“Prima di provare a creare qualcosa di nuovo, è di vitale importanza apprezzare ciò che già esiste nel tuo campo.” Non sono le parole di un qualche filosofo, o teologo, ma quelle di un progettista di armi da fuoco, Mikhial Kalashnikov morto lo scorso 23 dicembre all’età di 94 anni. Il suo nome è universalmente conosciuto per aver prodotto il fucile d’assalto più famoso al mondo, il kalashnikov. Un progetto originale quello dell’AK-47 che si sviluppò a partire dallo studio delle principali armi allora in uso nelle forze armate, era il 1945.
Figlio di una famiglia di “kulaki” – contadini ricchi secondo il regime comunista – Kalashnikov aveva 11 anni quando con tutti i suoi fu deportato in Siberia, uno dei fratelli finì in un Gulag. Quel fucile rappresentò il riscatto per Mikhiail, infatti, grazie all’invenzione dell’AK-47 entrò nelle grazie del regime e arrivò addirittura ad essere delegato ai congressi del Partito Comunista sovietico. Questa sua scalata venne vissuta nel più totale riserbo, anche nei confronti dei propri familiari a cui non rivelò mai quelli che definiva “terribili segreti”.
Dopo la sua morte sono arrivate le robuste e convinte condoglianze del Patriarca di Mosca Kirill e molti benpensanti si sono subito scandalizzati. Il Corriere della Sera, giusto per restare in casa nostra, ha scritto che queste condoglianze rappresentano un esempio limpido di “asservimento della religione a un disegno geopolitico di potenza”, specificando che “il Patriarca mette l’arsenale teologico della terza Roma moscovita al servizio dell’arsenale diplomatico militare di Putin.”
Poi, a scombinare un po’ le carte, esce una lettera scritta da Kalashinikov sei mesi prima di morire. “Il mio dolore spirituale è insopportabile. – scrive l’ingegnere russo – Mi faccio sempre la stessa domanda, alla quale non trovo risposta: se il mio mitra ha tolto la vita a così tante persone, significa che anch’io, Mikhail Kalashnikov, 93 anni, figlio di una contadina, cristiano ortodosso, sono colpevole della loro morte, anche se erano nemici?”
La risposta della Chiesa ortodossa, con una nota del portavoce del Patriarca di Mosca, non si è fatta attendere. “La Chiesa ha una posizione molto precisa: se un’arma serve a difendere la patria, la Chiesa appoggia sia i suoi artefici sia i militari che la usano. Lui inventò questo mitra per la difesa del proprio Paese, non perché lo usassero i terroristi dell’Arabia Saudita”. In questo senso deve intendersi la posizione del Patriarca Kirill che nelle sue condoglianze aveva definito Kalashinkov come “esempio di patriottismo”. Parole forti che suonano decisamente scomode alle nostre orecchie abituate a sdolcinate omelie e fervorini buonisti, ma a ben riflettere sono tremendamente realiste.
Nella lettera Kalashnikov mostra di essere profondamente travagliato, riflette sulla battaglia tra bene e male e vede nella Chiesa ortodossa una via per risolvere questa assurda situazione in quanto apporta i “valori sacri di bontà e misericordia”.
“E il Signore mi ha consigliato – scrive – di accostarmi nei miei ultimi anni ai sacramenti di Cristo, a confessarmi e ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo”. La figlia Elena dichiara al quotidiano russo Isveztia che questa lettera non può essere vista come un cambiamento categorico. “Non possiamo dire che mio padre abbia vissuto rigorosamente secondo i comandamenti. Dobbiamo capire cosa è stata quella generazione. Dopo tutto, possiamo parlare di fede in Dio e non credere. Ma si può anche credere senza mai dirlo. Mikhial Kalashnikov – chiude la figlia – non ha mai fatto vedere in superficie quello che sentiva nel profondo”.
La fede è una cosa grande, troppo spesso svenduta al mercatino delle cianfrusaglie, o confusa con i buoni sentimenti. Questa fede, in un modo imperscrutabile, sembra aver premuto sul cuore di Kalashnikov. Il progettista dell’AK-47, figlio di contadini russi, non ha mai dimenticato la sua origine, non l’ha mai barattata con novità qualsiasi. Perchè “prima di provare a creare qualcosa di nuovo, è di vitale importanza apprezzare ciò che già esiste nel tuo campo.” La battaglia nel cuore di ogni uomo non si può vincere con un fucile, ma anche un fucile può essere provvidenziale. (La Voce di Romagna, 15/01/2014)