Qualche tempo fa il Papa, parlando a proposito di un convegno sulla «Teologia della tenerezza», ha detto che la «teologia astratta è ideologia», dimenticando il famoso detto scolastico «abstrahentium non est mendacium».
Ora bisogna dire che non esiste una «teologia astratta», da contrapporre, quasi, a una teologia «concreta», cosa che non avrebbe senso. Può esistere certo, una teologia inoperante ed inefficace nel campo morale, superata od utopistica, quindi inutile, perché non tiene conto della situazione concreta nella quale occorre operare.
Ma la teologia, ogni teologia, vera o falsa che sia, è astratta per sua essenza. O è astratta o non è teologia, così come astratto è il pensiero, astratto è il sapere, astratte sono le scienze. L’astrazione è facoltà propria dell’intelletto umano, è l’elemento proprio del pensiero, che lo eleva al piano dell’universalità, del sovratemporale e del sovraspaziale, all’ordine spirituale, dell’infinito e dell’eterno, al di sopra della conoscenza sensitiva dell’animale. È l’animale che non sa astrarre, perché non sa trascendere il piano della sensibilità. Ora è appunto l’astrarre che eleva la nostra mente dal sensibile all’intellegibile.
Semmai esiste una teologia che si occupa della concretezza, come per esempio della pratica della tenerezza. Ma è chiaro che questa teologia non può non concepire la tenerezza in modo astratto, se la vuol pensare, dato che l’astrarre è il modo d’essere e di operare del pensiero. Quel dato atto esistenziale della tenerezza è cosa concreta. Ma per sapere e descrivere che cosa è la tenerezza, occorre astrarre l’essenza specifica ed universale «tenerezza» da un concreto atto di tenerezza, oggetto del senso o dell’immaginazione. E per praticare la tenerezza, occorre sì immergersi nel concreto, ma sapendo prima che cosa è la tenerezza.
«Astratto» significa «tratto-fuori-da» (ab-s-tractum) o «estratto» (ex-tractum). Esso non è altro che quell’intellegibile, che, per opera dell’atto d’astrazione intellettuale, sta oltre e al di sopra del concreto materiale, dal quale è stato estratto, e quindi è il libero e trascendente, indipendente da spazio e tempo, dominatore del mondo materiale.
L’astrazione gnoseologica introduce la nostra mente nel mondo sublime e trascendente dello spirito, delle supreme verità, dei valori religiosi, morali e della persona, e quindi del divino, che è «astratto» di per sé ontologicamente,ossia esiste da sè indipendentemente dalla materia; è forma o sostanza spirituale e personale, libera dalle limitazioni, dai condizionamenti e dai determinismi della materia. Chi non sa astrarre, rimane prigioniero del mondo materiale del senso e dell’immaginazione, non sa elevarsi al mondo dello spirito e muoversi liberamente in esso. Avrà un bel parlare di «Dio». Per lui resta un idolo antropomorfico.
Astratto corrisponde ad «assoluto» (ab-solutum, daab-solvo), che significa «sciolto», «libero». Dunque, astratto ed assoluto si corrispondono nel segno della libertà personale.Pertanto, come si dice di Dio che è l’Assoluto, così si potrebbe dire che è l’Astratto, non certo che Dio sia un’idea astratta della nostra mente, come credeva Kant, ma nel senso di astratto ontologicamente, ossia perfettamente libero e trascendente rispetto al mondo materiale della concretezza. Ma, se per «concreto» intendiamo il singolo reale esistente, allora si può dire anche che Dio, come lo stesso Kant riconosceva, è l’Ens realissimum, è l’assolutamente Concreto.
Se vogliamo parlare allora di teologia della tenerezza, dovremo dare una definizione della tenerezza; dovremo chiederci che cosa è la tenerezza; quindi dovremo astrarre o ricavare da questa tenerezza particolare e concreta, che cade sotto i sensi, un concetto universale, un ideale di tenerezza, oggetto dell’intelletto. Esser teneri, certo, è cosa concreta. Ma ciò è possibile solo perchè sappiamo cosa è la tenerezza, ossia ne abbiamo un concetto astratto, così da poterlo mettere in pratica passando dall’astratto al concreto.
La teologia, come per esempio la teologia pastorale, può avere un orientamento verso il concreto, ossia verso l’atto morale, che si realizza nella concretezza esistenziale delle persone, degli loro atti, degli eventi, dei luoghi, delle circostanze e delle situazioni. È, questa, la teologia morale, che può dare origine al concreto, fondare il concreto, produrre il concreto, ossia l’azione, che avviene nel concreto dell’esistenza. Ma questa teologia in se stessa resta teologia, ossia astratta, in quanto semplice sapere. È l’astratto che guida al concreto. E la stessa teologia morale non è immediatamente operativa. Nei suoi princìpi fondamentali, è puramente speculativa, ossia astratta.
Agire senza partire dall’astratto, ossia dall’intellegibile, vuol dire agire per impulso, senza pensare, valutare, riflettere o ragionare, come fanno gli animali. Significa agire, come si suol dire, «con la testa nel sacco». E quand’anche l’atto fosse cosciente, volontario e libero – si badi bene –, ciò non vuol dire ancora agire moralmente bene. Perché si dia questo, bisogna che il contenuto dell’astrazione sia un vero bene, conforme alle esigenze della natura umana finalizzata alla vita cristiana.
Affinchè poi i princìpi morali siano calati nell’azione e l’astratto diventi concreto, occorrono due mediazioni: una prima mediazione, per la quale si resta ancora nell’astratto, ma un astratto più circoscritto e più vicino al concreto: è la scienza morale specialistica. Per chiarire, se la morale generale offre i concetti che convengono ad ogni atto morale, la morale speciale classifica tutte le specie di virtù e vizi.
Ma l’etica speciale non basta ancora a regolare e guidare l’azione umana nel concreto, proprio perchè, in quanto scienza, è ancora astratta: mentre l’azione si trova nel concreto, è un dato singolo e concreto. Occorre dunque una seconda mediazione per tradurre il pensiero o l’ideale morale nella realtà dei fatti. E questa mediazione è la virtù della prudenza, la quale ordina l’azione concreta: fa questo adesso e qui! La prudenza poi è elevata, nella vita cristiana, dalla virtù della carità, soprattutto se guidata dai doni dello Spirito Santo.
Con la prudenza animata dalla carità il pensiero congiunge l’intellezione, che intende la legge universale, alla sensazione, che coglie la situazione della persona concreta da amare e beneficare. La persona concreta è vista nella luce del pensiero e quindi ancora dell’astratto. Ma questa volta il pensiero, senza lasciare l’astratto del principio morale, raggiunge nel contempo la persona concreta e quindi in tal senso abbandona la sua astrattezza per poter applicare il principio morale nel caso concreto.
Così, grazie alla prudenza, il pensiero da teorico diventa pratico e concretamente efficace nell’operare il bene. Questo è il senso delle parole del Salmo: «beato l’uomo che pensa al debole e al povero» (Sal 40,1). Il bene da pensato diventa realizzato. Ma se prima non fosse stato concepito o pensato astrattamente come principio morale o nell’imperativo del dovere, non avrebbe potuto essere realizzato o calato nel concreto.
Ma non esiste solo la teologia orientata al concreto, ossia la teologia morale. C’è anche la teologia speculativa, dogmatica, sistematica. E qui l’astrazione non ha bisogno di orientarsi al concreto, ossia agli atti umani, ma il pensiero resta nell’orizzonte dell’astratto e si accontenta di esso, perché il suo oggetto – i misteri della fede che toccano l’essenza rivelata di Dio – non è un qualcosa che debba esser messo in pratica, ossia concretizzato, ma il mondo della pura spiritualità, è la verità assoluta ed eterna, semplicemente da contemplare e sempre meglio conoscere.
Certamente, l’oggetto divino, ossia ciò che è inteso dalla teologia speculativa, non è un universale astratto dal particolare materiale, perché gli attributi divini sono puramente spirituali, eppure dobbiamo servirci di concetti, sia pure in un senso analogico, che abbiamo tratto dalla conoscenza delle cose sensibili, e pertanto di concetti astratti.
Utilizzando tali concetti, la teologia speculativa si eleva alla conoscenza di Dio, compreso il Dio Trino, affermando Dio come causa delle perfezioni da essi significate (via causalitatis), come infinitamente al di sopra di quanto con quelle perfezioni concepiamo (via eminentiae), negando che Dio abbia quei limiti nei quali noi concepiamo quelle perfezioni (via negationis), intendendo quelle perfezioni in senso analogico (via analogiae), e come partecipazioni a ciò che Dio è in se stesso (via participationis).
Così, pensando per esempio alla bontà, diciamo che Dio è causa di quella bontà che conosciamo; è infinitamente più buono di quanto pensiamo; non ha i limiti della bontà alla quale siamo abituati a pensare; è buono in modo simile ma anche diverso da come noi concepiamo la bontà; è bontà per essenza, mentre noi siamo capaci di concepire solo una bontà per partecipazione.
È evidente che per fare queste affermazioni occorra un concetto astratto di bontà, il che non impedisce alla Scrittura di rappresentare Dio sotto qualcosa di concreto e addirittura materiale, come il fuoco, la roccia, il vento, l’acqua, la luce. Ma siamo daccapo: è chiaro che anche qui occorrono i rispettivi concetti. Ed ecco di nuovo l’astrazione.
Astrarre, dunque, è un funzione essenziale del pensiero. Ma per i ricercatori della verità e del bene è un’operazione delicata, è una severa disciplina da assumere, è un metodo non facile da usare, che, per quanto spontaneo e naturale sia per la nostra ragione, va imparato ed usato con saggezza e prudenza, perché non è difficile, purtroppo, da una parte disprezzare l’astrazione, per cui si cade nel sensismo e nel materialismo, che conduce in morale all’edonismo e al lassismo, mentre dall’altra parte avviene di astrarre quando non si deve, cadendo nell’errore dell’idealismo, e in una morale soggettivistica.
Infatti l’idealista riduce al suo pensiero, ossia all’astratto, la concreta realtà esterna, con la conseguenza in morale di sostituire soggettivisticamente le sue idee alle istanze, alle leggi ed ai fini oggettivi, che Dio ha assegnato alla natura umana. Ora, sia il disprezzo materialista per l’astrazione, che la sua enfatizzazione idealistica, conducono in fondo in morale allo stesso risultato: alla disobbedienza alla legge morale o per una forma di materializzazione del pensiero nell’etica sensista e nell’abbrutimento della vita morale o per una forma di presuntuosa assolutizzazione gnostica delle proprie idee in una falsa libertà spirituale, che in realtà è la distruzione del proprio io disobbediente a Dio.
Occorre allora abituarsi ad un corretto rapporto fra astratto e concreto, evitando tanto il concretismo meschino quanto l’astrattismo presuntuoso, tanto il sensismo animalesco, quanto l’idealismo gnostico. L’astrazione è funzione dell’intelletto; il concreto è lo sbocco del volere. L’intelletto parte dal concreto ed astrae l’universale. La volontà, considerando l’universalità astratta della legge morale concepita dall’intelletto, la applica nel concreto dell’esistenza.
La teologia speculativa concepisce in modo astratto, ossia concettuale, il fine ultimo della vita umana; la teologia morale, dal canto suo, delinea concettualmente, quindi astrattamente, la natura delle varie virtù. La carità, illuminata dalla fede, conoscenza concettuale, quindi astratta, si orienta a Dio sommo bene, dove l’astratto ricompare non come nostra idea astratta, ma come Astratto ontologico, personale e sussistente ed Assoluto divino, oggetto della visione beatifica.