Da quanto si può capire dai preamboli, sul palcoscenico del 150° dell’Unità a Giuseppe Mazzini sarà riservato un ruolo importante soprattutto per essere stato nel 1849 il primo dei Triumviri della Repubblica Romana, ma un po’ defilato rispetto a quello dei principali protagonisti: il solito Garibaldi, che, pur se un po’ ammaccato, conserva il fascino romantico delle sanguinose cariche alla baionetta e delle fanfare, e Cavour, inizialmente accantonato, ma poi recuperato per le sollecitazioni della stampa “moderata” (le celebrazioni del 150° sono prima di tutto un affare politico) quale autentico autore dell’unificazione politica dell’Italia sotto Casa Savoia.
Ciò non toglie che Mazzini resti l’Apostolo dell’indipendenza italiana e della democrazia. Ancora un mostro sacro, ma in parziale disarmo a causa anche dei danni causati alla sua immagine dall’attuale contesto politico-culturale, dominato dalla minaccia del terrorismo globale, dall’incubo dei Signori del Terrore, che da occulti rifugi programmano attentati nei vari angoli del mondo.
Un maestro di terrorismo
D’altra parte già in vita, anche nei momenti di maggior fulgore (il 1849 ne fu l’apice) Giuseppe Mazzini fu oggetto, anche all’interno del partito nazionale e dello stesso movimento democratico-repubblicano, oltre che di grandi amori, di furibondi odi e violente contestazioni a causa del suo autoritarismo, del suo smisurato orgoglio (il liberale Gino Capponi cambiò il suo motto “Dio e Popolo” in “Io e il Popolo”), del suo egocentrismo, del rifiuto di ogni consiglio e di ogni confronto. Opposte, quindi, le valutazioni: la più pura icona del Risorgimento e delle aspirazioni repubblicane, appunto l’Apostolo, per gli uni, fanatico dottrinario per gli altri. In seguito la stessa storiografia ufficiale ha spesso preferito lasciarne in ombra la figura, come, con sdegnato rammarico, scrive uno dei suoi tanti biografi, Romano Bracalini.
Di recente lo storico siciliano Mario Moncada di Monforte è andato oltre, proponendo la tesi di Mazzini bin Laden del XIX secolo, subito liquidata come provocatoria e che tuttavia ha lasciato echi e strascichi a conferma dei dubbi da sempre suscitati da un personaggio che, al sicuro nella fumosa Londra, alternava la promulgazione di encicliche repubblicane all’organizzazione di trame sanguinose. Echi ripresi, sul Riformista del 16 settembre 2010, da Luca Mastrantonio, che, dopo avere ricordato che «con Mario Martone e il suo convincente affresco cinematografico sul Risorgimento, “Noi credevamo”, molte zone d’ombra del Risorgimento italiano vengono indagate, fino a mostrare un Mazzini “terrorista”, per molti simile a Bin Laden o Toni Negri», riporta l’opinione di Vittorio Messori, che, pur rifiutando paragoni con bin Laden, lo definisce «un terrorista che viveva agiatamente a Londra, dove decideva della vita e della morte di molte persone. Un capo da Brigate rosse… un cattivo maestro».
Comunque, terrorismo o non terrorismo (nemmeno in sede giudiziaria si è raggiunto l’accordo sugli elementi costitutivi del reato), è indubbio che Mazzini considerava la violenza legittimo strumento di lotta politica e non solo per liberare l’Italia dall’occupazione straniera. Lo provano le congiure del 1870, che, rivolte non più contro l’occupante austriaco, ma il regime monarchico, presentano il medesimo schema, l’unico a lui congeniale: una violenta sollevazione popolare appoggiata da volontari armati provenienti d’oltre confine. Identico anche l’esito: niente popolo, pochi soldati che tentano di impadronirsi, a Pavia e Piacenza, delle caserme, la proclamazione in Calabria di una Repubblica morta al primo vagito, qualche inutile morto.
“Ammiratore del pugnale”
Si tratta di un vizio d’origine, di convinzioni derivate dalle militanze giovanili, quando Mazzini, pur presumendo già moltissimo di sé, era ancora, suo malgrado, nella fase dell’apprendistato.
La storiografia non ha mai concesso troppo spazio al periodo carbonaro di Mazzini, accentuando invece l’insoddisfazione che lo spinse a lasciare la setta. Tuttavia la militanza nella Carboneria non fu così effimera. Affiliatosi nel 1827 vi rimase almeno fino al 1831. Quattro anni durante i quali dovette dare prova di dedizione se nel 1830 venne incaricato di recarsi a Livorno per riorganizzarvi la locale Vendita, munito di ampi poteri, che gli consentirono di sostituire con uno di sua fiducia un personaggio importante come lo scrittore Francesco Domenico Guerrazzi. Frutto dell’imprinting carbonaro anche la propensione per l’uso del pugnale, lo strumento preferito dai settari per uccidere i nemici e punire gli spergiuri.
Se a volte ostentò di prenderne le distanze, Mazzini rimase per tutta la sua carriera sotto il fascino del coltello: dall’incarico, nel 1833 a un certo Gallenga (che poi nemmeno tentò il colpo) di assassinare Carlo Alberto con uno stiletto dal manico di lapislazzuli, all’insurrezione milanese del ‘53, che prevedeva lo sgozzamento dell’intera guarnigione austriaca. La pratica dell’omicidio politico e l’uso del coltello, da sempre considerata l’arma dei vili, allontanarono da lui più di un seguace (fra gli altri il difensore di Venezia nel 1848-49 Daniele Manin, che gli addebitò la “teorica del pugnale”) e, soprattutto dopo il fallimento dell’insurrezione milanese del ‘53, ne diminuirono di molto l’autorità morale.
Per quanto replicasse che «a emancipare la patria dalla tirannide dello straniero ogni arme – se lunga o breve non monta – è santa», prevalsero i giudizi del repubblicano Cattaneo, convinto che vi sono modi di uccidere il nemico che «la consuetudine e la coscienza delle nazioni incivilite condanna e che nessun coraggio riabilita», e l’accusa del monarchico Il Risorgimento, di avere mandato «dalla vigliacca securità dell’esilio tanti generosi giovani a certa inutile morte con improvvidi scritti ed eccitamenti».
Massone
L’influenza, enorme, che Mazzini esercitò a lungo in tutta Italia e anche in Europa non va, quindi, attribuita alle sue congiure ed alle imprese, tutte fallite, dei suoi seguaci, ma agli scritti, alle lettere, alle parole d’ordine testardamente ripetute, che ebbero una diffusione per l’epoca incredibile. Tuttavia agli occhi dei posteri questo mare magnum di scritti accresce l’ambiguità del personaggio, perché molte sono le contraddizioni, molti i punti oscuri. A cominciare dal motto “Dio e Popolo”, causa di molti equivoci, che Mazzini si guardò bene dal dissipare. Ancora oggi biografi e studiosi si dividono fra chi ritiene il Dio del motto mazziniano nulla più di “un Dio morale e laico”, cioè un termine per indicare l’essenza morale dell’Umanità, e chi, attenendosi alla lettera dei suoi scritti, lo ritiene convinto dell’«esistenza d’una prima causa intelligente», senza la quale «è cancellata l’esistenza di una legge morale suprema su tutti gli uomini e costituente per tutti un obbligo».
Molti si sono chiesti se questa “Prima Causa”, che certamente non è il Dio cristiano, si identifichi con l’Architetto dell’Universo, cioè se Mazzini fosse massone. La militanza massonica di Mazzini resta controversa a dispetto dei tentativi di accaparrarselo dei Fratelli, sempre pronti a definirlo “nostro Sommo Fratello” e, assieme al Gran Maestro Garibaldi, “Stelle massime della italiana Massoneria”. Dato che massone era il padre, è probabile una iniziazione in età giovanile, e certamente al momento di aderire alla Carboneria il giovane genovese conosceva la setta degli “Illuminati di Baviera” e doveva apprezzarne il programma se assunse lo pseudonimo di Filippo Strozzi già adottato da Xavier Karl Zwack, braccio destro del fondatore Johann-Adam Weishaupt.
Vi sono autori, in particolare inglesi e americani, che ne fanno addirittura il capo della setta sopravvissuta alla soppressione del 1787, ma, in mancanza di riscontri oggettivi, se appare evidente una certa vicinanza spirituale e politica con la massoneria, con la quale condivideva l’avversione per il cattolicesimo e il papato, resta il fatto che il suo carattere altero, l’altissima, stima di sé, l’incrollabile ostinazione nelle proprie idee, la stessa indifferenza per il profitto personale lo rendevano inadatto all’obbedienza massonica. Forse avrebbe potuto accettarne la Suprema Maestranza, certamente non avrebbe accettato di sottostare a quella di Garibaldi. È verosimile che queste ragioni e la conseguente incapacità di accettare la leadership di Carlo Marx, abbiano altresì concorso, assieme all’avversione per l’ideologia della lotta di classe, a fargli lasciare la Prima Internazionale, che pure aveva concorso a fondare in quello stesso 1864. Va però detto che nella polemica con Marx, Mazzini, solo in apparenza soccombente, seppe prevedere con singolare lucidità che l’ideologia comunista avrebbe inevitabilmente portato al dispotismo dello stato totalitario. (RC n. 62 – Febb/Marzo 2011)