Come leggere un’opera d’arte

giudizio

di Marcello Giuliano

In occasione della mostra “Dall’oro al cielo”, la Fondazione Adriano Bernareggi il 25 aprile c.a. ha inaugurato, presso il Centro Congressi Giovanni XXIII a Bergamo, la 13ª edizione di Come leggere un’opera d’arte, con il consueto contributo del Prof. Antonio Paolucci.. Il Professore, già sovrintendente alle Belle Arti, prima a Venezia, poi a Verona, Mantova, Firenze e Ministro per i Beni Culturali,  durante il Governo Dini dal 17 maggio 1995 al 17 Maggio 1996, è da anni Direttore dei Musei Vaticani. Le riprese delle precedenti conferenze, tenute in tali eventi, sono disponibili sul sito del Museo Bernareggi http://storiedellarte.com/2013/07/come-leggere-unopera-darte-bergamo-bernareggi.html

 

Il Professor  Paolucci, con aria semplice e dimessa, da Maestro anziano, senza sussiego, con familiarità, tenendo per mano ciascuno degli uditori, con la maestria del solista,

che si dedica ad un’opera di respiro mondiale, ci ha introdotti, ancora, alla contemplazione estasiata della Cappella Sistina, questa volta per contestualizzarne il Giudizio Universale.

paolucci

Il Giudizio Universale di Michelangelo, non primo nella storia dell’arte, ma, certo, assai particolare, non poteva essere meglio illustrato che nell’aula Mons. Oggioni, del Centro Congressi Papa Giovanni XXIII, là, dove, sotto la volta, illuminata da vetrate policrome, campeggia la citazione di Sap 6, 17 «Principio della Sapienza è il desiderio dell’istruzione; la cura dell’istruzione è amore; l’amore è osservanza delle sue leggi».

Proprio la cura del Professore, nell’introdurci a tale Opera, comprendendone il momento storico di composizione, esprimeva il desiderio di conoscere, l’occasione di una ricerca che s’innamora, osservando le leggi della Verità.

Per gli assidui frequentatori dei siti internet, più che delle Chiese, o dei musei, o delle biblioteche, o della natura stessa, è impressionante sapere che uno dei più noti motori di ricerca, -nella versione in lingua italiana-, digitando la voce giudizio universale, pone il Giudizio di M. come prima voce di 695.000. Mentre, digitando la stessa voce in inglese, essa compare prima di 25 milioni. Questo –sottolineava il Professore- per dire a che punto sia ritenuta importante l’opera di quest’artista, tanto che questa ha superato, per notorietà, il tema stesso, tema teologico, ed esistenziale, pur importante, preludendo alla conoscenza del futuro escatologico dell’uomo.

 

Duemilacinquecento metri quadrati di affreschi, quaranta metri di lunghezza, quattordici di lunghezza, ventuno di altezza, al punto più alto. Molte sono le Cappelle e le Chiese di eccezione, ma questa è una, unica, la Cappella della Cristianità, voluta da Papa Sisto IV Della Rovere, e costruita tra il 1475 e il 1481.

Il programma generale originario della decorazione pittorica fu articolato su tre registri, dal basso verso l’alto. Lo zoccolo, con arazzi, opera realizzata da Raffaello, (dalla Pesca miracolosa alla Conversione di Saulo); il secondo ordine con scene del Vecchio Testamento a sinistra, opera del Perugino, Rosselli, Botticelli, Signorelli e, a destra, del Nuovo Testamento, con interventi ancora del Perugino, Botticelli, Rosselli, ma anche del Ghirlandaio, illustrando Mosè e Gesù, i due grandi legislatori. Infine, l’ordine più alto, con la rappresentazione dei pontefici martirizzati.

La decorazione pittorica venne avviata, nella parete dietro l’altare -oggi occupata dal Giudizio- dal Perugino, il quale aveva già lavorato per il Papa nella Cappella della Concezione nell’antica Basilica di San Pietro, in Vaticano, poi distrutta, e che realizzò anche la pala d’altare raffigurante la Vergine Assunta, cui è dedicata la Cappella Sistina, con un preciso significato teologico, ma, ormai, sostituita dal Giudizio.

La volta fu decorata da un cielo stellato di Piermatteo d’Amelia (1445–1508 ca.), seguendo la tradizione medievale, come si può vedere ancora, similmente, in numerose cappelle, ma, in particolare, nella speciale Cappella romanica, decorata da Giotto, la Cappella di Santa Maria della Carità, detta Degli Scrovegni, in Padova, anch’essa con chiaro significato simbolico.

La Cappella Sistina doveva avere le dimensioni del Tempio di Gerusalemme, il Tempio di Salomone, distrutto dai Romani: Lungo 60 cúbiti (40 m), largo 20 (14 m) e alto 30 (21 m), come è detto in 1Re 6, 2.

I pontefici, non paghi della bellezza della Cappella, costretti a riparare una grossa crepa apertasi proprio nella volta, danneggiata irrimediabilmente, vollero potenziarne l’impatto teologico e catechetico. Occorreva un nuovo affresco.

Così le due serie di affreschi, inaugurate il 15 Agosto 1483, per trenta anni restate al coperto del magnifico cielo azzurro del d’Amelia, per volontà di Papa Giulio Della Rovere, nipote di Papa Sisto IV, nella primavera del 1508, data fondamentale per gli studiosi d’arte, conobbero l’ancora  trentatreenne Michelangelo.

Temperamento eccentrico, misantropo, incontentabile, Michelangelo non si sentiva affrescatore, ma scultore. Non voleva accettare. Ma come rifiutare l’invito del Papa, disposto, per quest’opera, a spendere 3.000 ducati d’oro, -quando lo stipendio di un medico non superava i 50 ducati annui? Michelangelo si lasciò vincere e, solo, volle ricoprire in quattro anni millecinquecento metri quadrati, secondo un progetto veramente ambizioso.

Nella parte centrale del soffitto, Michelangelo, coadiuvato dai teologi del Papa, avrebbe  dipinto le scene tratte dalla Genesi. Queste storie terminano con l’Ebbrezza di Noè. Ma per capire il prosieguo della Genesi, con le diverse stirpi, che si originano dai tre figli di Noè, occorre spostare lo sguardo sulle vele e sulle lunette, dove è illustrata la discendenza ebraica fino a Gesù, secondo la lista delle 42 generazioni (quattordici, più quattordici, più quattordici), da Abramo a Giuseppe, delineata dal Vangelo secondo Matteo.

L’analisi simbolica di questi numeri richiederebbe tempo. Il Professore non ha potuto affrontarla, ma se pensiamo ai 60 cúbiti, non possiamo non ricordare i sei giorni della creazione (tema ovviamente presente nella Cappella). I 20 cúbiti (2×10) richiamano due volte la perfezione come i dieci comandamenti dell’antica Legge, e la Nuova e la conclusione di un ciclo. I 30 cúbiti dell’altezza alludono al 3×10, numero particolarmente indicato a significare la trascendenza di Dio. Così le 14 generazioni, riprese tre volte, pari a 7×6=42, significherebbero il ricordo della creazione in sei giorni, sei cicli di sette generazioni ciascuno. Ogni ciclo di generazioni indica i sei giorni più il riposo di Dio: un grande simbolo dell’Antico Testamento. I sette cicli, ripetuti sei volte, cioè fino al giorno della creazione dell’uomo, trovano, infine, compimento in Cristo, modello di ogni creatura ed Egli stesso Creatore con il Padre e lo Spirito.

A lato della fascia centrale, negli spazi delimitati dalle vele e dai pennacchi angolari, si ergono i troni dei dodici Veggenti, Profeti e Sibille.

I sette Profeti, ispirati alla tradizione ebraica, e le cinque Sibille, connesse alla tradizione greca, sono volutamente sullo stesso piano, in condizione parallela, tra paganesimo e cristianesimo.

I Profeti, culminanti nella figura di Isaia, annunciano il regno di Cristo: « 4Egli sarà giudice fra le genti/e sarà arbitro fra molti popoli./Forgeranno le loro spade in vomeri,/le loro lance in falci;/un popolo non alzerà più la spada/contro un altro popolo,/non si eserciteranno più nell’arte della guerra./5Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore» (Is 2, 4-5). Accanto a Isaia la Sibilla Cumana profetizza l’Impero romano, il cui potere è stato ereditato dal papato, che, con Papa Giulio II, rappresenta la cristianità cattolica e latina, giunta all’apice della propria consapevolezza: «L’ultima epoca del responso di Cuma è/giunto; nasce da capo il gran ordine dei secoli./La Vergine ormai torna, i regni di Saturno tornano/già una nuova stirpe scende dall’alto dei cieli./Tu, pura Lucina,  sii propizia al nascituro, per cui/per la prima volta finirà il periodo delle guerre e si/alzerà l’età dell’oro; già il tuo Apollo è sul trono» (Publio Virgilio Marone, Egloga IV, 4-10).

L’A.T anticipa il Nuovo. Ciò che precede anticipa il Cristo, il tempo della Redenzione dal peccato di Adamo, con il quale nel mondo è entrata la morte.

Le corrispondenze tra le coppie simmetriche di riquadri sono esplicitate dalle iscrizioni, tituli, posti nel fregio, secondo l’adagio agostiniano, che vede Dio, ispiratore e autore dei libri dell’uno e dell’altro Testamento, così che il nuovo fosse nascosto nell’antico e l’antico diventasse chiaro nel nuovo.

Da Giacobbe a Giuseppe, gli Antenati di Cristo, inconsapevoli di portare in sé stessi il seme della Vita Nuova, hanno preceduto Maria e il Cristo.

Tutta questa opera, così, è come un catechismo. Ascoltando il Professore, potremmo chiederci perché non abbia applicato a questo capolavoro il titolo di Biblia Pauperum, a buon diritto. Tale titolo, in origine indicava una raccolta di immagini medievali, che rappresentano scene della vita di Gesù, con i corrispondenti tipi profetici, anticipazioni e prefigurazioni della vita del Cristo. Ma, col tempo, l’espressione passò a significare, riduttivamente, appunto una Bibbia dei poveri, intesa come una bibbia per un’epoca in cui molti non sapevano leggere. Ma, se così credessimo, ci sbaglieremmo. Ridurre la Biblia Pauperum ad un intento didascalico mortificherebbe la peculiarità di queste architetture dello spirito, assai complesse nella loro interpretazione; ricche di simbolismi, non immediatamente comprensibili né ai poveri, né ai sapienti, ma solo ai poveri di spirito, illuminati dalla Grazia. Lectio simbolica, ancora una volta, e non solo lettura tecnica o emotiva.

Ma, dice il Professore, se qui ci fermassimo, l’Opera non sarebbe completa e la storia, la storia della salvezza, resterebbe incompiuta. Il credente, varcate le porte della Sistina a che pro cercherebbe e troverebbe le storie dei due Testamenti se non ritrovasse anche il compimento della missione del Cristo e della Chiesa, come della propria vita, per la quale Egli dai Cieli discese. Ecco, allora, il Giudizio. La Resurrezione dei Morti, come recita il Credo.

Il Giudizio è dipinto molti anni dopo il 1512, durante il pontificato di Paolo III Farnese. Erano avvenuti fatti traumatici, con la Riforma Evangelica. Buona parte d’Europa più non è Cattolica. L’Italia devastata da guerre di stranieri e Papa Paolo III chiama ad un nuovo sforzo Michelangelo, quel Michelangelo, che ha abbandonato la sua Firenze, ora dominata dalla monarchia dei Medici, ed è tornato a Roma, simbolo di più grande libertà.

Ancora una volta il cuore travagliato del Maestro accetta l’invito e immagina il Giudizio. Come? Un groviglio di corpi nudi, su cielo azzurro, di un azzurro quasi gelido. Angeli tubanti danno inizio alla risurrezione ed al giudizio, annunciando l’ultima venuta di Cristo e presentano due libri. Uno piccolo, le poche azioni buone degli uomini, ed uno grande, i buoni meriti di Cristo. Su tale punto Cattolici e Protestanti, divisi circa la sola Fide, sola Gratia, sola Scriptura, condividevano la certezza che la salvezza è per i meriti di Cristo e non degli uomini. E mentre i morti escono dalle tombe, riprendendo le forme umane, angeli e domòni combattono, contendendosi le anime, e i salvati sono quasi risucchiati in Paradiso.

Dall’altra parte l’Inferno michelangiolesco ripropone quello Dantesco, che il nostro, anch’egli poeta, ben conosceva: «Caron dimonio, con occhi di bragia/loro accennando, tutte le raccoglie;/batte col remo qualunque s’adagia» (Dante, Divia Commedia I, III, 106). Il demonio batte con il remo le anime riottose al divino volere.

Ma dov’è il cuore dell’affresco? Là, in alto, dove un Cristo atletico e muscoloso, non più seduto in trono, come anche nel tardo medioevo si rappresentava, leva la mano nel classico gesto dell’allocutio, per dire: «Tutto è compiuto». Non c’è più spazio per la misericordia. La Madonna sembra esserne consapevole, lei, che è Mater misericordiae, Virgo clemens, Refugium peccatorum, Consolatrix afflictorum. Pure, sa che non può più niente, come niente ormai può la Chiesa, che, nella persona di San Pietro, restituisce le Chiavi del Regno, già ricevute da Gesù, come illustra, in basso, a destra, l’affresco del Perugino. Quell’affresco, che immortalava il primato di Pietro ora è superato nella sospensione del tempo e della storia. Storia che, però, non può essere dimenticata per il prezzo che è costato al Messia e, allora, in alto, gli angeli presentano in Cielo gli strumenti della passione: la Croce, la Colonna, la corona di Spine.

31 ottobre 1541, vigilia di Ognissanti, all’inaugurazione dell’affresco, -la stessa notte in cui nel 1512 erano stati rivelati gli affreschi della volta-, Papa  Paolo III si inginocchiò e pianse, immaginando il proprio Giudizio, così il Vasari tramanda.

Non tardarono, però, le critiche ai corpi ignudi e così evidentemente materiali. All’uomo forte e sicuro dell’Umanesimo e del primo Rinascimento, esaltato nella volta, subentra una sorta di angoscioso caos, che investe dannati e beati, nella totale incertezza, che domina la nuova epoca.

Morto Michelangelo, a più riprese, i nudi verranno in diversi modi parzialmente ricoperti, in quelle movenze giudicate più inquietanti. Nei restauri definitivi del 1994 vennero rimosse tutte le braghe successive a quelle di epoca cinquecentesca. Queste ultime furono lasciate a testimonianza del periodo storico, che le aveva generate. Meno avrebbero sconcertato i nudi se non fossero stati intesi in senso letterale, ma simbolico. Proprio l’uomo egocentrato dell’umanesimo e del rinascimento iniziava a sentirsi in crisi e, nonostante la sua presunta possanza e bellezza, si scopriva nudo davanti alla vita e davanti a Dio. Un nudo che non è ostentazione oscena, ma povertà, attesa del divino soccorso, che verrà.

Michelangelo, sempre insoddisfatto, massimamente lo è di sé stesso e si ritrae nel San Bartolomeo scuoiato, ove, nella sua pelle, imprime il proprio autoritratto, immortalato in alcui sonetti di sua composizione: «Tal alcun’opre buone,/per l’alma che pur trema,/cela il superchio della propria carne/co’ l’inculta sua cruda e dura scorza» (G 152) e in «Caduto è il frutto e secca è già la scorza,/e quel, già dolce, amaro or par ch’i’ senta» (G 158).

Scrive il Professore, in Avvenire, il 30 Ottobre 2014: «Soffermiamoci su una poesia (nr. 267) degli anni tardi: I’ sto rinchiuso come la midolla / da la sua scorza, qua pover e solo, / come spirto legato in un’ampolla… / … / Dilombato, crepato, infranto e rotto / son già per le fatiche, e l’osteria / è morte, dov’io viv’ e mangio a scotto. / La mia allegrezza’è la malinconia …. È formidabile l’idea del genio che sta compresso come il midollo dentro la scorza dell’albero o come lo spirito nel vetro. E come non vedere nell’uomo spossato dalla fatica immane, dilombato, crepato, infranto e rotto, il commento più efficace all’autoritratto deformato del “Giudizio”?

Quanto a quel verso di vasta desolazione (La mia allegrezza è la malinconia) un verso che potresti dire di Leopardi o di Baudelaire, essa rappresenta come meglio non si potrebbe lo spirito del vecchio Michelangelo quando si avviava a concludere il murale del “Giudizio”. (…). La paura dei Novissimi che angosciava Paolo III toccava anche Michelangelo, il Michelangelo vertiginosamente grande degli anni ultimi, quello che sta fra il “Giudizio”, i murali della Cappella Paolina e la Pietà Rondanini.

Rileggiamo il sonetto celebre, il nr. 285 del 1555, quello che dice: Giunto è già ’l corso della vita mia / Con tempestoso mar, per fragil barca, / al comun porto, ov’a render si varca / conto e ragion d’ogni opra trista e pia/Onde l’affettüosa fantasia / che l’arte mi fece idol e monarca / conosco or ben com’era d’error carca / e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia.

Questi versi sono una confessione, un vero e proprio confiteor. Michelangelo chiede perdono per aver fatto dell’arte il suo Dio e il suo Signore. È la riflessione di un cristiano che nel declinare dei suoi giorni stringe il bilancio della vita affidandosi alla divina misericordia. Ma come è bella e come è doloroso staccarsene, quella «affettuosa fantasia» che ancora occupa i pensieri del Buonarroti e che subito ci riporta alla mente lo splendore lucente, l’eros subliminale degli “Ignudi” della volta della Sistina, dei “Prigioni” per la tomba di Giulio II, del David alto sulla Piazza della Signoria…

Quelle due parole, l’affettuosa fantasia, toccano il cuore come il verso del famoso sonetto indirizzato all’amico Giovanni da Pistoia; verso nel quale un giovane Michelangelo ancora trentenne, descrivendo se stesso in atto di dipingere a faccia in su riverso sulla schiena le figure della volta sistina, dice: e’l pennel sopra il viso tuctavia / mel fa gocciando un ricco pavimento. Mai la gloriosa fatica dell’arte ha avuto una così splendida rappresentazione».

 

Oggi un moderno sistema di illuminazione led e di abbattimento dell’anidride carbonica, prodotta dai numerosi visitatori (6 milioni l’anno), consente di conservare e di offrire al meglio l’Opera immortale, che, sempre, ci attende insieme al caro Professore.

 

 

 

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Autore: Libertà e Persona

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