Napolitano e la guerra in Libia

Se il Presidente della Repubblica esprime giudizi politici deve inevitabilmente accettare il dissenso pur se espresso con tutto il rispetto dovuto al suo ruolo. E giudizi politici sono sicuramente quelli da lui formulati sulla impossibilità/inopportunità di un ritiro unilaterale del nostro Paese dalla guerra di Libia o anche solo dai bombardamenti Nato, come richiesto dal ministro Maroni a Pontida e prima, e, ancor più, sulla natura positiva, umanitaria e democratica di quella guerra, voluta da un Sarkozy alla ricerca di un recupero del proprio futuro politico attraverso un gesto napoleonico.

Del resto è molto probabile che su entrambi i temi il presidente della Repubblica non sia in sintonia con la maggioranza del popolo italiano, che ancora si interroga (senza risposte) sulle ragioni di questa guerra e assiste con spavento all’arrivo di masse umane di emigranti, costretti ad abbandonare la Libia, dove avevano trovato casa e lavoro (per la quasi totalità si tratta non di libici, ma di abitanti dell’Africa nera) non dal feroce tiranno Gheddafi, ma dai bombardamenti umanitari voluti non dall’Onu, che non li ha mai autorizzati (tanto meno sulle città), ma dalla triade Obama (già pentito e, a sua volta, in ritirata), Sarkozy, Cameron.

In ogni caso, al di là delle parole del Presidente, si pone una questione di fondo, riguardanti le misteriose ragioni per le quali sull’Italia devono sempre gravare doveri di impegno, partecipazione e coerenza diversi e ben più pesanti di quelli dei suoi partners in Europa e nella Nato.

Perché mai solo l’Italia deve stare sempre sul banco dello scolaretto, tenuto a dimostrare qualcosa a se stesso, ai troppi maestri e a tutti gli altri, compagni di classe inclusi? Dei ventotto Paesi che fanno parte della Nato solo otto partecipano alla guerra e dal primo di agosto saranno soltanto sette, perché, esattamente come hanno fatto molti altri Stati inizialmente impegnati in Iraq, la Norvegia si ritira da una spedizione che alla sua iniziale inutilità ha aggiunto una troppo lunga durata.

Perché all’Italia non è consentito, una volta avvedutasi dell’errore commesso, fare quello che è invece consentito alla Norvegia? Sul Corriere della sera Franco Venturini la butta in termini di credibilità (ma anche per questa voce non spiega perché i nostri partners restino credibili anche senza partecipare alla guerra e invece a noi tocca essere presenti su tutti i fronti). Quanto poi alla Norvegia spiega che col ritiro l’Italia diventerebbe, “con tutto il rispetto”, una Norvegia e “Napolitano non lo vuole”.

Ovviamente il Presidente della Repubblica si è ben guardato dal fare confronti ai danni della Norvegia, e personalmente sono convinto che, questione libica a parte, sarebbe ben contento, come gran parte di noi, se l’Italia fosse come la Norvegia, un paese che, del resto, per decenni ci è stato indicato (in quel caso esagerando in senso opposto al Venturini), assieme ai suoi fratelli scandinavi, come un ammirevole modello di civiltà e di democrazia.

Ma il problema resta quello della posizione dell’Italia ancor prima che nel consesso delle nazioni, nel giudizio dei popoli. Nemmeno ci si accorge che se si riconosce che la Norvegia (e altri) possono fare quello che a noi non è consentito, si ammette che quei paesi sono migliori di noi, costretti invece a riguadagnarci una stima sempre a rischio un giorno sì e l’altro pure, sicché restano credibili e coerenti anche se fanno cose a noi non consentite. (La Voce)

Nella foto: Napolitano con Ceaucescu, ai tempi in cui la libertà dei popoli stava nel comunismo

Tettamanzi e Allam

Non sempre condivido le opinioni di Magdi Cristiano Allam (tutt’altro), tuttavia condivido molto (quasi tutto) dell’articolo (pubblicato sul Giornale del 6 giugno) nel quale critica l’appoggio dato dall’arcivescovo di Milano, cardinale Tettamanzi al programma e all’elezione del neo sindaco Pisapia, le idee di entrambi, nonché il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che vorrebbe imporre il silenzio a chi critica gli uomini di Chiesa, che invece, se hanno diritto (Allam si guarda bene dal metterlo in dubbio) di dire la loro anche sulle vicende politiche, debbono accettare di buon grado le critiche dei dissenzienti.

Chi vi ha interesse cerchi l’articolo nel quotidiano che l’ha pubblicato, qui si riportano le righe finali, che riassumono la contrarietà dell’autore, che ne individua anche le radici storico-culturali, alle politiche e alle idee immigrazioniste del sindaco e del prelato, che ambiscono a fare di Milano un centro di massima accoglienza. “Rivendichiamo – scrive Magdi Allam – il diritto-dovere di sostenere a viva voce che è arrivato il momento di rifondare l’Italia affrancandola dalla strategia massonica che ha ispirato l’unità d’Italia attraverso la guerra e la sottomissione dei popoli, riuscendo a scardinare la nostra anima al punto da farci immaginare oggi che sia addirittura positivo concepirci come una landa deserta per trasformarci in terra di occupazione dell’immigrazionismo, dell’europeismo dei banchieri e del mondialismo capital comunista. È arrivato il momento di far primeggiare l’Italia degli italiani occupandoci di noi italiani prima di preoccuparci degli immigrati; di privilegiare l’Europa dell’anima anziché dell’euro; di scegliere il mondo dell’essere, non dell’avere e dell’apparire!”.

Lasciando un attimo da parte il neo-sindaco, a me interessa il cardinale (anche se fortunatamente sul piede di partenza per raggiunti limiti di età), e non tanto (ma anche) per l’immigrazione, ma perché trovo incredibile che un cattolico con gravissime responsabilità pastorali abbia favorito l’elezione, e continui ad appoggiarne il programma, di un uomo “espressione della sinistra radicale favorevole all’aborto, all’eugenetica, all’eutanasia, ai matrimoni omosessuali, alla droga di Stato, ai centri sociali, alla mega-moschea, ai privilegi ai rom e agli immigrati rispetto alle istanze dei cittadini milanesi”. Se nulla può giustificare la deriva del cardinale a favore del relativismo etico (e qui Tettamanzi, per quanta antipatia potesse nutrire nei confronti della Moratti, non ha scuse), anche l’immigrazione ha il suo peso, pur se va considerata la particolare posizione della Chiesa, che, immigrati o non immigrati, ha nei confronti di tutti gli uomini un dovere di carità.

Tuttavia una carità bene intesa deve curarsi anzitutto del prossimo più prossimo, cioè, a Milano e in Italia, di quei milanesi e di quegli italiani per i quali l’immigrazione non è un argomento da talk-show televisivo, ma una disgrazia da vivere sulla propria pelle. Per il momento (ma forse solo per il momento) il problema non riguarda gli appartenenti ai ceti più ricchi, che possono difendersi da sé, cambiando quartiere o città. Riguarda però moltissimi altri. la moltitudine dei cosiddetti “meno abbienti”, termine che oggi non include solo i poveri dichiarati, ma anche molti modesti benestanti di ieri e ieri l’altro, larghe e crescenti fette di “tute blu”, “colletti bianchi” e “partite Iva”.

Tutte persone che, senza potere difendersi, si vedono sottrarre beni essenziali sui quali credevano di potere sempre contare per il semplice fatto di vivere nella loro terra. A volte persino la casa e il lavoro, ma più spesso (sempre?) le abitudini esistenziali, l’ambiente del vicinato, la cultura, la piccola patria, il quartiere, luogo deputato a tranquille passeggiate nelle calde serate estive, a piacevoli soste fra volti noti e amici al bar o in gelateria, e trasformato all’improvviso in una landa estranea, battuta da gruppi di stranieri spesso violenti (il 5 giugno un intero quartiere di Milano è stato sconvolto da una battaglia fra bande di immigrati sud-americani) Sentirsi padroni in casa propria può sembrare una frase egoistica, ma è solo l’ espressione di un umanissimo desiderio di sicurezza.

 E’ vero, il mondo cambia e occorre adeguarsi, ma per tutti (per i più deboli in grado maggiore) l’adeguamento non è facile (non lo sarebbe nemmeno per i ricchi se non potessero ritirarsi in protette oasi di pace) e, di conseguenza, deve avvenire gradualmente. Garantirlo è un obbligo preciso di chi esercita l’autorità e questo vale, nei limiti in cui possono influire, per i vescovi e, a tanto maggior ragione, per sindaci e governanti di ogni genere e grado, sicché, dopo Tettamanzi, torna in ballo anche Pisapia. Creda, signor sindaco, l’internazionalismo proletario è roba da signori.

La mozione della Lega sulla Libia

Non gli capita spesso, ma questa volta Pierluigi Bersani ha avuto certamente ragione nel definire la mozione Lega-Pdl-Responsabili una grande pagliacciata.

In realtà la sconfitta è soprattutto della Lega che ha, più che annacquato, tolto di mezzo proprio quello che doveva costituire il pezzo forte della sua iniziativa: la fissazione di una data finale certa per l’intervento italiano in Libia. La Lega, difatti, non chiedeva la fine della guerra libica, una decisione al di fuori dei poteri del Parlamento italiano, ma la data finale della partecipazione dell’Italia all’impresa, cioè un provvedimento di esclusiva pertinenza della nostra sovranità nazionale. Invece la mozione proposta e approvata in parlamento, prevedendo che la data venga stabilita “in accordo con le Organizzazioni internazionali e i Paesi alleati", si è ridotta ad un semplice auspicio per una sperata, sollecita fine delle operazioni militari, che tuttavia proseguiranno finché piacerà alla Nato e agli “alleati”. In altri termini la delibera non modifica di una virgola la situazione preesistente.

Lo ha subito attestato il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, dichiarando che non è possibile “fissare una data in cui la missione potrà essere considerata compiuta”. Per compiere l’opera il giorno successivo, in occasione dell’incontro a Roma del cosiddetto “gruppo di contatto sulla Libia”, il ministro Frattini ha rassicurato gli alleati e, soprattutto, la Clinton, confermandole l’impegno del nostra paese su tutte le missioni internazionali e "certamente anche quella in Libia".

Il che, con buona pace del trionfale richiamo al “celodurismo” leghista, comporta anche la conferma delle spese italiane per tutte queste missioni, inclusa, appunto, la “guerra” di Libia (così definita proprio dalla Lega in occasione della sua iniziale presa di distanza dalla decisione di Berlusconi di dare il via alle bombe). In realtà, ragionando (come pur si deve) a mente fredda, era difficile immaginare che la Lega potesse ostinarsi fino a causare una crisi di governo proprio alla vigilia di elezioni amministrative sì, ma che, coinvolgendo la massima parte del territorio nazionale, rivestono un’indubbia valenza politica. I manovratori del Pdl lo hanno perfettamente compreso e, pur tentando di salvarle la faccia, hanno costretto la Lega alla resa. Tuttavia non è detto che la partita sia chiusa.

Se la disgraziata avventura libica non dovesse concludersi, almeno per quanto riguarda le bombe e gli aspetti militari, in tempi brevissimi (diciamo non oltre la fine del corrente mese di maggio), è possibile (e auspicabile) che la Lega riprenda l’iniziativa e rimetta al centro dell’arena politica la palla della data certa per il ritiro italiano, che è – sia chiaro – perfettamente possibile e legittimo e senza perdere scalini nella credibilità internazionale (anzi guadagnandone), come dimostra l’esempio dei tanti paesi che, in corso d’opera, hanno ritirato i loro soldati dalle missioni irachene e afgane. Una ripresa d’iniziativa che probabilmente sarà facilitata dagli esiti elettorali, che, a dispetto dei continui, clamorosi errori di un’opposizione guerrafondaia, non è azzardato pronosticare tutt’altro che entusiasmanti per il centro-destra.

Vittime…di chi?

Il Mediterraneo, il più antico mare della storia e della civiltà, non è certo nuovo alle stragi. Se si mettessero insieme, accumulandoli sulle spiagge che lo circondano, tutti i cadaveri di quanti nel corso della storia hanno trovato la morte nelle sue acque si otterrebbe una fila di centinaia di piramidi tutte più alte di quella di Cheope.

Tuttavia, pur se si tratta, quantitativamente parlando, di minima cosa, almeno per noi contemporanei, che ne siamo direttamente spettatori riesce particolarmente pietoso il destino dei duecentocinquanta fuggiaschi dalla Libia, che l’altra notte, a causa del forte moto ondoso e del conseguente rovesciamento di un barcone sovraccarico, sono scomparsi, sommerse dai suoi flutti.

Gli infelici ospiti di questo disgraziato barcone non vanno confusi con la marea di uomini e di giovani, che dopo avere rovesciato il regime oppressivo di Ben Ali e, quindi, conquistato la liberà e la democrazia (così almeno ci viene autorevolmente assicurato da tutti i pulpiti politici e mediatici) all’improvviso vogliono lasciare la neo-democratica Tunisia per l’Italia.

Su quel barcone si trovavano autentici profughi, moltissimi originari dell’Africa nera, che da un tempo più o meno lungo risiedevano in Libia, dove avevano trovato un lavoro e l’opportunità di un’esistenza certo non agiata, ma nemmeno miserrima. Su queste opportunità sono piombate, da poco meno di un mesetto, in qua le democratiche bombe “occidentali” della “grandeur française”, del colonialismo britannico e del violento democratismo americano.

Se queste bombe e questa coalizione di potenze riusciranno a cacciare da Tripoli Gheddafi è ancora da vedere (il colonnello sembra intenzionato a resistere e per il monumento vi riesce con una certa efficacia), ma certamente hanno avuto pieno successo nel mandare all’aria il poco che questi infelici erano riusciti con il loro lavoro a costruire per sé e per i figli.

 Poi ci si è messo il mare e duecentocinquanta di quei fuggiaschi, costretti a rinunciare a quello che gli occidentali giudicherebbero poco meno di miseria nera, ma che ai loro occhi era un modesto benessere, sono stati privati anche della vita. Nel corso della discussione parlamentare sulle conseguenze del fenomeno immigratorio il deputato dell’Idv Zazzera ha esposto un cartello con la scritta a caratteri cubitali “Maroni assassino”.

Chiaro l’intento di attribuire al Ministro dell’interno la responsabilità di quei morti. Evidentemente il geniale “onorevole” (ma dove li pesca Di Pietro i suoi parlamentari?) non ha capito nulla o soltanto che non bisogna perdere occasione per prendersela con il governo e i suoi rappresentanti. La realtà è ben diversa e se una colpa del governo c’è è quella di non avere avuto la forza di prendere le distanze (come invece la Germania) dall’attacco alla Libia, ma purtroppo le “zazzere” non si trovano solo nelle fila dell’opposizione, vero on. La Russa?

D’accordo. Ad infliggere il colpo finale sono stati i cavalloni del Mediterraneo e i trafficanti di carne umana, che hanno sovraccaricato all’inverosimile il barcone e l’hanno fatto partire incuranti delle stato del mare. Ma se si risale la catena degli eventi fino alla causa prima, si scopre di essere in presenza di “effetti collaterali”, esattamente come se quegli uomini, quelle donne, quei bambini fossero stati centrati da una pacifica bomba della Trilaterale Sarkozy-Cameron-Obama o della Nato. Insomma di vittime della guerra umanitaria.

Due considerazioni sulla guerra in Libia

Non sono più i tempi di quando ”l’ha detto la radio” è il sigillo della verità. Le troppe menzogne hanno diminuito la credibilità dei mass-media e da qualche anno sappiamo che la TV ha mille modi per falsificare le immagini che dovrebbero documentare i fatti.

Ciò non toglie che esista ancora un gran numero di anime belle, pronte a credere che gli aerei francesi e inglesi e i missili americani stiano bombardando la Libia per ragioni umanitarie. Del resto bisogna capirle.

Questa volta c’è il sigillo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e, per quanto riguarda l’Italia, di tutti i partiti dell’arco costituzionale e di quello incostituzionale. Solo la Lega ha avanzato qualche timido distinguo e si è subito guadagnata le vociferanti rampogne del Pieferdy Casini.

Purtroppo non appartengo al novero delle anime belle e non credo alle ragioni umanitarie, soprattutto quando vengono accampate da governi che non hanno mai mostrato la minima nota di umanità. Probabilmente il guaio è che sono abbastanza avanzato nell’età per ricordarmi delle iniziative belliche di Francia e Inghilterra ai tempi ormai remoti della prima crisi di Suez.

Allora l’arte della menzogna era meno perfezionata e i due governi (che in quel caso non ebbero successo) non nascosero di agire nel proprio interesse. Oggi non sarebbe possibile. La comunità internazionale tollera, come allora e più di allora, guerre e bombardamenti, ma esige che si chiamino operazioni di peacekeeping (l’inglese aiuta sempre, come una volta il latino) a tutela dei diritti umani.

Quei diritti umani che, purtroppo, sono diventati la maschera o (a piacimento) il cavallo di Troia delle peggiori infamie. In realtà non occorre essere troppo avanzati negli anni per ricordare che nel 1990, in occasione della Desert Storm, gli Stati Uniti (fiancheggiati da 35 “volonterosi”), per salvare i diritti umani dei propri soldati, bombardarono per tre mesi le principali città irachene cagionando (secondo i dati forniti dal sempre modesto Pentagono) 160mila morti civili, fra cui 32.195 bambini.

Oppure per rammentare la Operation Allied Force della Nato in Serbia a sostegno dei diritti umani dei trafficanti di droga del Kosovo (siamo nel 1999), gli interventi in Afghanistan del 2001 e tuttora in corso, o quelli del 2003 alla ricerca delle fantomatiche “armi di distruzione di massa” con le quali Saddam Hussein avrebbe potuto causare l’apocalisse. Per converso nessun Consiglio di Sicurezza ha mai imposto "no fly zone" ai caccia americani che bombardano a tappeto cittadine e villaggi afgani, facendo ogni volta decine di vittime civili, esattamente come si dice stia facendo in Libia Gheddafi, che però non dispone di “droni” (aerei senza pilota e di massima imprecisione), oppure alle armate russe in Cecenia o a quelle cinesi in Tibet.

Per questi paesi valgono sempre il principio di "non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano" e il diritto di autodeterminazione dei popoli sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti i Paesi del mondo, inclusi i componenti dell’attuale congrega dei cosiddetti “volonterosi” (anche l’Italia ne è parte e purtroppo con giustificazioni scandalose da parte dei ministri degli esteri e della guerra: “non vogliamo restare indietro agli altri”, “non vogliamo essere volonterosi di serie B”). Concludiamo con una osservazione da giurista (che, appunto perché tale, non conta nulla e non interessa a nessuno).

Qualunque autorizzazione sia stata scambiata a voce all’interno del Palazzo di vetro, una lettura logica del provvedimento che autorizza la “no-fly zone” sulla Libia e il ricorso a tutte le misure necessarie per realizzarla avrebbe imposto di intimare anzitutto a Gheddafi di sospendere non già le operazioni militari, ma i voli dei suoi aerei e di ricorrere alle misure necessarie (esclusa l’invasione di terra), solo una volta caduto nel vuoto l’invito. Tutt’al contrario la Francia, molto esperta in guerre coloniali, non ha atteso un attimo per iniziare i bombardamenti e centrare una buona quantità di carri armati, che, fino a prova contraria, non hanno le ali e non volano. La voce della Romagna

Il volto oscuro di un “padre della Patria”

Da quanto si può capire dai preamboli, sul palcoscenico del 150° dell’Unità a Giuseppe Mazzini sarà riservato un ruolo importante soprattutto per essere stato nel 1849 il primo dei Triumviri della Repubblica Romana, ma un po’ defilato rispetto a quello dei principali protagonisti: il solito Garibaldi, che, pur se un po’ ammaccato, conserva il fascino romantico delle sanguinose cariche alla baionetta e delle fanfare, e Cavour, inizialmente accantonato, ma poi recuperato per le sollecitazioni della stampa “moderata” (le celebrazioni del 150° sono prima di tutto un affare politico) quale autentico autore dell’unificazione politica dell’Italia sotto Casa Savoia.

 Ciò non toglie che Mazzini resti l’Apostolo dell’indipendenza italiana e della democrazia. Ancora un mostro sacro, ma in parziale disarmo a causa anche dei danni causati alla sua immagine dall’attuale contesto politico-culturale, dominato dalla minaccia del terrorismo globale, dall’incubo dei Signori del Terrore, che da occulti rifugi programmano attentati nei vari angoli del mondo.

Un maestro di terrorismo

D’altra parte già in vita, anche nei momenti di maggior fulgore (il 1849 ne fu l’apice) Giuseppe Mazzini fu oggetto, anche all’interno del partito nazionale e dello stesso movimento democratico-repubblicano, oltre che di grandi amori, di furibondi odi e violente contestazioni a causa del suo autoritarismo, del suo smisurato orgoglio (il liberale Gino Capponi cambiò il suo motto “Dio e Popolo” in “Io e il Popolo”), del suo egocentrismo, del rifiuto di ogni consiglio e di ogni confronto. Opposte, quindi, le valutazioni: la più pura icona del Risorgimento e delle aspirazioni repubblicane, appunto l’Apostolo, per gli uni, fanatico dottrinario per gli altri. In seguito la stessa storiografia ufficiale ha spesso preferito lasciarne in ombra la figura, come, con sdegnato rammarico, scrive uno dei suoi tanti biografi, Romano Bracalini.

Di recente lo storico siciliano Mario Moncada di Monforte è andato oltre, proponendo la tesi di Mazzini bin Laden del XIX secolo, subito liquidata come provocatoria e che tuttavia ha lasciato echi e strascichi a conferma dei dubbi da sempre suscitati da un personaggio che, al sicuro nella fumosa Londra, alternava la promulgazione di encicliche repubblicane all’organizzazione di trame sanguinose. Echi ripresi, sul Riformista del 16 settembre 2010, da Luca Mastrantonio, che, dopo avere ricordato che «con Mario Martone e il suo convincente affresco cinematografico sul Risorgimento, “Noi credevamo”, molte zone d’ombra del Risorgimento italiano vengono indagate, fino a mostrare un Mazzini “terrorista”, per molti simile a Bin Laden o Toni Negri», riporta l’opinione di Vittorio Messori, che, pur rifiutando paragoni con bin Laden, lo definisce «un terrorista che viveva agiatamente a Londra, dove decideva della vita e della morte di molte persone. Un capo da Brigate rosse… un cattivo maestro».

Comunque, terrorismo o non terrorismo (nemmeno in sede giudiziaria si è raggiunto l’accordo sugli elementi costitutivi del reato), è indubbio che Mazzini considerava la violenza legittimo strumento di lotta politica e non solo per liberare l’Italia dall’occupazione straniera. Lo provano le congiure del 1870, che, rivolte non più contro l’occupante austriaco, ma il regime monarchico, presentano il medesimo schema, l’unico a lui congeniale: una violenta sollevazione popolare appoggiata da volontari armati provenienti d’oltre confine. Identico anche l’esito: niente popolo, pochi soldati che tentano di impadronirsi, a Pavia e Piacenza, delle caserme, la proclamazione in Calabria di una Repubblica morta al primo vagito, qualche inutile morto.

 “Ammiratore del pugnale”

 Si tratta di un vizio d’origine, di convinzioni derivate dalle militanze giovanili, quando Mazzini, pur presumendo già moltissimo di sé, era ancora, suo malgrado, nella fase dell’apprendistato.

La storiografia non ha mai concesso troppo spazio al periodo carbonaro di Mazzini, accentuando invece l’insoddisfazione che lo spinse a lasciare la setta. Tuttavia la militanza nella Carboneria non fu così effimera. Affiliatosi nel 1827 vi rimase almeno fino al 1831. Quattro anni durante i quali dovette dare prova di dedizione se nel 1830 venne incaricato di recarsi a Livorno per riorganizzarvi la locale Vendita, munito di ampi poteri, che gli consentirono di sostituire con uno di sua fiducia un personaggio importante come lo scrittore Francesco Domenico Guerrazzi. Frutto dell’imprinting carbonaro anche la propensione per l’uso del pugnale, lo strumento preferito dai settari per uccidere i nemici e punire gli spergiuri.

Se a volte ostentò di prenderne le distanze, Mazzini rimase per tutta la sua carriera sotto il fascino del coltello: dall’incarico, nel 1833 a un certo Gallenga (che poi nemmeno tentò il colpo) di assassinare Carlo Alberto con uno stiletto dal manico di lapislazzuli, all’insurrezione milanese del ‘53, che prevedeva lo sgozzamento dell’intera guarnigione austriaca. La pratica dell’omicidio politico e l’uso del coltello, da sempre considerata l’arma dei vili, allontanarono da lui più di un seguace (fra gli altri il difensore di Venezia nel 1848-49 Daniele Manin, che gli addebitò la “teorica del pugnale”) e, soprattutto dopo il fallimento dell’insurrezione milanese del ‘53, ne diminuirono di molto l’autorità morale.

Per quanto replicasse che «a emancipare la patria dalla tirannide dello straniero ogni arme – se lunga o breve non monta – è santa», prevalsero i giudizi del repubblicano Cattaneo, convinto che vi sono modi di uccidere il nemico che «la consuetudine e la coscienza delle nazioni incivilite condanna e che nessun coraggio riabilita», e l’accusa del monarchico Il Risorgimento, di avere mandato «dalla vigliacca securità dell’esilio tanti generosi giovani a certa inutile morte con improvvidi scritti ed eccitamenti».

Massone

L’influenza, enorme, che Mazzini esercitò a lungo in tutta Italia e anche in Europa non va, quindi, attribuita alle sue congiure ed alle imprese, tutte fallite, dei suoi seguaci, ma agli scritti, alle lettere, alle parole d’ordine testardamente ripetute, che ebbero una diffusione per l’epoca incredibile. Tuttavia agli occhi dei posteri questo mare magnum di scritti accresce l’ambiguità del personaggio, perché molte sono le contraddizioni, molti i punti oscuri. A cominciare dal motto “Dio e Popolo”, causa di molti equivoci, che Mazzini si guardò bene dal dissipare. Ancora oggi biografi e studiosi si dividono fra chi ritiene il Dio del motto mazziniano nulla più di “un Dio morale e laico”, cioè un termine per indicare l’essenza morale dell’Umanità, e chi, attenendosi alla lettera dei suoi scritti, lo ritiene convinto dell’«esistenza d’una prima causa intelligente», senza la quale «è cancellata l’esistenza di una legge morale suprema su tutti gli uomini e costituente per tutti un obbligo».

Molti si sono chiesti se questa “Prima Causa”, che certamente non è il Dio cristiano, si identifichi con l’Architetto dell’Universo, cioè se Mazzini fosse massone. La militanza massonica di Mazzini resta controversa a dispetto dei tentativi di accaparrarselo dei Fratelli, sempre pronti a definirlo “nostro Sommo Fratello” e, assieme al Gran Maestro Garibaldi, “Stelle massime della italiana Massoneria”. Dato che massone era il padre, è probabile una iniziazione in età giovanile, e certamente al momento di aderire alla Carboneria il giovane genovese conosceva la setta degli “Illuminati di Baviera” e doveva apprezzarne il programma se assunse lo pseudonimo di Filippo Strozzi già adottato da Xavier Karl Zwack, braccio destro del fondatore Johann-Adam Weishaupt.

Vi sono autori, in particolare inglesi e americani, che ne fanno addirittura il capo della setta sopravvissuta alla soppressione del 1787, ma, in mancanza di riscontri oggettivi, se appare evidente una certa vicinanza spirituale e politica con la massoneria, con la quale condivideva l’avversione per il cattolicesimo e il papato, resta il fatto che il suo carattere altero, l’altissima, stima di sé, l’incrollabile ostinazione nelle proprie idee, la stessa indifferenza per il profitto personale lo rendevano inadatto all’obbedienza massonica. Forse avrebbe potuto accettarne la Suprema Maestranza, certamente non avrebbe accettato di sottostare a quella di Garibaldi. È verosimile che queste ragioni e la conseguente incapacità di accettare la leadership di Carlo Marx, abbiano altresì concorso, assieme all’avversione per l’ideologia della lotta di classe, a fargli lasciare la Prima Internazionale, che pure aveva concorso a fondare in quello stesso 1864. Va però detto che nella polemica con Marx, Mazzini, solo in apparenza soccombente, seppe prevedere con singolare lucidità che l’ideologia comunista avrebbe inevitabilmente portato al dispotismo dello stato totalitario. (RC n. 62 – Febb/Marzo 2011)

A proposito di Berlusconi e di processi

Una cosa è la morale, un’altra (in parte, perché qualche rapporto esiste) la giustizia, un’altra ancora (sempre in parte) la politica. Personalmente debbo confessare di avere, per educazione e vissuto, qualche tendenza al moralismo e (va specificato dal momento che la cultura odierna legittima una grande pluralità di morali – inclusa quella dei farisei, molto diffusa nella classe politica -) in particolare al moralismo cattolico, non troppo indulgente con le violazioni in materia sessuale.

Tuttavia sono anche un giurista e, sapendo che in uno Stato di diritto le norme processuali sono altrettanto importanti (se non addirittura più, come garanzia di giustizia) di quelle sostanziali, non posso nascondermi che senza il rispetto delle regole e delle procedure non c’è giustizia e che senza giustizia anche la morale diventa immorale.

Di conseguenza, per quanto riguarda gli ultimi reati addebitati al presidente del Consiglio, il moralista che è in me deve convenire con i suoi legali che la competenza a giudicare, quindi a fare giustizia, è del Tribunale dei Ministri. Nonostante che la nostra pruriginosa e voyeuristica informazione mass-mediale lasci credere il contrario, fra i reati contestati quello di gran lunga più grave sotto tutti i punti di vista è quello di concussione, punito dall’art. 317 del codice penale con la reclusione da 4 a 12 anni, mentre per quanto riguarda gli atti sessuali con minori degli anni 18 la pena va da sei mesi a tre anni di reclusione (art. 600bis/2? comma codice penale).

Parliamo, quindi, della concussione, un reato “proprio” cioè che può essere commesso esclusivamente da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio. Di conseguenza i vari commentatori televisivi e i presunti esperti, che affannati ad escludere la competenza del Tribunale dei Ministri sostenendo che Berlusconi nel telefonare in questura per ottenere l’affidamento della giovane e avvenente Ruby a persona di sua fiducia avrebbe agito non da presidente del consiglio, ma da privato, non si rendono conto che se fosse vero non ci sarebbe nessun reato di concussione da contestare per il semplice fatto che nessun privato può commetterlo. Dal momento che i magistrati della Procura di Milano conoscono il loro mestiere sono certo che nel capo d’imputazione sia stata usata la formula “con abuso della sua qualità di presidente del Consiglio dei Ministri dei Ministri” o altra analoga.

Ma se così è scatta inevitabilmente la competenza del Tribunale dei Ministri come previsto dalla legge costituzionale n. 1 del 1989 appunto per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dai Ministri. I suddetti presunti esperti, che amano riempirsi la bocca con la Costituzione e col dovere di ogni imputato di presentarsi, se convocato, davanti al “suo” giudice, dimenticano volentieri che nella Costituzione si trova, fra gli altri, un certo art. 25, nel quale si legge che “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”.

Nel caso del presidente del Consiglio il giudice naturale precostituito per legge (anzi addirittura per legge costituzionale) è per l’appunto il Tribunale dei Ministri (che – tra parentesi- non è una congrega di suoi amici e colleghi, ma è istituito presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio ed è composto da magistrati ordinari estratti a sorte). Insomma la “sede competente” da tanti invocata per sollecitare il presidente del Consiglio a presentarvisi per chiarire la sua posizione è esclusivamente il Tribunale dei Ministri.

Infine non va trascurato che la legge costituzionale in questione agli articoli 6 e 8 prevede, prima dello svolgimento di ogni ulteriore attività istruttoria, una fase preliminare davanti al Tribunale dei Ministri, che al momento non risulta essere stata attivata dalla Procura milanese. Altroché giudizio immediato. da: la voce della Romagna

Napolitano e Garibaldi

Come l’on. Napolitano ha giustamente sottolineato durante la sua visita in Romagna, nel ricordare l’importanza dell’unità italiana il Presidente della Repubblica fa soltanto il suo mestiere dal momento che l’art. 87 della Costituzione lo qualifica rappresentante dell’unità nazionale.

Che poi a questo suo dovere adempia con passione è ulteriore titolo di merito. Del resto, come ho già avuto occasione di dire, pur non condividendo le sue precedenti militanze politiche, sono persuaso che l’on. Napolitano sia di gran lunga il migliore presidente che la Repubblica italiana abbia avuto da parecchio tempo in qua.

E’ vero. L’art. 54 della Costituzione impone non solo al Presidente, ma a tutti i cittadini “il dovere di essere fedeli alla Repubblica“, ma si tratta, appunto, di un dovere imposto da una norma che, per quanto di altissimo livello, pochi conoscono e che ha come unico presupposto un fatto accidentale: la nascita da genitori di nazionalità italiana, che, a loro volta, non necessariamente amano la Repubblica e trasmettono questo amore ai figli. Per quanto mi riguarda (come, ovviamente, per moltissimi altri) la situazione è diversa.

Al momento d’iniziare la carriera giudiziaria ho prestato giuramento di fedeltà alla Repubblica, quindi un dovere consapevolmente assunto e sanzionato da un giuramento che credo vincolante anche quando, per raggiunti limiti di età o altro, si lascia l’esercizio della giurisdizione (o altro pubblico impiego).

Tutto questo preambolo per dire che comprendo l’on, Napolitano anche quando, per celebrare il 150? dell’unità, è largo di approvazioni ed elogi ad avvenimenti e personaggi che, a mio avviso, ne sono del tutto immeritevoli, ma anche che, alla stessa stregua, il mio giudizio negativo non comporta in alcun modo il venire meno della giurata fedeltà alla Repubblica italiana così come non lo comporta il preferire un’Italia autonomista e federale a quella giacobino-centralista.

Mi permetto anzi di credere, con buona pace di tanti soloni del patriottismo retorico, che si renderebbe un servizio all’unità della nazione, facendo sentire tutti gli italiani davvero figli di una patria comune, se, smantellando centoncinquantenarie menzogne, si riconoscesse che, pur tenendo conto di tutti i possibili contesti, non c’è nulla di commendevole in personaggi come il generale Enrico Cialdini e il colonnello Pier Eleonoro Negri, mandante ed esecutore delle orride stragi dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni.

Che il generale “piemontese” (in realtà era romano) Ferdinando Pinelli era un boia additato come tale perfino nel Parlamento inglese, pur amicissimo dell’Italia, e che Nino Bixio si rese colpevole di stragi non meno gravi di quelle addebitate al maggiore nazista Walter Reder.

Che Felice Orsini non era un eroe, ma un terrorista. Che a Mentana i garibaldini furono sconfitti non dai francesi o dai loro fucili chassepots, ma dai soldati e volontari pontifici.

Che se Ferdinando II di Borbone era “Re Bomba” per avere fatto bombardare Messina, altrettanto lo era Vittorio Emanuele II, che ordinò un selvaggio bombardamento della città di Genova. Anzi peggio, dal momento che per massacrare i propri sudditi si fece aiutare anche dai cannoni di una nave britannica.

Che i plebisciti, in particolare nel Meridione e nel Veneto, furono una farsa intrisa di violenza. Che Vittorio Emanuele II non era “galantuomo” e Umberto I non era “buono”.

Proprio perché è una nazione unita, l’Italia non ha oggi nessun bisogno di nascondere le ombre e le magagne della propria storia, ché anzi la scelta celarle o negarle ha fatto sì che molti italiani abbiano a lungo rifiutato l’unità, e i loro discendenti, pur avendo forse solo una vaga conoscenza degli eventi storici, continuino a non sentirla come un valore.

La questione riguarda tanto il Nord quanto il Sud. Tuttavia, dal momento che Giuseppe Garibaldi è il protagonista del Risorgimento più volentieri citato da chi ritiene che per onorare l’anniversario dell’unità si debbano suonare le fanfare della retorica, perché non meditare su quanto egli stesso ebbe a scrivere in una lettera ad Adelaide Cairoli, una donna che ammirava (e, quindi, in piena sincerità): “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio“. da La Voce della Romagna

Il caso Battisti e Lula

Dove avevano fallito (almeno per ora) le pre-celebrazioni del 150° dell’Unità, che caso mai hanno aumentato polemiche e divisioni, è invece riuscito il presidente brasiliano Lula, che col suo provvedimento di diniego dell’estradizione in Italia del terrorista-assassino Cesare Battisti è riuscito a riunire in unanime sdegno tutti gli italiani.

In realtà è un boccone piuttosto grosso oltre che amaro e difficile da mandare giù sentirsi dire che, in caso di estradizione, sarebbero state in pericolo la vita e l’incolumità fisica dell’estradato, dal rappresentante di un paese nel quale fino a pochissimi anni fa (la strage più sanguinosa e per questo più celebre, detta della Candelaria dal nome di una chiesa di Rio de Janeiro, risale appena al 1993 erano oggetto di mattanze (chissà se del tutto cessate) da parte di squadroni della morte, composti di non pochi poliziotti i meninos de rua (i bambini delle favelas – le immense bidonvilles alle periferia delle grandi città – abbandonati dalle famiglie) e non è ancora del tutto fuori uso la pratica dello sterminio delle tribù amazzoniche.

 Del resto, se fosse vero quello che l’ineffabile Lula pensa dell’Italia, l’incolumità fisica di Battisti sarebbe assai più a rischio ora, in territorio brasiliano, dopo un rifiuto che rende impossibile fargli scontare la pena legalmente e giustamente comminata ad un quadruplice assassino da un tribunale ordinario (non da una corte marziale) della nostra Repubblica.

La Russia di Putin, il Mossad israeliano e gli stessi Stati Uniti di Bush ed Obama, pur di fare scontare all’assassino le sue colpe, troverebbero altri modi e mezzi, ai quali l’Italia mai farebbe ricorso, proprio perché non è, con tutti i suoi molti e grandi difetti, il paese immaginato da Lula, ma un democratico Stato di diritto, ligio alle regole anche quando altri non hanno remore a violarle (come ha fatto Lula non rispettando, con capziosi ragionamenti, il trattato italo-brasiliano in materia).

Ben giustificato, quindi, lo sdegno che per una volta ha unito gli italiani offesi nel nome e per conto del loro paese, anche se purtroppo anche in questo caso non è mancato qualche malato particolarmente grave di antiberlusconismo viscerale, che non ha voluto rinunciare all’occasione di attaccare il presidente del consiglio. Il vociante capogruppo dei finiani alla Camera, on. Bocchino, si è affrettato a parlare di grave sconfitta del Berlusca e della sua politica estera fatta di pacche sulle spalle, subito seguito dall’on. Veltroni, che ha parlato di una brutta figura del governo, che in questi due anni non è stato capace di convincere il Brasile che Battisti non è un perseguitato politico, ma semplicemente un assassino.

All’on. Bocchino (tanto contrario – lo si vede anche dalla faccia – alla politica delle pacche e del sorriso) si potrebbe chiedere cosa farebbe se toccasse a lui decidere: manderebbe le cannoniere a Rio de Janeiro o gli aviogetti a Brasilia? Quanto a Veltroni perché non ricordargli che tanto Lula quanto Battisti (negli anni ’70 uno dei “compagni che sbagliano”) dopo tutto appartengono, se non altro quanto ad origine, al suo mondo e alla sua cultura e che probabilmente è proprio questo legame a spiegare l’ingiustificata benevolenza del primo verso il secondo.

E dal momento che siamo stati tirati a parlare di responsabilità dei “nostri”, forse anche Berlusconi potrebbe chiedersi se per caso le sue continue accuse contro i giudici italiani, definiti partigiani, inattendibili e in un paio di occasioni addirittura “folli”, non abbia convinto anche oltre confine le animi semplici (come Lula) che le condanne di Battisti potrebbero essere frutto della congenita follia che affligge una parte (che in un paese remoto come il Brasile si potrebbe anche immaginare molto grande) dell’italica magistratura. da La Voce della Romagna

Fini cosa fa?

Gianfranco Fini ha tentato di porre parziale riparo al grave smacco subito il 14 dicembre col fallimento alla Camera della spallata antiberlusconiana, accelerando il varo con Casini, Rutelli e (pare) Lombardo del cosiddetto “terzo polo”, che, forse per sfruttare gli echi risorgimentalisti del 150° dell’Unità, prenderà probabilmente il nome di Partito della Nazione.

Una formazione politica dalle prospettive piuttosto incerte e in ogni caso, anche a prescindere da Lombardo, confinato nel suo traballante feudo siciliano, con un numero di galli eccessivo per un pollaietto, anche se, per effetto di una sconfitta che è tutta sua, avendo solo sfiorato gli altri leader dell’opposizione, Fini, che contava di avere, di fatto, il ruolo di re del pollaio, vi entra invece alquanto spiumato e spennacchiato e consapevole (a meno che l’ambizione, come gli è troppo spesso accaduto, non lo acciechi una volta di più) di dovere lasciare, bene che gli vada, almeno per il momento la leadership a Casini, destinatario difatti di tutti gli appelli e di tutte le suggestioni provenienti tanto dalla maggioranza quanto dall’opposizione.

Il passaggio da erede di Berlusconi nella guida del PdL e, sperabilmente, del governo, a secondo uomo di Casini non è certo un successo per l’ambiziosisimo ex-leader di Alleanza nazionale, che comunque può accusare solo sé stesso e i propri errori. Tralasciando il giudizio sulla strategia, anche la tattica è stata sbagliata a cominciare dalla nomina a capogruppo alla Camera (con conseguente costante visibilità televisiva) di un energumeno vociante e indisponente della forza dell’on. Bocchino (non per nulla l’on. Moffa al momento dell’ultima esitazione sul suo voto in occasione della mozione di sfiducia ne ha chiesto la rimozione dall’incarico).

Per non parlare dei continui ammiccamenti a sinistra di un altro esponente di primo piano dei “futuristi”, l’on. Granata. In realtà Fini è alle prese con un insolubile problema di fondo. La sua lunghissima carriera politica (della quale è pressoché totalmente debitore alle ali protettrici della chioccia Almirante) lo costringe a rivolgersi pressoché esclusivamente ad un elettorato di destra, che nella massima parte lo sente ormai estraneo ai propri ideali o, forse più esattamente, ai propri sentimenti più profondi.

Del resto giustamente, perché, quale che sia la causa del mutamento (qualcuno lo attribuisce addirittura al suo ingresso nella famiglia Tulliani) Fini non è più un uomo di destra e lo ha confessato lui stesso quando, in un intervista in occasione di un convegno della Fondazione Adenauer ha detto:“La Patria non è quella degli avi, non è la terra natia, l’intimo della propria famiglia, non sono i valori della fede e della tradizione. Niente di tutto ciò. La patria è quella che uno si sceglie, il posto dove uno vuole andare a vivere”.

Ora è vero che le differenze fra destra e sinistra si sono molto attenuate, tuttavia, per quanto riguarda la gente comune assai meno di quanto credano politici e intellettuali e comunque permangono caratteristiche di fondo che più che della politica derivano dai cromosomi e dall’educazione che ciascuno riceve dalla natura e dalla propria famiglia.

Ora ha certamente ragione Marcello Veneziani ad individuare l’essenza di ogni persona definibile di destra nel suo “credere molto alle radici, ai valori di un radicamento”. Fini non ci crede più e, soprattutto, ha avuto, per un politico, il torto di farlo vedere. Probabilmente non ha potuto evitarlo per assicurarsi, in Italia e all’estero, altre sponde e altre amicizie, che ha ritenuto indispensabili per realizzare i suoi ambiziosi progetti dopo avere bilanciato il peso dell’amicizia di questi potenti con le simpatie e i consensi dei suoi seguaci in patria, magari contando di riuscire a mantenerli nell’antica illusione di una non più esistente comunanza di sentire. Forse una volta di più ha sbagliato i conti.(Da la voce della Romagna)