Terremoti e catastrofi: davvero le preghiere sono inutili?

Persone in preghiera davanti la basilica di San Benedetto distrutta dal forte terremoto, Norcia, 30 ottobre 2016. ANSA/FERMO IMMAGINE SKY +++EDITORIAL USE ONLY - NO SALES+++

Una catastrofe dà sempre origine, per fortuna, a importanti iniziative di solidarietà. Aiuti giungono in ogni parte del mondo, grazie soprattutto, alla fitta rete di assistenza messa in piedi dalle organizzazioni laiche e cattoliche, Caritas in testa. Ma non per tutti è sufficiente: c’è anche chi infatti, oltre agli aiuti materiali chiede il sostegno della fede e della preghiera.  Proprio su questi ultimi cala come una mannaia, il sarcastico  e spesso malevolo giudizio degli illuministi “de noantri”  insieme all’accusa di vivere fuori dal tempo, vittime di un passato che il secolo dei “lumi” ha giustamente “rieducato”. Insomma la preghiera sarebbe inutile.  “I terremotati – si sente ripetere – hanno bisogno di soldi non di preghiere”. Ma le cose non stanno cosi. Un tragico evento come un terremoto dovrebbe (il condizionale è d’obbligo!) far riflettere l’uomo sul senso  più profondo della sua vita, sulla sua limitatezza e fragilità,  sul suo stato di  creaturalità,  sulla sua impotenza  di fronte alla violenza di quella natura che  già il poeta chiamava matrigna. Non mancano, purtroppo, anche sacerdoti che predicano “l’inutilità” delle preghiere, figlie, a detta loro, di un devozionismo deleterio per l’uomo, conseguenza di una vetero – chiesa da superare e riformare. Ma la Chiesa, quella vera, ha sempre espresso una  posizione diametralmente opposta. Seguendo l’insegnamento di San Giovanni Paolo II, “nella preghiera si sviluppa quel dialogo con Cristo che ci rende suoi intimi: « Rimanete in me e io in voi » (Gv 15,4). Questa reciprocità è la sostanza stessa, l’anima della vita cristiana ed è condizione di ogni autentica vita pastorale”.  Ma è Gesù stesso a ricordarcelo nella parabola della vedova che scomoda il giudice senza morale, nella quale Egli ci esorta alla preghiera costante. Non c’è nulla che Dio non possa esaudire e per questo Gesù ci sollecita: “Tutte le cose che domanderete in preghiera, se avete fede, le otterrete”. Ed è proprio Gesù che, nel momento di massima necessità, si è messo a pregare pretendendo per i suoi compagni lo stesso nell’Orto degli Ulivi. Che poi sarebbe da capire come una cosa (la preghiera) debba necessariamente escludere l’altra (l’assistenza). La percezione è che ormai serpeggi nel mondo cattolico (anche nel clero!) un certo “ateismo pratico”,  nel quale sembra contare solo l’azione umana. Questa idea marginalizza fino a nullificare l’esperienza divina manifestata dalla sua onnipotenza. Senza rendercene conto abbiamo ribaltato le parole di Gesù, quasi a dire  “Senza di voi Io non posso fare nulla”. E quindi a cosa serve appellarci ad un Dio che conta solamente sulle nostre forze per operare il bene?

Se da un lato, dunque, si chiedono meno novene alla Madonna, dall’altro si invita a portare la speranza agli afflitti, agli emarginati e oggi, ai terremotati. Ma di quale speranza stiamo parlando? Di quella che confida solamente in un abbraccio umano o di quella che ci parla della Misericordia di Dio, della sua bontà e della nostra vita eterna oltre gli affanni di questa terrena?  Noi dovremmo essere, con le nostre parole e i nostri gesti,  testimoni autentici di questa speranza, ma come riuscire nel compito sovrumano di annunciarla senza  appellarci a Colui che l’ha guadagnata per noi? Dobbiamo avere fede, come il grande predicatore Jacques Bossuet ricordava, che “Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini”. Domandiamoci, piuttosto, fino a che punto ci siamo spinti come Popolo di Dio se ci si scandalizza della  richiesta di una preghiera di intercessione per le popolazioni italiane colpite dal terremoto? L’antropocentrizzazione della fede è una deriva che il mondo cattolico ha imparato a conoscere, in primis, con la riforma liturgica avvenuta dopo il Vaticano II e alla quale l’opera di “riforma della riforma” iniziata da Benedetto XVI (sulla linea del suo predecessore) traccia il nuovo cammino da seguire. Per fortuna esistono ancora molti sacerdoti e religiosi che, infischiandosene dei “traguardi” delle avanguardie teologiche, preferiscono mettere al centro Gesù e ripartire da lui. È il caso dei monaci benedettini di Norcia che in un‘intervista a Radio Vaticana, per bocca del vice priore padre Benedetto Nivakoff, hanno testimoniato lo spirito di vera e profonda umiltà cristiana e di grande fede. La ricostruzione è importante come lo sono gli edifici, ma “momenti come questi ci fanno ricordare cosa è più importante – dice padre Nivakoff – La speranza riparte sempre da Cristo, non dalle macerie ma dalle fondamenta spirituali. La vita monastica, come conseguenza anche la vita per tutti, deve essere fondata sul percorso per il paradiso, sul cammino spirituale”.

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