A volte ritornano

Pochi giorni prima di Natale 11 sacerdoti veneti hanno scritto una lettera che sembra uscita dalla macchina del tempo. Lo stile, infatti, è quello sessantottino in salsa ecclesiale. Ma chi sono questi 11 sacerdoti? 8 li potete trovare anche come firmatari di un altra lettera. Uno scritto che riguardava il caso Englaro. Di seguito un articolo di 5 anni fa che ci rammenta di cosa si tratta…

di Giulio Meotti (Il Foglio, 10 febbraio 2009)

Secondo il quotidiano La Repubblica sono “semplici parroci e preti di frontiera che si ribellano al pensiero unico vaticano che vorrebbe negare a Eluana il diritto di spegnersi serenamente”. Il Messaggero Veneto, il giornale più letto a Udine che fa parte del gruppo Espresso, li chiama idealisticamente “dieci vite spese a fianco degli ultimi”. Sono una parte importante della storia del cattolicesimo nel nord est italiano. Un sacerdote di Udine ci dice che sono “i figli della teologia della liberazione che hanno fatto impazzire Paolo VI e in nome di Gesù si fanno profeti”. Loro sono i dieci preti autori di una lettera pro eutanasia che da molte parti è descritta come “il documento cristiano più significativo sul caso Englaro”. Forse l’enfasi è dovuta al clamore suscitato dalla lettera rispetto a un certo attendismo delle autorità ecclesiali locali sul caso Englaro. Resta il fatto che la loro missiva ai fedeli ha dato voce a un sentire cattolico molto diffuso nella popolazione friulana e non solo.

I dieci preti si dicono vicini alla sofferenza di Beppino Englaro e alla decisione di questo padre di “liberare” sua figlia Eluana, “perché non è possibile obbligare qualcuno a vivere in condizioni estreme”. Sono anche favorevoli a una legge che disciplini il testamento biologico. Ma anche perplessi sull’atteggiamento di coloro che definiscono “omicidio” la scelta “drammatica vissuta nell’ambito di una relazione d’amore”. La loro lettera ha avuto un impatto molto forte sull’opinione pubblica, sulla stampa locale e sulla stessa classe politica friulana. Sono sacerdoti dal grande seguito popolare, dirigono o hanno diretto le riviste ufficiali della chiesa, sono stati collaboratori della classe politica regionale, fanno parte dello star system, scrivono libri, elaborano ogni anno una lettera natalizia ai fedeli e alle parrocchie. I dieci preti esordiscono denunciando “la crescente ostilità nei confronti dell’altro e del diverso”, si esprimono a favore di “una società in cui i diritti umani siano davvero uguali per tutti”, perché è nella “costante ambivalenza di noi esseri umani” che vanno letti “i drammi e le speranze”. Questi sacerdoti, che auspicano “una chiesa con le porte aperte”, non sono liquidabili come un fenomeno marginale. Sono una realtà friulana da almeno vent’anni, rappresentano quattro diocesi e la curia non ha mai avviato procedimenti disciplinari contro di loro.

La lettera dei dieci preti distilla un pensiero cristiano sociale diffuso a livello nazionale. I sacerdoti si rifanno alle “comunità di base” e all’esperienza dei “preti operai” iniziata in Francia nel 1943, quando due sacerdoti, Daniel e Godin, denunciarono la frattura fra la chiesa e le masse popolari nelle periferie. I dieci sono espressione di un cattolicesimo moraleggiante e spirituale che dice di voler “registrare” e “declinare”, che  parla del “compito di elaborare”, che dice di rivolgersi a “categorie di fedeli”. Veniamo allora alla parte sul caso Englaro, in cui i sacerdoti si dichiarano, nei fatti, a favore della “buona morte”. “I diritti fondamentali delle persone riguardano la vita e la morte nel loro intrecciarsi continuo” scrivono i sacerdoti. “Situazioni emblematiche, di cui i mezzi di informazione si sono ampiamente occupati, provocano in noi una riflessione sofferta e rispettosa della storia delle persone e alcuni interrogativi etici laceranti. Il primato oggettivo della ‘verità’, comunque sempre da cercare ed approfondire, è tale da sopprimere la libertà di coscienza personale? E come questa può essere rapportata al  sentire di una società, nel pluralismo delle ispirazioni e delle convinzioni?”.

Si arriva all’annullamento del principio della sacralità della vita. “La sacralità della vita riguarda la sua totalità: la corporeità e la dimensione profonda dell’anima, dello spirito. L’attenzione e la cura alla vita umana inducono ad una prudenza nei confronti della scienza e delle sue tecnologie, a una sorta di timore che non intende limitare la ricerca e la sperimentazione, ma continuamente riporre la questione etica, senza apriorismi e fanatismi. Proprio a motivo di lancinanti interrogativi ci pare di non condividere né l’esultanza nei confronti di decisioni che sostituiscono di fatto il ritardo legislativo riguardo il testamento biologico, né la posizione di chi definisce omicidio una scelta drammatica vissuta nell’ambito di una relazione di amore. Avvertiamo l’esigenza di porsi molto di più in ascolto della vita e di tutte le sue situazioni e per questo di aprirci con rispetto a diverse possibilità”. Poi i sacerdoti giustificano l’eutanasia in quanto liberazione dal dolore, come più volte si è letto per Eluana Englaro. “Come è vero che nessuno dovrebbe sollecitare, tantomeno obbligare qualcuno ad anticipare la propria morte biologica, ci chiediamo se altrettanto è possibile che nessuno sia obbligato a vivere anche in quelle condizioni estreme che inducono a desiderare la morte come una liberazione da una vita considerata impossibile”.

Ma chi sono questi preti? Il più noto è certamente Don Pierluigi Di Piazza, detto anche “dottore in solidarietà”, è il fondatore del centro Balducci di Rugliano, intitolato al frate degli scolopi. Con lo scoppio della guerra nei Balcani, Di Piazza ha trasformato la sua canonica di Zugliano in un centro di prima accoglienza per i profughi che arrivavano nella regione. E’ autore di molti libri e quando viene a Udine a presentare i suoi saggi, fa sempre il pienone al teatro di Udine. E’ chiamato a dialogare accanto al filosofo nicciano Massimo Cacciari. Il suo centro ha ospitato un convegno dal titolo “Eutanasia? L’etica e la buone morte”. Tra gli oratori c’era, guarda caso, Alberto De Fanti, l’ormai famoso neurologo di Eluana, designato dal padre della donna, che con lui ha combattuto per consegnarla alla morte per disidratazione. E poi ancora Maria Di Chio, vicepresidente nazionale di “Libera Uscita”, associazione per la depenalizzazione dell’eutanasia, il teologo Giovanni Franzoni autore de “La morte condivisa”, l’astrofisica Margherita Hack, componente del comitato di presidenza dell’Unione atei e agnostici razionalisti, e il pastore e teologo valdese Paolo Ricca, estensore di un progetto di legge sulla depenalizzazione dell’eutanasia. Tutti riconoscono a Di Piazza un grande carisma, è lettore di poesie in pubblico, ispira spettacoli, è legato al sindaco di Udine Furio Honsell, ex rettore universitario e anche lui attivo dalla parte di Beppino Englaro. “Al liceo, dove insegnava, tutti pendono ancora dalle sue labbra, insegnanti e studenti” ci racconta un suo ex collega. Dopo gli studi al Seminario di Udine, il pasoliniano Di Piazza ha conseguito, nel 1973, la licenza in Teologia all’Università San Tommaso d’Aquino di Roma. Insegnante di religione dal 1973, ordinato sacerdote nel 1975, dice di essere impegnato nella diffusione della cultura della pace, della non violenza e della solidarietà. Il suo Centro abbina a una concreta ospitalità a decine di ospiti che necessitano di sostegno e accoglienza, un’intensa attività di politiche culturali. L’Università di Udine gli ha conferito una laurea honoris causa e di tanto in tanto Di Piazza organizza strani eventi multiculturali, come la volta in cui ha fatto una seduta di yoga con tanto di tappetini per i fedeli. Di Piazza ha il privilegio di scrivere un editoriale ogni domenica sul quotidiano più letto del Friuli, il Messaggero Veneto.

L’ex salesiano Don Federico Schiavon opera da anni all’interno dello storico campo rom udinese di via Monte Sei Busi. Don Franco Saccavini è il parroco di San Domenico a Udine, “ha ideato una messa inventata e la comunione la distribuisce con fantasia” racconta un sacerdote udinese. Don Giacomo Tolot, parroco di Vallenoncello, ha 68 anni ed è un celebre esponente del mondo pacifista, animatore delle manifestazioni davanti alla base americana di Aviano. Don Piergiorgio Rigolo, 64 anni, è cappellano del carcere di Pordenone, noto come il “prete dei galeotti”. Don Alessandro Paradisi è stato parroco del santuario Madonna delle Grazie di Pordenone fino a marzo 2008, ha 66 anni, monaco benedettino è stato destinato al santuario di Montenero dove è stato eletto superiore della comunità di Vallombrosa.

Andrea Bellavite, prete e giornalista, è l’ex direttore della “Voce Isontina”, il settimanale della diocesi, nonché candidato sindaco di Gorizia nel 2007 sostenuto da cinque liste di sinistra. Bellavite insegnava anche dogmatica in seminario ed è stato uno stretto collaboratore dell’ex assessore regionale alla cultura nella giunta Illy, Roberto Antonaz. Don Alberto De Nadai, 76 anni, è il “prete dei diseredati”, ha seguito per tutta la vita tossicodipendenti e carcerati, un altro prete dice che “De Nadai vive una condizione ideale di pauperismo in nome di un cristianesimo tutto spostato su una dimensione sociale”. Don Luigi Fontanot, in passato parroco a Villesse e Staranzano, è attualmente sacerdote a Fiumicello e si è sempre distinto per l’attenzione ai deboli. Poi c’è don Mario Vatta, il più noto sacerdote triestino, quasi un’istituzione in città. Fondatore della Comunità di San Martino al Campo, si occupa da decenni di emarginati.

Il giorno prima della morte di Eluana Englaro, don Di Piazza ha scritto un editoriale dal titolo “Rendere più umane le situazioni di sofferenza”: “Ogni persona merita di essere presa per mano e di essere accompagnata nella vita e nella morte, nessuna di essere lasciata sola e abbandonata”. In un fondo ad agosto, lo stesso sacerdote parlava di come Gesù può liberarci “da una religione, da una teologia, da una chiesa che rifiutano di immischiarsi con i sentimenti, le angosce, gli stati di alienazione, le scissioni dell’anima e che vorrebbero continuare a rimanere dentro la torre d’avorio di dottrine e liturgie staccate dalla vita”. Il caso Englaro è anche la storia e la cultura di questo pezzo di cattolicesimo italiano.

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