Non la stoffa, ma il desiderio. Un gioioso mendicante.

 

Il romanzo è l’arte dell’inventiva letteraria con cui uno scrittore racconta una storia che coinvolge più protagonisti, descrivendone, di pagina in pagina, l’evoluzione dei fatti. https://www.libertaepersona.org/wordpress/wp-includes/js/tinymce/plugins/wordpress/img/trans.gifLa dimensione creativa è necessaria se si vuole rifuggire dalla cronaca e dal genere della biografia necessariamente più attenta ai dati storici e geografici. L’artificio creativo narrativo consente di uscire dal tempo e rendere una vicenda, oltre che brillante, anche contemporanea al lettore. Tanto più se il romanzo si colloca in un passato lontano e ruota attorno alla figura di un santo. Un santo è un uomo la cui posizione sulla vita, la cui piena radicale dedizione a Dio e al prossimo è, in realtà, ciò che ciascuno desidererebbe essere. Non fare. Semplicemente essere.

Nel romanzo di L. Whol “ Il gioioso mendicante”(pag.390, euro 11, edizione Bur Rizzoli), questa dinamica narrativa è salvaguardata dalla straordinaria figura di Ruggero, conte di Vandria, Cavaliere del Re Federico. E’ lui, il protagonista. È lui l’artificio di fantasia che consente a De Whol di non cadere in una biografia ,pur conservando la fedeltà alla storia proiettandola dentro la contemporaneità di ciascuno. Ruggero è il personaggio sul quale il lettore può riconoscersi nelle sue debolezze e nelle sue attese deluse. Nel suo peccato e nella sua inquietudine. La sua tristezza è simile alla mia che leggo. Ruggero è l’uomo comune. Non è il Santo. E’ l’opportunista, il vanitoso, l’avido. La sua vita è, sin dall’inizio, dal primo incontro una mendicanza. Non chiede tanto denaro, quanto un Castello, eredità di una nobiltà di famiglia da inseguire sempre, come certe felicità. Un castello di sabbia si rivelerà. Una speranza vana quella per cui vive. Un idolo, un Dio falso per il
quale bruciare l’incenso della sua gioventù, dei suoi talenti, di un bene possibile per spargere il male odore di un’esistenza ad inseguire un male banale quanto la polvere portata dal vento. E’, tuttavia, l’uomo che ha il coraggio di dire a se stesso, prima ancora che agli altri che è infelice e accoglie l’ipotesi di una vita nuova, nel riconoscimento, amaro, ma autenticamente sincero, di non avere “la stoffa per farsi frate”. Gli pare di non avere la stoffa del Santo. Eppure, lo desidera essere. Scopre che il suo cuore in realtà vuole questo. Non altro. La sua inconsistente esistenza, improvvisamente denudata da tutte le false presunzioni, viene salvata dal fascino di chi ha un ideale per cui dare la vita.

In un dialogo di drammatica bellezza con l’imperatore Federico II che ha servito e stimato per larga parte della sua vita, giudica la grandezza di un uomo non nella sapienza furba di chi è abile a conseguire il potere, non nell’astuzia di chi precede e prevede le mosse dell’altro, non nel cercare di cadere sempre in piedi, ma nell’ideale per cui morire. Che poi significa, nell’ideale per cui vivere. Il martire cristiano è grande perché nel suo morire risiede il senso del suo vivere. Per la prima volta, intuisce con stupore la grandezza del cristianesimo fino ad allora conosciuto come un groviglio di potere.

Proprio nella stagione della vita più umiliante e povera Ruggero presagisce la gioia di un’altra ricchezza, o meglio, della vera e sola ricchezza. Servo dei potenti, mendicante triste delle briciole che cadono dalla loro tavola, come ogni Cavaliere fedele attende fiducioso la ricompensa. Il Castello di Vandria sarà suo. La realtà delle cose sarà diversa. Piena di rimpianto, ma liberante. Non ha più niente. Nemmeno l’idolo. Finalmente è libero di mendicare ciò che desidera. Povero di ogni vanità, diviene questuante non più dei servi, ma del Padrone, l’unico, che lo può colmare della felicità autentica.

L’incontro con Francesco nell’età dell’entusiasmo e dell’avventura giovanile costituisce una memoria sempre viva che si riaccende nell’incontro con Chiara e nel dialogo con il Sultano. Francesco si rivela ai suoi occhi come l’uomo più coraggioso e un crociato più valoroso di Goffredo.

In Francesco, Ruggero riconosce l’ideale che affascina, pudicamente, il suo cuore. Non la conquista di terre, onori e riconoscimenti, ma quella povertà che, sola, è capace di rendere ricchi.

Il titolo del romanzo si riferisce senza dubbio a Francesco, “giullare e ballerino; mendicante e trovatore, monaco, narratore di parabole, forse un santo: quell’uomo era infinito” (pag. 227). Eppure quella di mendicante sembra la categoria più adeguata a definire Ruggero, mendicante amaro e triste fin quando elemosina un’immagine di sé. Alla fine della vita, mendicante lieto di una Gloria più grande. In lui, il lettore mette a nudo se stesso e i propri idoli. De Whol costringe chi legge a non rimanere estatici per la santità di Francesco, ma a mettersi in moto per elemosinare la vera gioia. Anche GesùCristo è, in fondo, un mendicante. Un povero assetato del cuore dell’uomo e del suo destino.

Lo scrittore tedesco contestualizza l’esistenza fascinosa di Francesco nello scenario storico di una chiesa schiacciata dal peso del potere temporale e di un impero corroso dall’avidità e dalla vanità. Sono i Santi che risanano la storia. Non i potenti. Sono i Santi che rinnovano il mondo. Non la sapienza.Ruggero intuisce questo. E questo basta.

 

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