Chopin, l’Arte del sentire

Spesso sento il bisogno di sentire. Di fuggire, di trovare forme di ebbrezza in mondi paralleli immuni dal banale e dal grottesco che imperano al di fuori e a volte dentro di me. Per uscire dal grigio involucro che mi impone di tanto in tanto la vita, una temporanea via di fuga è l’immersione nell’arte. E quale immersione è più piacevole dell’immergersi nella musica? Leggi tutto “Chopin, l’Arte del sentire”

La triste deriva dei diritti umani

Quale idea evoca oggi tanto sentimento di ossequio quanto quella di “diritto umano”? Pronunciare queste due parole fa si che il contesto in cui sono inserite acquisti automaticamente una dignità che nessun ragionamento può scalfire. Ci eleva in una dimensione inattaccabile, immune dal giudizio. Ed è giusto, in fondo, che sia così. L’idea di diritto umano, cioè di diritto intrinsecamente legato all’essere umano in quanto tale è cosa nobile, un concetto forgiato nel tempo da menti elevate, un concetto che ha contribuito a rendere gande e unica la nosra civiltà. Forse il suo miglior prodotto. É proprio per questa convinzione che trovo ben triste quanto sta attualmente accadendo a questa idea, affetta a mio avviso ormai da una profonda malattia che ne ha diluito l’originale forza e pervertito le fondamenta.

Questo malore è il risultato dell’insinuarsi nella teoria dei diritti umani di alcune linee di pensiero, di alcune tendenze che la stanno a tutti gli effetti rendendo una teoria debole, contradittoria e nichilista. Questo succede in primo luogo quando da una dimensione puramente astratta i diritti umani si concretizzano nell’azione delle copiose istituzoni create per garantirne il rispetto. É proprio in questo ambito che che la distorsione si fa più tediosa e per molti aspetti pericolosa. Ma quali sono queste tendenze? Si tratta di tendenze nate nella “Pax” delle Democrazie occidentali, cioè rese possibili dal relativo benessere nelle quali tutte, bene o male, si trovano.

Quest’ultimo è un’humus particolarmente prono a permettere il fiorire di linee di pensiero deboli, in qualche modo dimentichevoli del passato ed incuranti del futuro. Per questa ragione dunque pericolose per il futuro di quelle stesse società che ne hanno permesso l’esistenza. Il primo fronte da prendere in considerazione è riassumibile in una parola: autoconservazione. Montesquieu nello “Spirito delle leggi” sosteneva che il fine principale delle leggi è l’autoconservazione dello stato. Penso che la teoria dei diritti umani, nata come teoria preposta alla conservazione di un certo assetto nella gestione della cosa pubblica (valori democratici, centralità della persona etc) abbia perso di vista questo spirito. Sono numerosissimi i casi in cui i diritti umani vengono usati dalle organizazioni internazionali come arma per indebolire le misure che le democrazie occidentali spesso prendono proprio per rafforzare e proteggere i valori fondamnetali delle società libere, quindi la loro sopravvivenza.

In altre parole, la teoria dei diritti umani si è completamente scollegata da un senso di autoconservazione della civiltà nella quale essa stessa è nata.. É la conseguenza di quella tendenza più ampia in occidente in base alla quale sta venendo a mancare un sentimento di autoconservazione di un’identità collettiva parallelo a quello individuale, certo naturale e necessario, ma decisiamente non sufficiente. Spirito di autoconservazione di una civiltà significa fare scelte forti il cui senso si coglie di generazione in generazione, non di giorno in giorno. Sono illuminanti le lezioni che ci vengono dai casi concreti. La sezione ordinaria della Corte Europea dei diritti dell’uomo si è recentemente pronunciata a favore della rimozione dei crocifissi dalle scuole italiane poichè violerebbero la libertà del gentitore di educare i propri figli liberamente .

Non voglio ora entrare eccessivamente nel merito della (triste) vicenda, ma mettere in evidenza ciò che vermante è problematico in questa vicenda. I giudici della venerabile corte di Straburgo hanno dimostrato con la loro sentenza una imbarazzante superficialità. Hanno deciso di cosiderare non meritevole di protezione ed addirittura pericoloso per i diritti umani il simbolo di quella filosofia senza la quale non avremmo avuto i diritti umani stessi. Si sono dimenticati che il concetto stesso di diritto umano come oggi noi lo intendiamo, cioè di diritto fondato sulla centralità e importanza della persona umana, è un concetto che si è plasmato nella cultura cristiana a sua volta intrisa di classicità.

É interessante il fatto che la prima “Carta dei diritti”, cioè la Magna Carta del 1215 fu scritta proprio da un ecclesiastico, l’arcivescovo di Canterbury Stephen Langton. É per questo che mi chiedo, una civiltà che si dimentica della propria origine e consistenza come fa a sopravvivere? Il secondo fronte da considerare è quello, strettamente collegato al primo, del relativismo. I diritti umani sono visti sempre più in un ottica relativista. In base a questa prospettiva, un diritto da considerarsi assoluto e meritevole di tutela poichè posto a protezione di un determinato valore in occidente, può non essere considerato tale relativamente ad un’altro ambiente culturale. Il problema non è il fatto che tale valore non sia riconosciuto da altre culture, che è cosa inevitabile. Il problema sorge quando è proprio chi lo proclama a non riconoscerne l’universalità.

 Perchè? Perchè chi sostiene la relatività dei valori relativi alla persona umana, quali quelli appunto protetti dai diritti umani, di fatto si pone in contraddizione con il concetto di diritto umano stesso che per sua vocazione, struttura e origine, è universale. Relativismo è dunque in questo contesto sinonimo si incoerenza, contradittorietà e impotenza. É la conseguenza di un certo disimpegno intellettuale nei confronti dell’assoluto, concetto forte dalla quale spesso ultimamente si fugge, forse per mancanza di coraggio. Sostenere che i diritti umani siano assoluti e universali significa riconoscere in pieno il loro valore e non condannarli all’umilante funzione di ornamento retorico per discorsi politically correct. Significa non nascondersi quando occorre una loro ferma protezione o rinunciare quando si tenta di portarli dove essi non sono rispettati.

Per molti quest’ultimo è un ragionamento imperialista, per me è coerenza, onestà intellettuale. I diritti umani sono diritti legati all’uomo in quanto tale, dunque la loro validità non può (a rigor di logica) dipendere dal contesto culturale in cui l’uomo si trova. Per questo chi proclama la loro importanza non può, senza cadere in un evidente contraddizione, sostenere che è ingiusto “imporli” ad altri. Semmai è difficile. Per concludere, un presupposto. Sostenere, come chi scrive, che i diritti umani debbano aspirare all’autoconservazione della civiltà che li ha prodotti e che vadano considerati in senso universale richiede un sentimento di orgoglio per la nostra civiltà, quella occidentale. Comporta il riconoscerne oltre ai difetti anche i grandi meriti. Significa desiderarne la continuazione. La mia sensazione è che oggi i diritti umani soffrano perchè il preteso e diffuso ossequio dimostrato nei loro confronti proviene da chi, questo orgoglio lo ha da tempo, per qualche triste ragione, perso.

Shelley, meravigliarsi della vita

Qualche tempo fa, preso come spesso sono dal desiderio di distaccarmi per qualche minuto dallo studio, mi sono immerso nella lettura di qualche poesia del poeta romantico inglese Percy B. Shelley. La mia attenzione non è stata catturata da una poesia bensì da un piccolo saggio scritto nel 1832 e intitolato “On Life”, “Sulla vita”. Quello che ho trovato è una delle più alte e appassionate esaltazioni della vita umana che io abbia mai letto.

La prospettiva di Shelley non è puramente filosofica ne tantomeno scientifica. È lo slancio poetico a prevalere, quella formidabile e rara facoltà posseduta dagli intelletti più raffinati. Una prospettiva intimamente spirituale-intuitiva di chi ha sempre, sebbene non convenzionalmente, ricercato e tradotto in poesia ciò che di metafisico traspare dal mondo fisico. Il punto di partenza del saggio è il seguente: “Life is an astonishing thing”. Questo è il tema che permea l’intera riflessione, la meraviglia nei confronti della vita in se stessa, meraviglia che Shelley dice subito dopo essere troppo spesso oscurata dalla “Mist of familiarity”, la nebbia dell’abitudine.

Proprio qui sta il nucleo della sua riflessione, che incarna un’incredibile paradosso: l’uomo è talmente intento a occuparsi e stupirsi dei fenomeni esistenti grazie alla vita, da non cogliere ciò che veramente è stupefacente e unico, cioè la vita in se stessa. “Life, the great miracle, we admire not beacause it is so miracolous”, la vita, il miracolo più evidente, non lo cogliamo perchè è così miracoloso. La bellezza di questa riflessione sta a mio avviso nella sua semplice profondità. Non vi sono sillogismi complessi, ne baroccheggianti calcoli, ne perniciose disquisizioni teologiche. C’è solo l’intuizione della bellezza e dell’incredibile fascino di un qualcosa di certo, ma che rimane allo stesso tempo incomprensibile.

Lo slancio poetico si rivela dunque essere uno strumento formidabile attraverso il quale sfiorare le trame più affascianti dell’esistenza, permettendo a chi ha la fortuna di possederlo di guardare alla realtà come ad una dimensione in cui fisica e metafisica sono intimamente collegate. La riflessione di Shelley, seppur espressa in un saggio, è di natura squisitamente poetica. Come disse Gabriele D’Annnunzio, “il verso può avere dimensioni di eternità”. Shelley era animato, come molti poeti romantici del suo periodo (Lord Byron e Keats), da una spiritualità più paganeggiante che cristiana e per questo è stato spesso, erroneamente e superficialmente, descritto come un poeta ateo.

Basta leggere le sue poesie e saggi per capire quanto fosse lontano dal pensiero materialista della tirannia del calcolo e quanto i suoi versi sono intrisi di metafisico. Ora io non so se Shelley, proiettato nei nostri tempi, sarebbe annoverabile nella schiera di quelli che, come chi scrive, pensano che la vita umana ha un valore tale da dover essere difesa in tutti i momenti e in tutte le sue forme. È innegabile però che la sua riflessione, il suo esortare l’essere umano a meraviglarsi di ciò che ormai ha ridotto a banalità, è una riflessione importante che dovrebbero a mio avviso fare tutti colloro che affrontano il dibattito bioetico di questi anni. La mia personale opinione è che è bisognerebbe recuperare un pò di quel semplice “Incanto” nei confronti della vita, e i primo luogo della Vita in se stessa. Forse dovremmo dare più importanza ai poeti.

Uno Slancio Vitale per il centrodestra

La formidabile intuizione di Silvio Berlusconi che ha portato alla nascita del Popolo della Libertà e il suo processo di formazione portano a delle importanti e necessarie riflessioni circa il modo d’essere culturale del centrodestra, riflessioni di grande, direi epocale, portata. Penso che la prima cosa che la nuova formazione dovrà considerare è la necessità di rovesciare una fastidiosissima convinzione che primeggia nell’immaginario comune e che serpeggia trionfante ormai da decenni nelle membra della nostra società e non solo, cioè la convinzione che la “cultura” sia una prerogativa appartenente all’universo della sola sinistra, e che il centrodestra al contrario sia invece costituito da un gregge di pecore che non vede l’ora di tornare a casa a guardare qualche programma spazzatura o che non pensa ad altro che ai famigerati “danè”. Una considerazione falsa e pericolosa, che affonda le sue radici nelle miracolose mistificazioni compiute da quei “geniacci” del 68 e nella scarsa visibilità di quegli intellettuali che non appartengono alla corrente dominante e che finiscono quasi sempre per essere soppraffatti dal fracasso dei tiranni del pensiero. Una tirannia che ha come conseguenza la cosidetta e tanto sventolata “superiorità morale” di una certa e dominante tipologia di pensatori, che così si impongono come portatori di una presunta verità davanti alla quale molti si inginocchiano ciecamente, colti da un abbagliante timore reverenziale. Nel tentativo di ristabilire cos’è il vecchio e cos’è il nuovo, il centrodestra deve recuperare quell’”élan vital” necessario per scardinare questa ridicola convinzione e investire in una forza capace di fronteggiare i luoghi comuni sesantottini che, come spesso accade, non si traducono in altro che noiosi (ma purtroppo efficaci) slogan da piazza. In altre parole, deve rinconquistare quella “Grandeur culturale” che legittimamente gli spetta. Per fare questo, sarà importante investire nella formazione giovanile, in quei giovani che rappresenteranno la sintesi vivente delle varie correnti culturali che sono il corpo e l’anima del nuovo soggetto politico all’insegna di un moderno e vincente conservatorismo, che forte e orgoglioso del suo background filosofico-politico, tenga lo sguardo rivolto al futuro. Ma vi è di più, bisogna creare (o riscoprire) un modello di agire politico nuovo, connotato da una “forma mentis” che sappia coniugare il successo del pragmatismo, con l’eleganza, lo spessore spirituale e quel “Je ne sais quoi” che solo l’amore per la Storia, la Letteratura, la Filosofia e una giusta percezione della centralità della religione Cristiana possono dare. Molti in Italia si muovono già in questa direzione, ma è interessante guardare anche all’estero, come ad esempio alla mia amata Inghilterra. Prendete Boris Johnson, Sindaco di Londra, deputato Tory, giornalista, Storico, una persona dotata di quella nobile schiettezza, così preziosa e rara. Il suo ultimo libro, “The dream of Rome”, con uno stile frizzante e piacevole fa un confronto tra gli odierni tentativi di integrazione Europea e l’unificazione dell’Europa sotto Ottaviano Augusto, rilevando come i primi (da buon Inglese) sono destinati al fallimento per il fatto che si fondano pressocchè solamente su motivi economici, e i secondi invece trionfarono grazie all’irresistibile appeal della “Romanitas” esaltato dall’estetica imperiale che spesso attraeva e unificava i popoli, rendendoli desiderosi di far parte dell’universo Romano. Al di là delle teorie esposte, che alcuni possono non condividere, cio che affascina è che la sua passione per la storia non si riduce ad un’asettica e noiosamente accademica analisi dei fatti, ma è una fonte inesauribile d’ispirazione e di idee che non lo distolgono dall’esperienza politica pratica, un impostazione che richiama quella “Lunga experienza delle cose moderne et una continua lectione delle antiche” che sta alla base del più importante libretto di istruzioni per governanti che è “Il Principe” di Macchiavelli. Un modello di conservatorismo dunque, che fugge sia dal gretto pragmatismo dei politicanti senza anima che dal grigio immobilismo di alcuni intellettuali sconnessi dal mondo, un modello per i giovani del centrodestra che col tempo potrà gettare nell’ombra e schiacciare il rozzo snobbismo e l’arroganza della maggior parte intellettuali di sinistra e far (ri)emergere una forte e raffinata aristocrazia culturale, nutrita di principi consolidati nella storia, ancorati al buon senso e necessari per migliorare il futuro. Spero dunque che il Popolo della libertà agisca in questo senso e che anche questo sia motivo di ispirazione per i giovani del Pdl. I giovani conservatori britannici, proprio in questa prospettiva si sono dati il nome di Conservative Future e i Jeunes de l’UMP, formazione giovanile del partito di Sarkozy, proprio per evidenziare la “rupture” rispetto ai vecchi schemi sesantottini tanto auspicata dall’attuale capo di stato francese e nella convinzione che la rivoluzione non è ne di destra ne di sinistra ma di chi la fa, hanno adottato l’azzeccatissimo slogan: “La Revolution c’est nous”.