Dal Giusnaturalismo al giusfunambolismo (II parte)

Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo di Ilaria Pisa.
La prima parte è disponibile al seguente link: https://www.libertaepersona.org/wordpress/2012/11/dal-giunaturalismo-al-giusfunambolismo-i-parte/

Il diritto naturale non esce in buona salute dalle pagine della Corte, che indossa la maschera di Creonte contro Antigone: «la concezione della vita come oggetto di tutela…in termini di ‘sommo bene’…è percorsa da forti aneliti giusnaturalistici, ma è destinata a cedere il passo al raffronto con il diritto positivo».
Tenetevi forte: «al momento stesso in cui l’ordinamento giuridico riconosce alla madre il diritto di abortire, sia pur nei limiti e nei casi previsti dalla legge, si palesa come incontestabile e irredimibile il sacrificio del “diritto” del feto a venire alla luce, in funzione della tutela non soltanto del diritto alla procreazione cosciente e responsabile…ma dello stesso diritto alla salute fisica o anche soltanto psichica della madre». Ecco, l’hanno detto: la vita del feto non è, stricto sensu, un diritto, perché il bambino nel ventre materno difetta di «una comprovata dimensione di alterità soggettiva» (e qui i giudici richiamano anche la nota, benché ancipite, giurisprudenza della Corte di Strasburgo e, in particolare, l’ultima sentenza in materia di PMA). La possibilità legale dell’aborto – talvolta la penna dei giudici sembra avere ritegno a chiamarlo diritto – è «riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di rappresentante-rappresentato, ma di includente-incluso». Un po’ come le scatole cinesi, se ho ben capito. Occorre commentare?

Dunque il nascituro non è un soggetto, anzi, a scorrere la sentenza si legge persino che non partecipa neppure della “natura umana” (!). È quindi in gioco un solo diritto: quello della madre alla procreazione cosciente e responsabile, la cui lesione può eventualmente creare, per “propagazione intersoggettiva” (così si esprime la Corte), una pretesa risarcitoria anche in capo al bambino, una volta nato. Potrebbe questa pretesa rivolgersi anche contro la madre, “colpevole” di aver proseguito la gravidanza nonostante la malformazione? I giudici negano recisamente, com’è giusto, ma negano anche apoditticamente, ché se portassero il ragionamento alle estreme, coerenti conseguenze, dovrebbero riconoscere possibile anche questo assurdo. La madre, invece, non dovrà mai risarcire il figlio per la sua “vita imperfetta”, perché ogni sua scelta – mortifera o no, libera o no – compiuta “in solitudine” (sic!) sarà presa «presuntivamente per il meglio». Oracolo.

Se il concepito non è un soggetto, può però essere oggetto (di tutela giuridica). Mi riesce onestamente difficile pensare che l’ordinamento, secondo l’interpretazione della Suprema Corte, voglia davvero accordare tutela ad una creatura cui non riconosce neppure il diritto alla vita; ma per i giudici l’aporia non sussiste. «La situazione soggettiva tutelata è il diritto alla salute… chi nasce malato per via di un fatto lesivo ingiusto occorsogli durante il concepimento non fa, pertanto, valere un diritto alla vita né un diritto a nascere sano né tantomeno un diritto a non nascere. Fa valere la lesione della sua salute… oggetto della pretesa e della tutela risarcitoria è, pertanto… il perdurante e irredimibile stato di infermità. Non la nascita non sana. O la non nascita». C’è indubbiamente del vero in queste parole – un diritto alla “nascita sana” è palese aberrazione, un diritto a “non nascere” è dadaismo giuridico – ma colpisce che il “fatto lesivo ingiusto” lamentato sia stata la negligenza diagnostica di un medico che, di fatto, ha salvato “per sbaglio” una vita umana! E non credo serva essere giuristi, per rendersi conto che tra un diritto alla salute talmente onnicomprensivo da far ritenere intrinsecamente “infelice” l’handicappato, ed un presunto diritto alla nascita sana, non corra poi una grossa differenza. Indirettamente, la Cassazione stessa lo ammette quando afferma, sul piano del nesso causale tra illecito del medico e danno, «la equiparazione quoad effecta tra le fattispecie dell’errore medico che non abbia evitato l’handicap evitabile…ovvero che abbia cagionato tale handicap…e l’errore medico che non ha evitato…la nascita malformata (evitabile, senza l’errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della gestante derivante da una espressa disposizione di legge)».

Proseguendo su questa linea di ragionamento, per frenare “fughe in avanti” care al dottor Mengele la Corte è costretta ad equilibrismi giuridici: «il diritto vantato dal minore non è affatto volto alla sua soppressione “ora per allora” (ricordate le ipotesi di aborto “postnatale”?) …in attuazione di una ipotetica quanto inconcepibile eugenetica postnatale, ma alla riparazione di una condizione di pregiudizio» in cui vanno alleviate «sofferenze e infermità, talora prevalenti sul valore della vita stessa». Nelle ultime parole, ecco l’ennesimo tributo alla “volontà di potenza”. Ma l’intrinseca scivolosità di questi discorsi, autocefali e dichiaratamente secessionisti rispetto alla gloriosa (e razionale) tradizione del diritto naturale, perseguita l’estensore fino alle ultime pagine della sentenza: «non è a discorrersi…di non meritevolezza di una vita handicappata, ma di una vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto…il dovuto importo risarcitorio, senza mediazioni di terzi», posizione che può trovarci d’accordo. Ma leggiamo il seguito: «non coglie dunque nel segno la ulteriore critica…che nega ogni legittimazione ad agire al minore in nome di un preteso rispetto della sua dignità sull’assunto per cui qualificare la nascita in termini di pregiudizio costituirebbe una mancanza di rispetto alla dignità del minore…tale concezione della dignità umana [è] dichiaratamente ostile al soggettivismo della modernità…e funzionale ad un’idea…di diritti del genere umano come tali opponibili allo stesso individuo onde assoggettarlo ad obblighi verso questa generica qualità umana che lo trascende», il che equivale a liquidare il diritto naturale e il dato empirico della natura umana come obsolete superstizioni hegeliane.

La lettura di simili sentenze è illuminante, perché certi discorsi – che deliberatamente accantonano l’etica, perché assumono la legge positiva a totem – si commentano da sé. Troverei tuttavia onesto ed elegante che i giudici ammettessero apertis verbis l’ispirazione a filoni di pensiero ben precisi e a teorie tutt’altro che neutrali: così, potremmo tutti alzar la guardia del senso critico di fronte a pronunciamenti che si pretendono universali ma che non lo sono, perché il giudice ha da tempo rinunciato ad essere bouche de la loi, per farsi piuttosto bouche de la doxa.

Fonte: http://www.campariedemaistre.com/2012/10/dal-giusnaturalismo-al-giusfunambolismo.html

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Un commento su “Dal Giusnaturalismo al giusfunambolismo (II parte)”

  1. Mi congratulo vivamente con la dottoranda Ilaria Pisa e plaudo all’ottima e lucida analisi giuridica proposta.
    Complimenti e ad majora!
    L’Italia ha bisogno di giuristi di tal fatta.

    Fabio Adernò, canonista

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