Tre articoli da leggere tutti d’un fiato

Pubblichiamo tre articoli del neonatologo Carlo Bellieni

Manipolare la vita: rischio più che reale

Abbiamo letto in questi giorni di un sistema che permetterebbe di ottenere cellule staminali da un embrione senza farlo morire. La tecnica è la stessa che si usa per prelevare una cellula dall’embrione, analizzarla e fare una diagnosi genetica pre-impianto. In questo caso invece si tratta di prendere la cellula non per analizzarla ma per conservarla, farla moltiplicare e ottenere popolazioni di cellule atte al trapianto in persone malate. Così riporta l’ultimo numero della rivista Nature communication. Un passo avanti dal punto di vista etico che rispetta l’embrione? Consideriamo i fatti. È vero che l’embrione umano non viene distrutto per prelevare la cellula, ma è anche vero che non sembra essere poi destinato all’impianto e alla nascita, tant’è vero che lo studio è stato condotto su embrioni scongelati appositamente.
Non è escluso inoltre che in futuro si proceda anche all’impianto di un embrione fecondato in vitro, da cui è stata prelevata una cellula, per creare tessuti da trapianto. Bisogna distinguere allora due piani: da un lato non si procede alla distruzione ma dall’altro non appare aver senso impiantarlo dopo una biopsia cui dovrebbe spesso seguire anche un’altra, dato che è prassi andare all’indagine genetica preimpianto prelevando altre due cellule.
Insomma si tratta di embrioni che sembrano avere un futuro poco roseo. E comunque manipolarli, pur con tutte le accortezze, comporta dei rischi.
Basti pensare che anche il tempo passato in coltura si rifletterà sul peso alla nascita che avrà il bambino, come mostra l’ultimo numero di Human reproduction. Entra allora in ballo l’epigenetica, una nuova frontiera che crea tante speranze ma che dà anche preoccupazioni, la branca della scienza che mostra che l’ambiente modifica il modo in cui si esprime il dna di una cellula. E basta poco perché nel dna si attivino dei geni o si silenzino altri sotto l’influsso dell’ambiente esterno, delle sostanze con cui la cellula viene a contatto, addirittura sotto l’influsso della luce; e un impatto come quello che produce l’asportazione di una cellula da un gruppo di otto, quale è l’embrione che viene biopsiato, non è un impatto ambientale indifferente.
Shufaro e Laufel su Fertility e sterility del marzo 2013 spiegano che nonostante l’ottimo profilo iniziale di sicurezza della fecondazione in vitro, «vari report di un’aumentata incidenza di problemi perinatali sull’uomo e l’evidenza ottenuta da esperimenti sull’animale sollevano preoccupazioni che il manifestarsi di anomalie epigenetiche possa essere aumentato come conseguenza della causa stessa dell’infertilità, della stimolazione ovarica e della manipolazione extracorporea di gameti ed embrioni».
Attenzione dunque a facili speranze di un trattamento migliore per gli embrioni umani: non basta che non vengano direttamente distrutti, ma devono sempre godere di un principio assoluto di precauzione. E se questo vale in ogni campo della biologia, dovrebbe valere a maggior ragione per l’uomo.

Bambini in vitro: rischi sulla loro pelle

C’è un grossolano errore che circola sui massmedia: che la Chiesa sia contraria alla fecondazione in vitro (FIV) solo per motivi morali che riguardano un ordine naturale del concepimento. In realtà il contrasto riguarda anche la cura della salute, altra urgenza morale, perché l’uso di queste tecniche espone le donne e i bambini a rischi maggiori che la popolazione generale.
Basta leggere i dati. Ad esempio la rivista Plos One proprio in questo mese riporta uno studio australiano fatto su oltre 5.000 bambini nati da FIV, che mostra un rischio di morte neonatale e di peso alla nascita molto basso più che doppio rispetto alla popolazione generale. Fertility and Sterility del giugno 2012 riporta un’analisi degli studi finora pubblicati da cui si evince un aumento di malformazioni di 1,37 volte nei nati da FIV rispetto alla popolazione generale. Ora nella comunità scientifica si discute sul perché di questa differente riuscita tra concepimento FIV e non-FIV. Può dipendere dal fatto che spesso i parti dopo fecondazione artificiale sono parti multipli, ma per esempio lo studio australiano di cui sopra ha preso in considerazione solo parti singoli trovando le differenze suddette. Può anche dipendere da situazioni preesistenti nei genitori o da alterazioni “epigenetiche” dovute al contatto dell’ambiente non uterino con l’embrione prima dell’impianto. Non è ancora chiaro. Il fatto è che il rischio viene riportato dalla maggior parte delle ricerche sin dal 2002.
E’ vero che alcuni studi tranquillizzano sullo sviluppo a lungo termine dei bambini nati da FIV, ma non si possono trascurare i problemi alla nascita, come insegnano i neonatologi: Annie Janvier sul Journal of Pediatrics del 2011 chiede una maggior regolazione di queste tecniche dato che nel suo reparto di patologia neonatale il 17% dei ricoveri sono gemelli nati da FIV (questa percentuale aumenterebbe aggiungendo i nati da FIV non gemellari), certo più della percentuale dei bambini concepiti in vitro, di solito non superiore al 5%; e non è cosa da poco. Viene da chiedersi se i giornali riportino sempre e correttamente queste notizie, o se facciano sembrare tutto “rose e fiori”, e se le donne e le coppie non siano sviate a rimandare la gravidanza, senza saper bene che anche la medicina poco può contro il passare degli anni.
Certo, i rischi sono “relativi” perché il fatto che le malformazioni siano il 30% in più significa che dal 4% della popolazione generale passano grosso modo al 5% nella popolazione in vitro, e un discorso simile vale per la mortalità (che comunque è già bassa nella popolazione generale): il rischio raddoppia, certo, ma sempre su percentuali basse tuttavia su una popolazione sempre maggiore. Questa preoccupazione porta i ricercatori a sempre nuovi studi per migliorare le tecniche. In gennaio 2014 la rivista Human Reproduction mostrava che peso alla nascita e durata della gravidanza sono influenzati dal tempo trascorso nel terreno di coltura in vitro, e Human Reproduction Update che “ancora si ignora quale sia il mezzo di coltura più efficace per la miglior riuscita della FIV”.
Si sta migliorando; non si poteva attendere che i rischi fossero ancor più minimizzati prima di procedere all’uso umano su vasta scala?

Ecografiche ossessioni

Negli Usa è stato creato un software in grado di ot­tenere una statuetta tridimensionale del piccolo feto che la mamma porta in pancia, a partire dalle eco­grafie effettuate. Costa alcune centinaia di dollari e per­mette di ottenere un souvenir della gravidanza. Strano mondo questo, dato che proprio nello stesso Paese i va­ri gruppi pro-choice insorgono quando le leggi di 10 Stati Usa richiedono a chi vuole abortire di farlo a ra­gion veduta, cioè almeno dopo aver eseguito una sem­plice ecografia al feto per esser certi dell’epoca di gra­vidanza, che possono anche rifiutare di vedere; è vero che occhio non vede cuore non duole (frase comunque smentita nel caso dell’aborto da vari studi di psicolo­gia), ma non è errato pensare che una decisione del ge­nere debba esser davvero informata, cosa che include anche la visione dell’altro piccolo soggetto che sta per essere eliminato.
Ecografie ‘da spettacolo’ ed ecografie temute; troppe ecografie in tanti Paesi rispetto alle richieste dell’Orga­nizzazione Mondiae della Sanità e troppo poche nei Paesi poveri. Le ecografie fetali fanno paura a chi non vuole vedere l’umanità del concepito e quando sono troppe sono un segno di ansia di chi insegna a scartare chi è sotto la perfezione. Gravidanza e parto sono di­ventati un ‘fai-da-te’ cui nessuno educa: non se ne par­la a scuola se non su modelli anatomici come se si trat­tasse di zoologia, non se ne parla in famiglia dato che nessuno vede più nascere fratellini o nipoti.
Basta per calmare l’ansia rendere tabù la gravidanza, rimandarla all’infinito o affidarsi alla medicina che non può garantire nulla circa il buon esito? Un modo ci sarebbe: partire dalla bellezza del rapporto della mamma col bambino appena concepito: aiutare la mamma a far quello che più le viene spontaneo: par­lare al suo bambino, sentire, quando sarà il momen­to, i suoi movimenti veloci e accarezzarlo – magari as­sieme al papà – attraverso il pancione. Non serve u­na statuetta del piccolo feto per incontrarlo e ab­bracciarlo mentalmente: il contatto prenatale tra mamma e feto avviene con le ecografie ma prima an­cora con l’ascolto e con il cuore cui le ragazze (ma an­che i maschi) devono essere educati.

Fonte: Avvenire

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