Usa, sindrome da Napoleone?

Grattacapi da superpotenza. Il prezzo che uno Stato deve pagare alla supremazia mondiale è innanzitutto un dubbio amletico: essere o non essere i do­minatori assoluti del pianeta? Com­portarsi da imperatori o fungere da Stato guida per la costruzione di un ordine internazionale più condivi­so? Gli Usa nei panni di Amleto. Sembra questa l’immagine sugge­rita da John Ikenberry nel libro Il di­lemma dell’egemone. Gli Stati Uni­ti tra ordine liberale e tentazione im­periale ( Vita e Pensiero, pagine 358, euro 20).

Docente di politica e affa­ri internazionali alla Princeton U­niversity, tra i massimi analisti mon­diali, Ikenberry vede gli Usa a un bi­vio delicato. Nel corso della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno assicu­rato al mondo un ordine liberale. Ma dopo l’11 settembre sembrano aver imboccato l’altra strada: l’«im­perialismo ».

Professor Ikenberry, perché è così preoccupato? «All’ombra della guerra al terrori­smo si sta affermando una visione neoimperiale, nella quale gli Stati Uniti si arrogano il ruolo globale di determinare le minacce, usare la forza e amministrare la giustizia. Ma la guerra al terrorismo è stata fino­ra un fallimento: con l’intervento preventivo in Iraq si è persa l’op­portunità di costruire un sistema di collaborazione con gli altri Paesi. La tentazione di confondere guerra in Iraq e guerra al terrorismo era trop­po grande. Ma l’amministrazione Bush la sta pagando in credibilità».

Ma l’«imperialismo» degli Usa è na­to con Bush? «No. In ogni era storica, gli Stati U­niti hanno mostrato il desiderio di rigettare i trattati, violare le regole, ignorare gli alleati e usare la forza militare da soli. Anche l’ammini­strazione Clinton non attese l’Onu per bombardare l’Iraq nel 1998 o la Serbia nel 1999. Ma molti osserva­tori vedono l’unilateralismo Usa di oggi come qualcosa di molto più ra­dicale: non una decisione politica ad hoc e occasionale, ma un nuovo orientamento strategico». Dopo l’11 settembre, però, il terro­rismo fa paura. Si continua a te­mere che stati dispotici possano produrre armi di distruzione di massa e metterle nelle mani dei ter­roristi… «L’amministrazione Bush ha eleva­to la minaccia delle armi di distru­zione di massa, senza investire il proprio potere nel far rispettare gli impegni di non proliferazione. Una politica americana che lascia gli Sta­ti Uniti a decidere quali Stati rap­presentino delle minacce porterà a un impoverimento dei meccanismi multilaterali. Così Stati che non stanno violando alcuna regola in­ternazionale possono ugualmente essere obiettivo dalla forza ameri­cana. E poi niente fermerà gli altri Paesi dal fare lo stesso: gli Usa vo­gliono che la dottrina dell’azione preventiva sia messa in atto dal Pakistan, o dalla Cina, o dalla Rus­sia? ».

Non crede che gli Usa siano stati la­sciati soli nella lotta al terrorismo? «Il mondo ha visto Washington compiere passi determinati per combattere il terrorismo, ma l’opi­nione prevalente è che gli Stati Uni­ti sembrano pronti ad usare il pro­prio potere per inseguire terroristi e regimi malevoli e non per costruire un ordine mondiale più stabile e pa­cifico. E sull’Iraq non hanno voluto ascoltare le ragioni dell’Europa. La guerra afgana e quella irachena so­no state sostenute in parte dai nuo­vi fondamentalisti per restaurare la paura del potere americano».

In che senso? «I nuovi fondamentalisti hanno fat­to proprio il consiglio di Machia­velli: ‘Dal momento che l’amore e la paura possono difficilmente coe­sistere, se dobbiamo scegliere tra u­no dei due, è molto più sicuro esse­re temuti che amati’. Ma la paura è una strategia pericolosa e distrutti­va. Non vi è nessuna prova persua­siva che l’effetto dimostrativo della guerra in Iraq stia funzionando con la Corea del Nord, l’Iran o altri Stati problematici. Il risultato più proba­bile è che questi regimi continue­ranno a cercare e a possedere armi nucleari, in modo da creare una cer­ta deterrenza nei confronti di una possibile invasione americana».

La Cina o la Russia di Putin non hanno sfidato apertamente gli Usa, ma possono essere considerate u­na minaccia? «La Cina non rappresenta un mon­do a sé, come l’Urss al tempo della Guerra fredda, ma è inserita nel si­stema economico mondiale. Non è un nemico, ci sono comuni interes­si economici. Dal punto di vista po­litico non viene considerata un pe­ricolo. Ma si è persa l’occasione per integrarla in un sistema democrati­co che garantisca i diritti umani. Preoccupa la Russia perché detiene risorse fondamentali come gas na­turale e petrolio».

Eppure negli ultimi tempi la situa­zione sembra migliorare in Iraq, meno in Afghanistan… «È vero, l’Iraq è molto più stabile di quanto lo fosse prima. Ma questo non vuol dire che sia vicina una so­luzione politica, la riconciliazione è ancora lontana. In Afghanistan c’è il problema di garantire i confini con il Pakistan: ci vorranno ancora de­cenni di sforzi delle Nazioni Unite per darle finalmente stabilità. Quan­to alla questione israelo-palestine­se la strada è lunga ma il ruolo de­gli Usa è quello di continuare a far pressione su entrambe le parti per favorire il compromesso. Annapolis è stato solo un primo passo».

Nel 2008 gli Usa andranno alle ele­zioni. Che cosa attende il prossimo presidente? «Dovrà lavorare per restaurare l’im­magine degli Usa. Sul piatto ci sono le questioni ambientali, come il ri­scaldamento globale, e i diritti u­mani anche nel caso di Guantana­mo. Con l’Europa sarà difficile ri­tornare alla sintonia di un tempo. Confido però molto nei candidati democratici. Gli Stati Uniti dovreb­bero rinvigorire le vecchie strategie: dopo la seconda guerra mondiale riuscirono a combinare il proprio potere con altri Paesi democratici, aiutando a creare democrazia e al­tre istituzioni. Tutti gli ordini impe­riali, da Carlo V a Luigi XIV, a Napo­leone, vennero abbattuti quando cercarono di imporre un ordine coercitivo sugli altri. Oggi gli obiet­tivi imperiali dell’America sono molto più limitati, ma con una gran­de strategia imperiale si corre il ri­schio che la storia si ripeta».

«In ogni era storica gli Stati Uniti hanno mostrato il desiderio di rigettare i trattati, violare le regole, ignorare gli alleati e usare la forza militare da soli» «Il prossimo Presidente dovrà lavorare per restaurare l’immagine del Paese. Con l’Europa sarà difficile ritornare alla sintonia di un tempo» Avvenire, 2 gennaio 2008

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Autore: Libertà e Persona

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