Enorme indignazione “democratica” dei partiti di governo e dei mass-media per quello che viene definito il veto opposto in sede Ue all’approvazione del Quadro Finanziario pluriennale 2021-2027, cioè del Bilancio europeo, da Polonia e Ungheria (cui si è aggiunta la Slovenia), che in realtà per ora si sono limitate a dire che potrebbero fare mancare il loro consenso se permanessero i requisiti proposti per potere accedere agli aiuti previsti a favore dei paesi europei danneggiati dalla pandemia (cioè tutti, inclusi Polonia, Ungheria e Slovenia) da Next Generation EU cioè dal Recovery Fund, come viene abitualmente chiamato in Italia.
In realtà si tratta di un’unica condizione: il rispetto dello Stato di diritto. Una condizione gravida però di importanti conseguenze, perché se oggi riguarda la corresponsione degli aiuti Next Generation, potrebbe estendersi, una volta ammesso il principio, a molti altri contributi della Ue fino a mettere addirittura in gioco (è già stato proposto e minacciato) l’effettiva esplicazione dei diritti e delle prerogative spettanti a tutti gli Stati membri.
E’ vero però che si tratta di una condizione il cui rispetto da parte di un qualunque Stato appartenente all’ecumene occidentale appare oggi assolutamente ovvio e scontato, dal momento che nel suo ambito non esiste uno Stato che non abbia adottato le caratteristiche essenziali dello Stato di diritto nella sua consolidata versione liberale: il principio di legalità, per i quali tutti sono soggetti alla legge e soltanto alla legge ( il latinorum dei ricordi scolastici è il sub lege rex contrapposto al sub rege lex dei regimi assoluti), il principio della separazione dei poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario, il principio per cui non vi sono più sudditi, ma cittadini, titolari di diritti costituzionalmente garantiti (anche nei rari casi in cui manchi una vera e propria Costituzione scritta).
Tuttavia l’art. 2 del Trattato richiede ai paesi aderenti all’Unione europea una visione più ampia e approfondita dello Stato di diritto in quanto all’art. 2 dichiara che “l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra uomini e donne”.
In realtà, secondo le loro dichiarazioni, i tre Stati obiettori non rifiutano affatto lo Stato di diritto nemmeno nella concezione allargata e approfondita recepita dall’Unione, che anzi affermano di volere da tutti rispettato ma “qualsiasi meccanismo discrezionale che sia basato su criteri arbitrari e politicamente motivati”. Una giustificazione male accolta dai partiti di governo e dai media italiani che, a sostegno della loro indignazione per una presa di posizione che mette a rischio o comunque ulteriormente ritarda la corresponsione dei miliardi di euro previsti dal Recovery Fund, sui quali il nostro paese fonda tutte le speranze di evitare il crack definitivo, si sono affrettati a ricordare che nei confronti tanto della Polonia quanto dell’Ungheria l’Unione ha aperto procedure d’infrazione ex art. 7 del Trattato per avere adottato sistemi che hanno determinato una crescente influenza del potere esecutivo e legislativo sul funzionamento della giustizia. A questo riguardo, nell’impossibilità di esprimere, allo stato, un giudizio definitivo, si può dire che la questione è sub judice e che i sistemi giudiziari adottati dai vari paesi membri presentano, come evidenziato anche dalla prima edizione della Relazione dello Stato di diritto nell’UE, non piccole differenze, suscettibili di essere utilizzate da parte di chi è in grado di fare ricorso ai temuti meccanismi discrezionali per colpire una particolarità nell’amministrazione della giustizia invece che un’altra. Quindi un paese piuttosto che un altro.
Per uscire dal generico, ci si può chiedere, a titolo di esempio, se rispettino totalmente il principio della divisione dei poteri quegli Stati che, a differenza dell’Italia (dove però molti politici vorrebbero imitarli) attribuiscono all’esecutivo poteri di controllo sui magistrati dell’accusa (quindi sull’esercizio dell’azione penale) e su quelli (come l’Italia e altri) dove il Consiglio Superiore della Magistratura ha dei componenti di nomina partitica e la Corte costituzionale, che è di fatto il massimo organo della giustizia, pur se non incluso nell’ordine giudiziario, è per due terzi di nomina politica (e non mancano le sentenze – una recentissima – che ne evidenziano la natura di giudice, per l’appunto, politico).
Ciò che ragionevolmente si teme a Budapest e Varsavia è che la Commissione von der Leyen voglia, usando l’arma dei contributi europei, di cui in particolare i paesi dell’Est hanno vitale necessità, approfittare della crisi sanitaria ed economica causata dalla pandemia per omologarle alla propria visione dello Stato di diritto e del mondo. E non solo per quanto riguarda l’organizzazione giudiziaria o le leggi che in Ungheria ostacolano l’attività dello speculatore finanziario e benefattore George Soros o i dubbi finanziamenti esteri delle Ong. Nella nozione che ne dà l’art. 2 del Trattato lo Stato di diritto include il riconoscimento e il rispetto dei diritti umani. Nulla da obiettare – si può immaginare – da parte di Viktor Orban e di Mateusz Morawiecki se non fosse che sempre più spesso nell’elenco dei diritti umani i paesi cosiddetti occidentali includono, a volte di fatto a volte anche formalmente, la politica immigrazionista, i matrimoni omosessuali, la maternità surrogata, la cultura Lgbt e, in generale, i cosiddetti “diritti civili”, che sono tutt’altro dei diritti umani e spesso li contraddicono, come nel caso del cosiddetto diritto della donna all’aborto in totale negazione del diritto alla vita. A questo proposito cosa si deve pensare a Varsavia delle prese di posizione degli altri paesi europei e delle “spontanee” manifestazioni organizzate sul proprio territorio contro il divieto di aborto eugenetico, frutto non di un provvedimento del governo, ma di una sentenza della Corte costituzionale, fondata, fra l’altro, anche su una corretta interpretazione di normative europee ed internazionali come l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 11 della Convenzione di Oviedo?
Non tutti i governi dell’Europa Orientale la pensano come quelli di Varsavia e Budapest. Ciò non toglie che le preoccupazioni a proposito di una Ue sempre più prossima a realizzare le previsioni del dissidente sovietico Valdimir Bukovsky, che la vedeva molto simile all’Unione sovietica dei suoi tempi, siano condivise da molti dei popoli che i diktat dell’Urss li hanno sperimentati sulla loro pelle. Proprio l’altro giorno l’ex presidente della Repubblica Ceca, Klaus Vaclav, criticato da alcuni politici del suo paese per avere partecipato, il 28 ottobre, senza la mascherina anticovid alla festa di quella Repubblica, ha replicato in un’intervista: “Chi vuole imporci la mascherina sono gli stessi che vorrebbero imporci l’immigrazione selvaggia, l’adozione dell’euro e piegarci ai diktat dell’Unione Europea”. Forse non interessa la mascherina, ma i diktat dell’Ue sì.