Fedeltà e speranza

camisascaIl 4 novembre 2015 ricorreva il quarantesimo anniversario di sacerdozio di mons. Massimo Camisasca. Il giornalista e scrittore Emilio Bonicelli ha raccolto qui la sua storia.

L’occasione del nostro dialogo è una festa, carica di gratitudine, per i quarant’anni di vita sacerdotale. Massimo Camisasca, nato a Milano il 3 novembre 1946, è stato ordinato sacerdote il 4 novembre 1975, il giorno dopo il suo ventinovesimo compleanno. Oggi è Vescovo della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla. Nel suo studio, presso il palazzo vescovile, ripercorriamo le tappe e il significato di questo cammino di fede.

All’inizio c’è sempre un incontro. Qual è l’incontro da cui è maturata la sua vocazione sacerdotale?
Una pluralità d’incontri, con sacerdoti che hanno affascinato la mia vita. Voglio ricordare, tra gli altri, don Piero Verrini, viceparroco di Leggiuno, il piccolo paese dove ho vissuto gli anni della mia infanzia. Lui mi ha insegnato il cristianesimo come misericordia e come capacità di piegarsi sull’umanità ferita.
Ma l’incontro decisivo è stato certamente quello con don Luigi Giussani che mi ha dato il senso pieno del cristianesimo e dell’esistenza. Tutto quello che in seguito ho vissuto nella Chiesa lo devo a lui. Don Giussani mi ha educato alla vita come apertura, offrendomi la possibilità di inaugurare sempre nuovi orizzonti, in ogni campo. Proprio questa sua caratteristica sento oggi viva e permanente in me: la sua capacità di aprirci sempre all’infinito, all’universo, agli altri, a quella scoperta continua che tutta la vita, e in particolare la vita nella Chiesa, rappresenta.

Al sacerdozio ci si prepara con cura. Anni di studio. Ma poi nell’esperienza concreta che cosa l’ha più stupita, che cosa non si aspettava, che cosa non si sarebbe mai immaginato potesse essere parte della vita sacerdotale?
Il futuro non si può mai veramente immaginare. Lo si può presentire, desiderare, ma non immaginare. Certamente alcuni aspetti della vita sacerdotale già li vivevo da laico. Ad esempio la parola. Sin dai primi anni dell’università sono stato un uomo che ha cercato di esprimere attraverso le parole ciò che rendeva piena e bella la sua vita e ciò che poteva interessare agli altri. La parola ha poi segnato tutta la mia vita, non solo come predicazione (con migliaia di lezioni, conferenze, omelie), ma anche la parola amata nei romanzi e nelle poesie e meditata nella Scrittura, soprattutto nei salmi, nei Vangeli, nelle lettere di san Paolo. Poi pensavo alla vita sacerdotale come a un tempo in cui il sacramento della Chiesa e i sacramenti sarebbero stati al centro. Così è stato, con l’Eucaristia al centro della mia esistenza, non tanto nella mia povera consapevolezza e nella mia poverissima adorazione, quanto comunque nella necessità di ritornare sempre a quella presenza potente, tanto quanto inerme, luminosa, tanto quanto nascosta, silenziosa, eppure ricca di parole. Questo pensavo e prevedevo della vita sacerdotale e in misura sovrabbondante si è realizzato.
Quello che non potevo prevedere è stata la pluralità degli incontri che ho fatto, così come non potevo prevedere la nascita della Fraternità sacerdotale dei missionari di san Carlo Borromeo che è stato un dono immenso di Dio, immeritato, anche se segretamente atteso. Non potevo immaginare che avrei dedicato trent’anni della mia vita all’educazione di giovani verso il sacerdozio. È stato questo l’impegno più continuativo, più forte, più gratificante e più entusiasmante della mia esistenza, perché mi ha permesso di conoscere in profondità, attraverso un lungo ascolto, la vita di centinaia di giovani e di condurli, passo dopo passo, verso il compimento della loro attesa, della loro aspirazione più profonda.

Ha citato la pluralità delle lezioni, delle conferenze, delle omelie, dei discorsi, cui si aggiungono i tanti libri scritti in questi quarant’anni. Non la assale mai il timore di aver seminato invano?
Non ho mai avuto, neppure per un istante, questo pensiero. All’opposto. Se penso alla parabola del seminatore, capisco che Dio semina, come dice il Vangelo, anche su un terreno pieno di sassi e di rovi. Sembrerebbe inutile, invece Dio continua a seminare, anche su questo terreno. Ai sacerdoti che si lamentano dei ragazzi che si allontanano dalla parrocchia dopo la cresima io dico sempre: nessuna parola che avete seminato in loro andrà perduta, ma ritornerà fuori in modo positivo quando e come Dio vorrà. Se la nostra parola cerca di essere eco della parola di Cristo ha sempre una sua fecondità nascosta.

Quarant’anni di sacerdozio vissuti nell’appartenenza al movimento ecclesiale di Comunione e liberazione. Qual è il contributo specifico, la ricchezza portata dal movimento suscitato dal carisma di don Luigi Giussani alla Chiesa oggi?
Il contributo alla Chiesa dato da don Giussani in parte è stato messo in luce negli interventi di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Papa Francesco che lo riguardano, ma in gran parte deve essere ancora studiato ed evidenziato. Posso comunque dire che il contributo dato alla Chiesa da don Giussani è la scoperta e riscoperta del cristianesimo come avvenimento e quindi come incontro tra la nostra persona e la persona di Gesù, in cui si manifesta l’amore del Padre per il mondo. Il carattere di avvenimento toglie ogni intellettualismo e ogni legalismo dal cuore del cristianesimo. Questo avvenimento riguarda sì la persona, ma fa scoprire a ciascuno di noi di essere insieme ad altri. Vi è quindi una necessaria caratteristica comunitaria del cristianesimo. In questo modo don Giussani ha messo in luce non solo che cosa sia il cristianesimo, ma anche come si vive il cristianesimo.
Don Giussani ha poi indicato la statura storica del cristiano nel mondo, sia attraverso la forte sottolineatura del Battesimo e delle caratteristiche dell’uomo nuovo, sia nel coraggio con cui ha vissuto la sua testimonianza di fede. Credo che dobbiamo riscoprire ogni giorno don Giussani, all’interno di circostanze e situazioni che cambiano molto velocemente, ma che aiutano a comprendere tutta l’attualità del suo insegnamento.

All’inizio della sua esperienza sacerdotale è stato responsabile delle relazioni esterne di Cl con il Vaticano. Svolgendo questo compito ha potuto conoscere da vicino san Giovanni Paolo II e l’allora cardinale Ratzinger, poi Benedetto XVI. Come ha inciso sulla sua esperienza l’incontro con queste due grandi personalità cristiane?
In Giovanni Paolo II ho visto il coraggio e la letizia della fede. Sappiamo tutti quanto fosse intelligente e colto, ma anche uomo di preghiera, grande sportivo e umorista. Quello che mi colpiva in lui era la sua serenità, la sua pacatezza, anche nei momenti gravi, la sua capacità di guardare con occhio positivo gli uomini, i suoi collaboratori, senza perdere tempo nei pettegolezzi. Aveva una grande consapevolezza della missione che Dio gli aveva affidato. Quando penso a lui penso a un uomo veramente e completamente affidato nelle braccia di Dio e di sua Madre, la Vergine Maria. Dell’allora cardinale Ratzinger, poi Benedetto XVI, mi colpivano la mitezza e la capacità di vedere le questioni della fede sempre all’interno della storia della Chiesa e dell’evoluzione del pensiero dell’uomo. Sapeva individuare con chiarezza le forze in atto nella storia presente, cercando di valorizzare quelle positive che aprivano e aprono il futuro della Chiesa, e guardava con umiltà alla propria grandezza.

Nell’attuale contesto sociale ed ecclesiale, qual è la ragione del crollo delle vocazioni al sacerdozio e quale percorso educativo ha proposto ai suoi seminaristi per aiutarli a riscoprire il fascino dell’essere sacerdoti?
Le ragioni del crollo delle vocazioni sono molte. Certamente non dobbiamo pensare che Dio chiami meno di un tempo. Dio chiama sempre, siamo noi che non lo ascoltiamo. Oggi ci sono meno giovani, ci sono più famiglie con un solo figlio, e questo fatto determina spesso uno sguardo molto possessivo da parte dei genitori. Viviamo poi in un contesto sociale in cui l’esperienza sacerdotale non è più apprezzata come un tempo. Anche la vita del sacerdote è meno affascinante perché assediata da molti compiti e molti problemi. Se vogliamo spezzare la catena di questa diminuzione delle vocazioni, dobbiamo mostrare vite sacerdotali affascinanti. Questo è reso più difficile, come dicevo, dalla carenza di sacerdoti: i pochi rimasti infatti hanno sulle spalle molti impegni. Dobbiamo allora aiutare i sacerdoti a discernere quali sono gli impegni essenziali e che cosa tralasciare.
Nel cammino educativo al sacerdozio poi è fondamentale mostrare quali sono le ragioni affascinanti di questa vocazione; mostrare che la strada al sacerdozio è una strada di realizzazione piena dell’umano; mostrare che questa realizzazione piena dell’umano avviene non diminuendo la radicalità della vita sacerdotale, ma accettandola completamente. Accettando cioè che vivere vuol dire obbedire, e l’obbedienza più vera avviene dentro l’amicizia; che il distacco dai beni ci aiuta a vivere più liberamente; che la verginità ci aiuta a mo­strare a tutti il significato vero di ogni rapporto affettivo. Nella Fraternità san Carlo è stata poi scelta la vita in comune dei sacerdoti perché essa è una grande scuola, una vera università, per comprendere se stessi, per vivere un cambiamento del proprio temperamento, per offrire i propri doni agli altri e per mostrare a ogni uomo, e in particolare alle famiglie, che è possibile la fedeltà e che la vita insieme per sempre non deve costituire una ragione di paura, ma di speranza, con l’aiuto
di Dio.

Fonte: http://www.sancarlo.org/fem/fedelta-e-speranza

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Autore: Libertà e Persona

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