“Ecco perché l’Europa si salva solo se ritorna alle sue radici”. Intervista a Eugenio Capozzi

di Vanessa Combattelli.

Il professor Capozzi non ha certo bisogno di presentazioni: è amico e firma dell’Occidentale. Ma questa volta, anziché scrivere di suo pugno, si è sottoposto ad una conversazione sui temi più caldi del panorama politico e culturale attuale, toccati, ovviamente, dalla piaga del Covid-19.

Partiamo dall’Unione Europea: oggi, tanto più con le difficoltà innescate dalla pandemia da coronavirus, ci troviamo di fronte ad una vera e propria crisi. Possiamo dire fosse prevedibile già in tempi non sospetti?

Come molti, ritengo che una crisi strutturale dell’Unione fosse già in atto da tempo. Ma, come spesso accade, intervengono fenomeni che, inserendosi in determinati contesti, accelerano i processi. La pandemia da coronavirus è uno di questi casi: tra gli altri effetti, essa ha messo ulteriormente a nudo le fragilità, le incompiutezze, le incoerenze dell’attuale progetto europeo.
Come abbiamo constatato ampiamente in queste settimane, davanti a questioni di sopravvivenza sono le vecchie strutture, gli Stati nazionali, a funzionare realmente: per questo diviene ancora più difficile immaginare che una presunta solidarietà europea compensi le falle di un impianto istituzionale difettoso. Proprio in casi come questi le disparità tra nazioni emergono e si vanno sempre più approfondendo.

Un esempio di quest’ultimo aspetto?

Chi, in base ai parametri vigenti, potrà spendere e aiutare i propri cittadini, lo farà. Chi, invece, non può avrà praticamente due alternative: essere strangolato dai meccanismi di bilancio o implorare aiuto agli Stati più forti, a condizioni insostenibili. O, al limite, essere costretto a scegliere il salto nel buio dell’uscita dall’Ue, ma da una posizione di estrema debolezza. La vicenda dei mancati “coronabond” e dell’accordo di queste ore, disastroso per l’Italia, sul MES rappresenta soltanto una ulteriore conferma di un dato di fatto brutale, difficilmente superabile in base ai rapporti di forza attuali.

A suo avviso possiamo dire che le difficoltà che stiamo vivendo oggi siano figlie di difetti originali del progetto europeo? Tra gli europeisti convinti si dà colpa alla mancata federalizzazione, invece i sostenitori di un’Europa dei Popoli parlano di un depauperamento complessivo della sovranità degli Stati membri: lei cosa ne pensa?

Qualunque sia il modello scelto – federale o confederale – è necessario però che le istituzioni poi costruite siano coerenti con esso. Invece le attuali istituzioni europee non sono affatto consonanti col modello a cui i loro sostenitori dichiarano che esse si ispirano, quello federale. Ci troviamo infatti di fronte ad una struttura intergovernativa oligarchica e gerarchica, “esoterica”, in cui tutte le decisioni sono prese da una cerchia di paesi politicamente più forti.
In realtà, per comprendere bene la vicenda dell’integrazione europea, compreso il binario morto sul quale si è avviata negli ultimi decenni, occorre sempre ricordare che essa è nata durante la guerra fredda all’interno dell’alleanza occidentale anticomunista, con l’obiettivo di rafforzare la parte europea dell’Occidente. Se si estrapola il processo europeo, con le sue istituzioni, da quel contesto storico, esso perde il suo senso originario. Alla fine della guerra fredda si sarebbe dovuto aprire un dibattito serio su quale fosse il fondamento dell’integrazione in termini di princìpi politici e ideali, prima di stringere ulteriori vincoli e allargare la compagine. Ma questo non fu fatto allora, e non è stato mai più fatto in seguito. Si è continuato a dare credito ad una sorta di destino inerziale dell’integrazione continentale. La vicenda del dibattito sulla costituzione dell’Unione, sul suo preambolo e sulle radici cristiane, e poi l’ingloriosa fine di quella costituzione, sono stati, tra l’altro, i risultati di questa mancata riflessione.
Proprio per questo, ora, la disputa filosofica tra “piùeuopeisti” e sovranisti mi pare tutta astratta, quasi surreale. È come se si facesse di tutto per non riflettere a fondo su qual è l’identità europea nel contesto globale, su quale rapporto ci sia oggi tra Europa e democrazia, su come si debba porre l’Europa nel suo complesso rispetto all’identità occidentale. Solo in base alla risposta che si dà a queste domande si può ragionare sul modello istituzionale in base al quale organizzare i rapporti tra le nazioni del continente.

Possiamo prefigurarci un’UE che funzioni con le dinamiche di un ordinamento davvero liberale e democratico?

Paradossalmente, per quanto mi sembrino fuori luogo oggi quelli che chiedono “più Europa” in maniera preconcetta ed astratta, idealizzando un presunto “modello Ventotene”, sarei disposto persino a prendere la Costituzione degli Stati Uniti d’America, in blocco, per applicarla tout court all’Europa comunitaria. Credo che ci accorgeremmo che un modello costituzionale autenticamente federale come quello in realtà darebbe molta più libertà agli Stati nazionali rispetto a quella che esiste oggi, e permetterebbe ai popoli delle nazioni aderenti di esprimere in maniera più efficace la propria sovranità democratica.

Ci sarebbe anche un ruolo più rilevante dei cittadini…

Sì. La stabilità e la salute di una comunità politica tra Stati nazionali democratici non può consistere, primariamente, che nel massimo potere decisionale possibile dei cittadini attraverso il voto, e nella accountability effettiva dei loro rappresentanti, anche in sede comunitaria, quando si tratta di questioni rilevanti per l’interesse dei singoli Stati. Questi aspetti, che erano difettosi nell’impianto della Cee, sono diventati assolutamente evanescenti nell’Unione e poi nelle regole della “eurozona”.
Io mi sono formato culturalmente e politicamente in una fase storica  in cui l’europeismo era ancora sostenuto prevalentemente dalla cultura politica liberaldemocratica e cattolica, mentre veniva per lo più contrastato, o ammesso con molte riserve, dalle sinistre: proprio perché, come ho ricordato prima, il processo comunitario era nato come rafforzamento dell’atlantismo occidentale, e le sinistre erano invece ancora legate, benché più blandamente, all’eredità del modello sovietico.

Poi, però, la sinistra ha modificato la sua visione…

Sì. A partire dai tardi anni Settanta con l’influsso di Altiero Spinelli, e più marcatamente dagli anni Ottanta, abbiamo assistito ad una radicale inversione di marcia in quell’area politica. La sinistra – in particolare il Pci e in seguito i suoi successori – ha adottato l’europeismo una forma dogmatica, ideologizzata, ingenua, pensando all’Europa come un super-Stato che si ponesse da terza forza tra Stati Uniti e Unione Sovietica. L’europeismo e il federalismo, insomma, diventavano una via d’uscita facile dal fallimento del marxismo-leninismo e della sinistra anti-occidentale.
A partire da quel periodo, e tanto più dopo il termine della guerra fredda, le stesse sinistre hanno iniziato a battere il tasto sull’idea del “deficit di democrazia”, cioè sulla richiesta di dare effettivi poteri legislativi al Parlamento europeo, e di ripensare nel senso di un regime parlamentarista il ruolo della Commissione. Sappiamo bene che dopo Maastricht questo “deficit di democrazia” non è stato in realtà mai colmato, e anzi si è approfondito, in una torsione elitaria e verticistica. Eppure, da quando ha preso avvio il processo di unità monetaria, le stesse sinistre hanno iniziato a considerare l’Ue come una sorta di paradiso della democrazia e della solidarietà europea.

Si parla molto spesso di Unione Europea, ma sempre meno d’Europa. Sicché, le chiedo con franchezza, esiste in verità un sentimento europeo? Possiamo parlare di un legame tra i popoli d’Europa? Sembrerà una domanda banale, eppure se consideriamo i più giovani si nota un grande distacco nei confronti dell’identità europea in quanto cultura e storia, poiché tutto pare ridursi al perimetro dell’UE.

Fino a vent’anni fa l’Italia era il paese del continente in cui l’adesione all’ideale europeista era maggiore che in tutti gli altri, perché in un determinato momento storico, per le dinamiche che ho ricordato prima, il vecchio europeismo liberaldemocratico e cattolico si era sovrapposto a quello nuovo delle sinistre post-comuniste e neo-borghesi.
Nel giro di un ventennio questa adesione è andata però rapidamente deteriorandosi, perché la torsione sempre più oligarchica e tecnocratica dell’Ue ha eroso significativamente sia l’ideale dell’integrazione come salvaguardia dei princìpi occidentali, sia quello dell’Europa come nuova land of opportunities. A mio avviso, però, il primo rimane ancora valido, ed è anzi l’unico motivo possibile per giustificare, anche dopo la guerra fredda e a maggior ragione oggi nel mondo della globalizzazione conflittuale, istituzioni che tengano insieme le nazioni europee.

Esiste, quindi, un’identità comune tra le nazioni che costituiscono l’Unione Europea?

Esiste un’identità culturale, un’identità di civiltà europea: nasce dall’integrazione tra eredità ebraico-cristiana, greca, romana, germanica, celtica, slava. E’ un’identità che si costruisce nei secoli attraverso l’Impero Romano, il Sacro Romano Impero, gli Stati moderni, il sistema delle potenze westfaliano, i regimi rappresentativi liberali e democratici. Quest’identità è nutrita di arte, di letteratura, di simboli e di religione. Questa identità però, ad un certo punto, diciamo a partire dal Novecento, è confluita in un bacino più ampio, quello che chiamiamo “Occidente”, e che comprende l’America settentrionale, il Commonwealth. Ora, l’unica Europa che storicamente ha ancora un senso è quella: è l’Europa che ha resistito all’attacco distruttivo del comunismo sovietico, salvaguardando i princìpi di libertà, di dignità dell’essere umano, di uguaglianza che nella sua storia si sono formati.
Non possiamo permetterci di trascurare l’identità occidentale dell’Europa, e non possiamo considerare oggi l’Europa come un concorrente in proprio, nel gioco delle potenze globali, rispetto a Stati Uniti, Cina, Russia, India…  Così come era sbagliato considerarla una potenziale “terza forza” all’epoca della guerra fredda.
Come ricordava lo storico svizzero Gonzague de Reynold nei primi anni del secondo dopoguerra, nella sua storia l’Europa – che dal punto di vista geografico è una penisola dell’Asia – ha costruito e difeso la propria identità in primo luogo difendendosi dall’esondazione delle civiltà asiatiche: persiani, unni, mongoli, arabi, turchi … L’ultima incarnazione di questa difesa è stato, nel Novecento, l’alleanza atlantica e il legame organico con gli Stati Uniti, per arginare l’ultima invasione asiatica: il comunismo sovietico e cinese. Oggi, quell’alleanza è ancora indispensabile per difendere l’identità europea dall’esondazione del tecnocomunismo cinese, da quella dell’integralismo islamico, e anche dalla sempre possibile affermazione, a partire dal mondo russo e slavo, di un modello di società non omogeneo ai princìpi della responsabilità individuale e della limitazione dei poteri.

La nostra identità oltre Russia e Cina: spesso questi due soggetti vengono confrontati e messi sullo stesso piano, ma quale deve essere la posizione dell’Europa di fronte a questi delicati equilibri geopolitici?

Bisogna introdurre, per ovvie ragioni, una distinzione tra Russia e Cina.
L’identità europea di cosa è fatta? Di diritto oggettivo e diritti soggettivi, di limiti giuridici e responsabilità dei poteri, soprattutto di umanesimo, inteso come assegnazione di valore sacrale alla vita umana.
Queste idee sono comuni con le radici culturali dell’America, sono in parte comuni con la cultura slava e russa, ma sono poco o per nulla compatibili con la cultura cinese: profonda e ricchissima, ma fondata in ultima analisi su princìpi di obbedienza, gerarchia, onore che relativizzano il valore della vita e la libertà degli individui come noi la intendiamo, e parimenti l’autonomia delle costruzioni sociali dal potere politico. Con la civiltà cinese possiamo avere una convivenza pacifica, regolata da distanze e distinzioni, ma mai una integrazione, perché l’unica prospettiva in tal caso sarebbe quella di essere assoggettati da una cultura illiberale. Credo che invece l’Occidente possa e debba stabilire un ponte strategico con la Russia, pur consapevole delle differenze di interessi geopolitici e di cultura con esso, fondato sul minimo comun denominatore dell’eredità ebraico-cristiana e greco-romana.

In qualche modo, c’entra anche la globalizzazione?

Sì. Più in generale, possiamo ormai dire che la globalizzazione “sinocentrica” (o “low cost”, come mi piace chiamarla) è finita con l’attuale pandemia, e dobbiamo assolutamente, urgentemente pensare ad una nuova idea di globalizzazione re-incentrata sull’Occidente, per non essere inghiottiti dal disordine mondiale. Occorre innanzitutto porre barriere economiche e politiche chiare nei confronti della Cina, di questo modello di integrazione economica globale che non è più sostenibile, perché espone le società industrializzate democratiche a falle radicali nella gestione della sicurezza, della salute pubblica, della libertà dei loro cittadini, come si sta vedendo.

Nazionalismo ed Unione Europea: questi due concetti possono coesistere o entrano necessariamente in contraddizione?

Credo che la risposta sia direttamente conseguente al discorso che abbiamo fatto sull’identità europea. Le nazioni sono un parto peculiare dell’Europa: l’eredità delle istituzioni antiche e medievali si concretizza, negli Stati nazionali moderni, in un modello ad alta efficienza, che genera da un lato una tensione con quell’eredità per la tendenza all’assolutizzazione del potere sovrano, ma dall’altro la salvaguarda, generando come sintesi i regimi costituzionali rappresentativi. Solo nello spazio delle nazioni si è potuto creare il terreno favorevole allo sviluppo dei processi di modernizzazione economica e culturale: dalla rivoluzione scientifica a quella industriale, fino a quella liberal-democratica. Le nazioni di modello europeo sono state per secoli gli unici spazi dove hanno potuto crescere e rafforzarsi i diritti individuali, così come l’impresa e il mercato, che ha potuto diventare globale solo a partire dalle sicurezze offerte dai loro ordinamenti. Ancora oggi, nonostante tutte le istituzioni internazionali e potenzialmente sovranazionali, e nonostante le utopie globaliste, non si è sviluppato nessuno spazio più ampio in grado di dare le stesse garanzie, di proteggere libertà, diritti, sviluppo con la stessa efficacia. Le nazioni restano ancora, dunque, un elemento essenziale nell’identità europea, e non si possono considerare certo un relitto del passato: a maggior ragione in quanto tutto l’assetto di potenza mondiale è ancora fondato sulle sovranità nazionali.

Quindi, quale potrebbe essere l’alternativa?

L’unica alternativa che ci si offre, come europei, è quella tra il prendere atto passivamente della prevalenza assoluta degli interessi nazionali anche all’interno del continente – magari coperti da qualche illusoria utopia “piùeuropeista”, e la consapevolezza che le nazioni europee possono e devono rinsaldare i propri legami istituzionali per la difesa di princìpi comuni di libertà e di una comune concezione dell’uomo.

Fonte: l’Occidentale

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