: il sostanziale desiderio di distruggere l’anello. La sua saggezza, ancora una volta come quella di Cristo, è una saggezza che il nemico considera “follia”. Tolkien ha certo in mente questo concetto, la “croce scandalo e follia” per le genti, quando fa dire a Gandalf: “Ebbene, che la follia sia il nostro manto, un velo dinnanzi agli occhi del nemico! Egli è molto sapiente, e soppesa ogni cosa con estrema accuratezza sulla bilancia della sua malvagità. Ma l’unica misura che conosce è il desiderio, desiderio di potere, egli giudica tutti i cuori alla sua stregua. La sua mente non accetterebbe mai il pensiero che qualcuno possa rifiutare il tanto bramato potere, o che, possedendo l’anello, voglia distruggerlo: questa deve essere la nostra mira, se vogliamo confondere i suoi calcoli”. Ancora una volta il concetto che l’eroismo, in questo caso la saggezza, consiste nella rinuncia, e non nel possesso. E’, in fondo, un concetto che vale per ogni cosa: basti pensare che ogni vero amore umano, di marito, di moglie, di madre e di padre, di amico, passa dalla rinuncia, cioè dal riconoscere la presenza dell’altro, senza trasformare la persona amata in oggetto di possesso, senza volerlo stringere tra le mani, fino a soffocarlo.

La saggezza fasulla di Sauron, contrapposta alla follia di Frodo, richiama un’altra contrapposizione essenziale: quella tra Gandalf e Saruman. Entrambi rappresentano gli uomini di scienza, che sanno molto, che conoscono molto. Eppure non è dato a loro, non è dato a Gandalf, il compito più alto, quello di portare l’anello: l’intelligenza ed il sapere devono essere al servizio, e non strumento di potere. Inoltre ciò che distingue la nobiltà dei cuori non è la maggior o minor conoscenza, ma la disposizione della volontà, della libertà, al bene. La volontà, la libertà, è l’unica cosa totalmente nostra, mentre l’intelligenza ci è data. Il sapere, dicevo, è cosa buona, originariamente, come tutte, perché nasce dal desiderio naturale dell’uomo di aderire alla realtà, di leggervi dentro (intus legere). Ma come ogni cosa, anche il conoscere, la scienza, può essere usata negativamente, quando diviene orgoglio intellettuale, volontà di dominio, superbia. Saruman si illude di poter collaborare con Sauron e rimanere libero, si illude che egli voglia dividere il potere, si illude che “i saggi come noi potrebbero infine riuscire a dirigerne il corso, a controllarlo” in attesa, pur lungo un cammino di male, di plaudire “all’alta meta prefissa: Sapienza, Governo, Ordine”. Saruman, come Sauron, come il diavolo Melkor, hanno un loro superbo disegno di mondo, che definiscono sapiente e ordinato, e nelle loro “fucine” plasmano mostri e manipolano creature. Non sono capaci di creare, perché questa è una prerogativa solo di Dio. Secondo la filosofia tomista infatti l’amore è diffusivo di se stesso, o, con una espressione più celebre, solo l’amore crea. I nemici del Creatore, allora, sono solo pallidi imitatori, scimmie di Dio, come Melkor, che cerca di suonare una melodia più bella di quella di Dio, e finisce solo per creare una disarmonia di suoni. Così Saruman, Sauron, Melkor, coloro che fanno cose per se stessi, per esserne i loro Signori, non creano ma manipolano, modificano, alterano, corrompono, determinando creature mostruose, ibridi, chimere come gli Orchetti. Il loro peccato è “il più grande che abbia(no) potuto commettere, l’abuso del (loro) più alto privilegio” .

E’ evidente che nel dire questo Tolkien ha presente la realtà storica del suo tempo, come noi potremmo avere la nostra: conosce le teorie di Aldous Huxley; sa che nella Germania nazional-socialista e nella Russia comunista, gli esperimenti sugli uomini si sprecano. Nelle loro “fucine” diaboliche, nelle loro moderne cliniche, medici manipolatori si accaniscono sulla vita per esserne padroni, in un’ottica di “progresso” futuro e di benessere. Si parla di esperimenti “positivi”, che porteranno al miglioramento della razza umana (eugenetica), al miglioramento della vita degli uomini futuri… Come con la bomba atomica si vuole usare l’anello a fin di bene, ma non è possibile! Così i nazisti fanno nascere circa 80.000 bambini nati tramite accoppiamenti stabiliti dall’alto; Himmler fonda una associazione, chiamata Lebensborn, che sceglie donne non sposate da accoppiare a riproduttori ariani; si introducono sterilizzazioni forzate ed eutanasia; si sperimenta sulle donne incinte, per conoscere la vita del feto, la sua resistenza; si scarterebbero gli embrioni con la diagnosi pre-impianto, se fosse una tecnica già conosciuta, per selezionare i “migliori”, o per decidere il sesso, o l’altezza, come avviene oggi.

Dottrine eugenetiche attraversano anche tutta la storia del socialismo: dalla “Repubblica” di Platone, in cui accanto alla comunanza di beni e di donne, si parla della necessità che lo Stato imponga chi debba accoppiarsi con chi; a “La Città del Sole” di Campanella, in cui il ministro dell’Amore è chiamato a scegliere i tempi e i soggetti dell’accoppiamento sessuale, al fine di garantire una certa purezza razziale; fino alle più recenti affermazioni dello staliniano Preobrazenskij: “Dal punto di vista socialista non ha senso che un membro della società consideri il proprio corpo come una sua proprietà privata inoppugnabile, perché l’individuo non è che un punto di passaggio tra il passato e il futuro”, tanto che alla società spetta “il diritto totale e incondizionato di intervenire con le sue regole fin nella vita sessuale, per migliorare la razza con la selezione naturale”. Del resto un’eugenetica de facto verrà attuata nei regimi comunisti asiatici, in Cina, Cambogia e Corea del Nord, tramite l’eliminazione di handicappati, invalidi, malati mentali e barboni, di coloro cioè ritenuti incapaci dell’unica attività cui il materialismo riconosce importanza: il lavoro (in Corea gli handicappati vengono ancor oggi deportati in località remote, in montagna o nelle isole del mar Giallo, mentre i nani vengono sistematicamente braccati e isolati: “La razza dei nani deve sparire” ha ordinato Kim Jong II in persona).

Tolkien aveva già visto tutto questo, insieme a tante bruttezze del mondo moderno, e aveva indicato gli antidoti: il coraggio e la purezza di Frodo, l’amicizia dei membri della Compagnia, l’utilizzo della sapienza nei limiti della giustizia, la consapevolezza che, al di là dei “muri di questo mondo”, esiste un Dio che dirige la storia, nonostante la presunzione di Saruman e le sue melodie disarmoniche. (tratto da: Francesco Agnoli, “Voglio una vita manipolata”, Ares).