La pena di morte secondo il Dizionario di teologia morale

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di Gregorio Sinibaldi

Per un lungo periodo di tempo ci si formava alla teologia, anche nei seminari, usando tutta una serie di strumenti che avevano senza dubbio molti pregi e taluni difetti. Ci riferiamo ai Dizionari e ai Lessici di teologia e biblici, che divennero straordinariamente diffusi, anche presso il laicato cattolico più colto, nella prima metà del XX secolo. Ovviamente, anche oggi ne esistono parecchi, ma non credo che abbiano la diffusione e l’impatto di quelli del periodo pre-conciliare, grosso modo dall’Ottocento al Pontificato di Pio XII.

Il limite di questi testi è che, pur comportando in genere una bibliografia utile per ogni lemma, spesso venivano (e vengono) usati come esaustivi: senza bisogno di ricorrere alle fonti, ai padri, allo stesso Magistero ecclesiastico.

In ogni caso, se alcuni dei migliori di questi tomi quasi enciclopedici venissero oggi ristampati, sarebbe un eccellente investimento per ogni famiglia cattolica, acquisirne una copia: si tratta in effetti di piccole enciclopedie portatili, sufficientemente accessibili a tutti.

Tra questi Dizionari, uno all’interno del vasto ambito della morale e dell’etica, spicca per l’autorevolezza degli autori e l’immensa diffusione che ebbe negli anni ‘50-‘60 del secolo scorso. Ci riferiamo al Dizionario di teologia morale, diretto dal cardinale Francesco Roberti (1889-1977), al tempo prefetto della Segnatura Apostolica e dal futuro cardinale Pietro Palazzini (1912-2000), eminente giurista e teologo, e al tempo segretario della Congregazione del Concilio.

Il Dizionario ebbe una prima edizione nel 1955, dunque sotto Pio XII (1939-1958), una seconda edizione nel ’57 sotto lo stesso Pontefice e una terza edizione, quella in nostro possesso, nel marzo del 1961. Quest’ultima dunque sotto l’autorità di Giovanni XXIII, il Papa del Concilio, il quale già dal 1959 iniziò a occuparsi del futuro XXI Concilio generale della cristianità (che si terrà a Roma dal 1962 al 1965).

Quindi l’edizione del testo in nostro possesso gode dell’approvazione esplicita, assolutamente necessaria in queste materie, sia di Pio XII che di Giovanni XXIII (con imprimatur ben in evidenza).

Inoltre, tra i collaboratori del ponderoso tomo figurano notevoli personaggi di primo piano della teologia cattolica del Novecento. Tra essi, padre Cornelio Fabro (1911-1995), mons. Antonio Piolanti (1911-2001), mons. Francesco Spadafora (1913-1997) e il professor Eugenio Zolli, ex rabbino poi convertito al cattolicesimo (1881-1956). Tra i porporati, oltre ai due summenzionati direttori, collaborarono al volume il cardinal Pietro Pavan (1903-1994), il cardinal Pericle Felici (1911-1982) e il cardinal Giovanni Urbani (1900-1969).

L’autorevolezza del Dizionario è dunque assolutamente fuori discussione e chi la mettesse in dubbio sarebbe stolto e insipiente. Le tre edizioni superarono poi i 15.000 libri pubblicati e per un testo non destinato all’uomo della strada si tratta di un’ottima diffusione.

La voce pena di morte si trova alle pagine 961-963 è firmata da due autori, il domenicano Ludovico Bender, docente all’Angelicum e il salesiano Agostino Pugliese, docente alla Lateranense.

Costoro, hanno fatto, in sette brevi paragrafi, una sintesi mirabile della dottrina della Chiesa sul tema in questione.

Anzitutto, secondo il Dizionario la pena di morte non è contro il diritto naturale, come sostenuto da Valdesi, Anabattisti, Quaccheri, pacifisti odierni, etc. “La dottrina tradizionale della Chiesa è che la pena di morte non è contraria alla legge divina, ma neanche è richiesta come necessaria da questa legge: la sua necessità dipende dalle circostanze” (p. 961). Esattamente come dirà il Catechismo del 1992-1997: la pena di morte è legittima in sé, ma può oggi essere evitata dagli Stati viste le nuove possibilità che essi hanno di combattere il crimine. Una parte è dogmatica e non varia, e attiene alla legittimità (essa dunque non può essere negata…); la seconda parte è variabile e contingente, e riguarda la necessità della pena capitale (la quale dipende dalle circostanze storiche).

Gli autori, BenderPugliese, vogliono provare, teoreticamente, la tesi della legittimità, e non si limitano ad enunciarla. Così, scrivono: “La S. Scrittura attribuisce all’autorità civile il diritto di uccidere un delinquente e questo come un diritto che appartiene alla sua competenza naturale (Gen 9,6; Es 21,22ss; Lev 24,17; Deut 19,11; Rom 13,4)” (p. 961). La Bibbia, ispirata da Dio e senza alcun errore, è favorevole alla legittimità della pena massima: chi la revocasse in dubbio allora andrebbe contro la Scrittura…

Una seconda ragione invocata dagli autori a favore della legittimità della pena capitale si deduce dalla necessità della punizione, più o meno grave in base ai crimini. “Non basta dire che l’uomo ha il diritto naturale alla vita [per negare la pena capitale], perché l’uomo ha anche il diritto naturale all’integrità corporale, alla libertà, alla tranquillità dei sensi. Se si esclude ogni bene, al quale l’uomo ha un diritto naturale, le pene giuste sarebbero così ridotte, che della facoltà di punire non resterebbe quasi nulla” (p. 962).

E non è un caso che laddove si è abolita de jure o de facto la pena massima, anche le altre pene tendono a ridursi, fino ad un lassismo generalizzato che ha una conseguenza oggi vistosa e raccapricciante: il moltiplicarsi della violenza, in tutti gli ambiti della società.

Proprio per amore della vita, nostra e altrui, specie dei più deboli che non sanno difendersi da se, la pena di morte appare come un’esigenza etica, ragionevole e fondata.

Infine, “La pena di morte ebbe vigore nello Stato Pontificio [per secoli e secoli…], come vige oggi nello Stato della Città del Vaticano [l’autore scrive nel 1961 ]” (p. 963).

L’11 ottobre Papa Bergoglio ha dichiarato pubblicamente, a proposito della pena capitale, che “anche nello Stato Pontificio si è fatto ricorso a questo estremo e disumano rimedio, trascurando il primato della misericordia sulla giustizia. Assumiamo le responsabilità del passato, e riconosciamo che quei mezzi erano dettati da una mentalità più legalistica che cristiana. La preoccupazione di conservare integri i poteri e le ricchezze materiali aveva portato a sovrastimare il valore della legge, impedendo di andare in profondità nella comprensione del Vangelo” (Avvenire, 12.10.2017).

Nello stesso discorso, pronunciato in occasione dei 25 anni del Catechismo della Chiesa cattolica, Francesco ha usato parole forti: “Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale. È in sé stessa contraria al Vangelo perché viene deciso volontariamente di sopprimere una vita umana che è sempre sacra agli occhi del Creatore”. Inoltre, “è necessario ribadire che, per quanto grave possa essere stato il reato commesso, la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”.

Infine, sempre secondo Francesco, “qui non siamo in presenza di contraddizione alcuna con l’insegnamento del passato”…

Questo, con pacatezza e riflessione, lo valuti il lettore.

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Autore: Libertà e Persona

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