Intervista sulla “Rivoluzione psichedelica”

Venticinque milionesimi di grammo, e sei in viaggio per più di dieci ore. Il tempo di una trasferta in auto da Firenze a Reggio Calabria. Con una differenza: un trip offre paesaggi migliori della realtà. Anzi, fuori dalla realtà. Ma quando il viaggio finisce, si sa, sono dolori. Perché l’LSD, sintesi del meno noto fungo allucinogeno peyote, è una droga micidiale, dagli effetti devastanti. Ciononostante, sono tantissimi, tra gli artisti, musicisti e attori, ad esserci cascati. Una sequela di vittime purtroppo impressionante e risaputa. Decisamente meno nota, invece, è la storia dell’LSD e di come questa droga micidiale sia stata scoperta per poi, nel giro di pochi anni, tramutarsi in spaventosa tendenza. Leggi tutto “Intervista sulla “Rivoluzione psichedelica””

Intervista sulla Sindone. Parla la studiosa Emanuela Marinelli


Il suo è un curriculum di quelli che si fanno ricordare: laurea in Scienze naturali, collaborazioni con “La Sapienza”, diploma di Catechista specializzato, corsi tenuti presso il Centro Romano di Sindonologia e la Libera Università Maria SS.ma Assunta, una decina di libri, innumerevoli collaborazioni con riviste ed un numero impressionante di articoli. Emanuela Marinelli, fra i massimi studiosi della Sindone in Italia e non solo, è in pensione da qualche giorno, ma il suo interesse per la celebre reliquia, dopo una vita di studio, rimane comprensibilmente intatto.
E’ grazie allo studio di gente come lei che è sorta, da qualche decennio, la sindonologia.
Ed è con grande disponibilità che accetta di concederci una preziosa intervista.

Dottoressa Marinelli, che cosa ha acceso la sua curiosità per la Sindone? Dove e com’è nata la sua passione per il celebre sudario? Leggi tutto “Intervista sulla Sindone. Parla la studiosa Emanuela Marinelli”

Intervista sul giornalismo. Parla Massimo Pandolfi

Lo conobbi nella fredda Bolzano nel novembre 2009 alla conferenza cui partecipai, per la prima volta, da relatore. Il primo intervento fu il suo e confesso che la pacatezza e la disinvoltura con le quali intrattenne il pubblico per almeno una ventina di minuti mi furono di grande aiuto, giacché mi diedero il tempo di stemperare, almeno in parte, la mia ansia di esordiente. Del resto, Massimo Pandolfi, giornalista, scrittore nonché caporedattore del quinto quotidiano d’Italia – il Resto del Carlino – è tutto tranne che un dilettante. Classe 1965, originario delle Marche ma romagnolo d’adozione, ha all’attivo già sei libri di cui uno, L’inguaribile voglia di vivere ("la storia di nove persone che pur nella malattia o nella disabilità affrontano la realtà così come è stata loro donata)", è stato lo spunto, a partire dal titolo, per la nascita di una fortunata realtà pro-life sorta con lo scopo di difendere l’intangibilità della vita umana e di favorire iniziative di sostegno concreto a malati, disabili, anziani e persone sole. Niente male per un giornalista, tanto più in tempi nei quali, a scrivere su quotidiani, si passa spesso per pennivendoli. Ma la caratteristica principale di Pandolfi, prima ancora della concretezza, è un’altra, ed è ancora più speciale: l’umiltà. Lui infatti è uno che non solo, nonostante la non poca strada percorsa, non si sente arrivato e non assume atteggiamenti altezzosi ("ti prego, dammi del tu", fu la prima cosa che mi disse), ma che non si sottrae mai al dialogo; con Riccardo Girardi, suo amico carissimo ma con opinioni spesso agli antipodi, ha persino aperto un blog – "(in)quieto vivere"- sul quale, per più di un anno, ha discusso, senza paure, limiti o preconcetti. In anni di giornalismo militarizzato se non da trincea, converrete, non è poco. Ecco perché ritrovarci a discutere con "Pando", come lo chiamano alcuni amici, è davvero un piacere.

Pandolfi, da piccolo – come racconta nel suo sito – lei sognava di fare il telecronista. Oggi è Caporedattore del Resto del Carlino, scrive libri e promuove iniziative di volontariato: un bel salto di qualità rispetto alle aspirazioni d’un tempo, non crede? "Mi ritengo un uomo fortunato, perché riesco a fare il lavoro che sognavo da piccolo. A volte comporta rinunce e sacrifici, certo,ma quando son giù di morale penso a tutti coloro che hanno mille sogni nel cassetto e hanno quasi sempre dovuto lasciarli lì, in quel cassetto pieno di ragnatele che io, invece, ho avuto la fortuna e forse un po’ la forza di aprire. Una conquista, questa, che mi da la carica, anche quando sono stanco".

Quali sono, secondo lei, i virus che in questi anni infettano maggiormente il mondo del giornalismo italiano? E’ davvero a rischio, come sentiamo spesso ripetere, la libertà di stampa? "Se la libertà di stampa è davvero in crisi non lo è a per colpa di qualche temutissimo dittatore mediatico italiano, ma per la crisi economica che a volte costringe a commistioni troppo pericolose fra pubblicità ed informazione. Faccio un esempio: le grandi aziende di modo sono da sempre fra i massimi clienti pubblicitari dei mass media: avete mai letto di una recensione che un vestito primavera-estate di x o y è brutto da morire? Io no. Il virus del giornalismo italiano è poi quello del "copia e incolla". Raramente, purtroppo, si vede e si racconta. Ci sono troppi passaggi, troppe mediazioni".

E col temutissimo "bavaglio", come la mettiamo? "La mettiamo benissimo, nel senso che non c’è nessun bavaglio. Vi sembra normale pubblicare su un giornale le smorfie e gli amplessi di un uomo politico con la sua donna? A me sembra "guardoneria" bella e buona. I sindacati dei giornalisti, anzi il sindacato unico dei giornalisti, da sempre iper politicizzato, non sa far altro che strillare contri i referenti politici, spesso di centro destra, che non ama. A me fa più paura un altro bavaglio. Faccio un esempio banale: per la legge sulla privacy e sui minori, se io voglio pubblicare la foto di una scolaresca, devo farmi pubblicare la liberatoria da tutti i genitori. E mi pare una follia".

Giornalisticamente parlando, quali sono i maestri ai quali si ispira? "Tante persone mi hanno insegnato moltissimo, così come tante persone continuano a farlo ancora oggi. Faccio i nomi di due grandi giornalisti che ho avuto l’onore di avere come direttori: Italo Cucci e Vittorio Feltri. Italo, un caro amico, quasi un secondo papà per il sottoscritto, mi ha insegnato e mi insegna ancora oggi a stupirmi della realtà, ad abbracciare la realtà, a non vivere ancora a un computer o a delle agenzie. L’entusiasmo e la passione di Cucci per il bello è contagiosa. Poi Feltri. Viene considerato un giornalista partigiano e un po’ killer. Quando l’ho avuto come direttore aveva un intuito eccezionale. E non gliene fregava nulla se la notizia x o y potesse dare fastidio al partito Caio o al partito Sempronio. Sono certo che uno come lui spopolerebbe anche se dirigesse l’Unità. Per un motivo molto semplice: è bravo, è un fuoriclasse" .

In un suo articolo ha scritto che, paradossalmente, in Italia l’unico che non può parlare è proprio lui, il Premier, pena lo scatto di aggressioni e il lancio di accuse e talora pure di souvenir meneghini. Conferma, da giornalista, questa analisi controcorrente? "Assolutamente sì. Nel 2004 scrissi anche un libro ("Inchiostro rosso: le vere veline dell’era Berlusconi”) nel quale spiegai, numeri alla mano, come la stragrande maggioranza dei giornalisti rema contro Berlusconi. E non mi si venga a dire che sono malato di berlusconismo: se vuole la verità, le confesso che il Cavaliere un po’ mi ha stancato".

Lei si occupa spesso di attualità e più volte ha affrontato il tema dell’alcolismo giovanile. Una volta si è in buona sostanza pronunciato a favore dell’"ergastolo" della patente per chi uccide da ubriaco, mentre altre ha invitato alla prudenza, ad esempio in ordine al totale divieto di assunzione di alcolici da parte dei neopatentati. Non le sembrano, almeno a prima vista, due posizioni contraddittorie, l’una estremamente severa e l’altra, se non permissiva, quanto meno assai cauta? "Non credo, penso anzi che siano coerenti. L’alcol non è un male assoluto. Se io e lei andiamo a cena, condividiamo una bella serata, ci gustiamo una bistecca e un buon bicchiere di vino, cosa facciamo di male? Nulla. Ecco perché mi sembra sbagliato demonizzare l’alcol e voler mettere questo divieto assoluto, questa tolleranza zero per cui se un neopatentato guida con un tasso alcolico di 0,1 gli tolgono la patente. E’ esagerato. Contemporaneamente, però, bisogna essere chiari su un altro punto. Faccio un esempio. Nel ravennate, recentemente, a una persona è state tolga la patenta per guida in stato di ebbrezza per l’ottava volta, e fra qualche mese tornerà a guidare. Finora è andata bene. Ma se un giorno andasse male, cioè se questa persona dovesse ammazzare qualcuno? Perché, parliamoci chiaro, è evidente che il signore in questione guida sempre in stato di ebbrezza se ben otto volte è stato sorpreso dai vigili in queste condizioni. Io ho la patente da 27 anni e non ho mai avuto un controllo con l’alcoltest. Di fronte a casi simili, togliamo la patente a vita: questa persona va aiutata, ma dovrà andare in giro a piedi, in bici, in tram, in taxi. E’così grave? A me sembra di no".

Ci parli del progetto "L’inguaribile voglia di vivere". Come si è passati dal libro all’Associazione? Quali le iniziative realizzate e quali quelle in cantiere? "Ho fatto quasi cento incontri in giro per l’Italia e nel 90% dei casi non sono state toccate e fuga. No, sono nate delle relazioni, amicizie, condivisioni. E’ nato un percorso, quasi naturale, che ci ha portato a creare il club "L’inguaribile voglia di vivere", che è un’associazione che ha principalmente due scopi. Anzitutto trasmettere un messaggio culturale di vita, di amore, di speranza. Perché ciò che vogliamo urlare, con il sorriso fra le labbra, è che c’è sempre una strada che può portare a dare un significato alla propria vita, anche quando una persona è gravemente malata o disabile. A volte capita che non vedi la strada, che non la trovi per via della nebbia che ha negli occhi e nel cuore. Compito di una società civile e compito di uomini veri è aiutare chiunque a trovare questa strada. Lo ripeto: esiste sempre! Noi vogliamo essere delle torce umane che aiutano ad eliminare questa nebbia. Non abbiamo una ricetta: ci giochiamo tutto con la nostra umanità. Il secondo obbiettivo dell’Associazione è prestare aiuto concretamente a persone malate o in difficoltà ed aiutarle a realizzare i loro sogni: quest’estate abbiamo manato per due mesi al mare Patrizia, una disabile romagnola che da 17 anni accarezzava questo desiderio".

E’ vero che il suo interesse pro-life ha subito un’impennata con la vicenda di Eluana Englaro?"La vicenda di Eluana Englaro non poteva lasciarmi indifferente. Mi ha provocato come uomo, come giornalista, come cattolico. E torno alla nebbia di prima: anche la vita di Eluana aveva un significato; c’era una strada. Purtroppo non siamo stati capaci di aiutare suo padre a trovarla, questa strada. Egli è stato consigliato forse da troppi finti amici che cercano, come va di moda oggi, la scorciatoia. E cioè: ogni desiderio deve diventare un diritto. Ma se una persona dice non vuole più vivere se si dovesse trovare in determinate condizioni, lo Stato che fa, mette un timbro e diventa notaio freddo e implacabile? No, no. Questo non è umano. Io accendo la torcia e cerco fino all’ultimo la strada che può portare questa persona disperata a trovare un senso alla vita. Sia che sia Eluana, che forse non era più cosciente, sia che sia un altro malato, sia che sia un disperato".

Che idea si è fatto del rifiuto di Napolitano di firmare il decreto legge "salva Eluana" motivato con ragioni di mancata urgenza, dal momento che il Presidente, in altri occasioni, convalidò senza fiatare decreti legge verosimilmente meno urgenti, quale, ad esempio, quello risalente al maggio 2006 sulle "Disposizioni urgenti in materia di installazione su particolari veicoli di strisce retroriflettenti"? "Inutile girarci attorno: quello di Eluana Englaro è stato un omicidio legalizzato. Omicidio perché si è fatta morire una persona. Legalizzato perché dei giudici hanno detto che si poteva far morire. E Napolitano, in questo caso, ha messo il timbro presidenziale su questo omicidio legalizzato".

Tempo addietro, in compagnia di una delegazione composta, tra gli altri, dall’on. Palmieri, dal dott. Mario Melazzini e dal cantante Ron, ha consegnato al Quirinale 24.684 firme per chiedere alle Regioni di attivare i fondi già stanziati per i malati di Sla, per le loro famiglie e in generale per tutti coloro che diventano disabili a causa di malattie invalidanti. L’iniziativa ha prodotto esiti? "Si è no. Sì nel senso che l’opinione pubblica, rispetto al passato, si è sensibilizzata a queste problematiche. No perché nel concreto queste persone in difficoltà e i loro familiari continuano a ricevere dallo Stato soprattutto umiliazioni e schiaffi".

Senza troppi giri di parole e senza risparmiare stoccate alla venerata Legge 194/’78, nei suoi articoli ha più volte denunciato l’aborto di massa. Immagino concorderà con le parole di Madre Teresa che, ritirando il Nobel per la pace, l’11 Dicembre 1979, definì l’aborto "il più grande distruttore di pace". "Oggi va di moda giocare con le parole. Stravolgiamo il significato delle parole stesse magari per non stare troppo male, per sentirci meno cattivi. Concordo con Madre Teresa di Calcutta: l’aborto è il male assoluto di ieri e di oggi. Oggi e domani ci stiamo accanendo e ci accaniremo sui disabili, sui malati e sui vecchietti. Ma è la stessa roba. Se non ci rendiamo conto dell’unicità straordinaria di ogni essere umano, sia che sia un feto o che sia un novantenne con mille acciacchi, continueremo ad andare alla deriva".

In che termini, a parer suo, il giornalismo può contribuire alla causa pro-life? "Richiamando al vero significato delle parole, non prendendo per oro colato ciò che certe macchine da guerra dell’informazione come i Radicali fanno diventare verità, quando invece si tratta di fandonie. Cerchiamo di conoscere meglio le questioni delle quali ci occupiamo".

Quali consigli, per concludere, si sentirebbe di dare a chi sogna di diventare giornalista? "Come ho già detto, l’importante è appassionarsi alla realtà e cercar di conoscerla da vicino. Oggi abbiamo un difetto: siamo tutti iper informati ma manca la conoscenza. Sappiamo cioè in teoria un po’ di tutto, ma nella pratica sappiamo poco o nulla. Questo vuoto di conoscenza può essere ripianato solo con l’esperienza. Per questo è importante, per un giornalista, non avere paura di sporcarsi le mani: ci si metta in gioco. Si sbaglierà, ci si correggerà, ma poi si sarà più veri, più umani".

Intervista sulla politica giovane. Parla l’europarlamentare Lara Comi

Alla sua età, spesso, si è “bamboccioni“, come direbbe l’ex Ministro dell’Economia; si cerca cioè un lavoro scontrandosi simultaneamente con le difficoltà della recessione economica e con l’inguaribile pigrizia di chi, in fondo, sa che alle proprie spalle ci son sempre, inossidabili, mamma e papà. Lei, invece, siede già nel Parlamento Europeo, coordina i giovani eurodeputati del PPE e vanta, secondo VOTEWATCH, un ritmo considerevole di presenze in aula: 96.49 % e 100% in commissione. Dando così del filo da torcere, quanto a stacanovismo, a molte sue colleghe, a partire dall’enfant prodige del Pd, Debora Serracchiani. E confermando le aspettative di Renato Brunetta, che non nasconde di stravedere per lei. Ciononostante, almeno i primi tempi, Lara Comi li ha passati a dare a chiunque le chiedesse ragione della sua ascesa europea “una brutta notizia” , vale a dire la sua totale estraneità al mondo delle veline e dei provini. Sono difatti in tanti quelli ammaliati dal suo fascino che si chiedono come sia possibile che una donna, per giunta così giovane, sia approdata ai piani alti della politica armata – incredibile ma vero – dell’unica dote che realmente conta: il merito. Ma la giovane europarlamentare, evidentemente allergica alle malelingue, tira dritto per la sua strada e, nelle vesti di Vicepresidente della Commissione mercato interno e protezione dei consumatori e di Membro della Commissione industria, energia e ricerca, fa di tutto per mettere a frutto le sue conoscenze di bocconiana doc. E, ovviamente, per continuare a imparare.

On. Comi, lei è diventata europarlamentare ad appena ventisei anni: a quell’età Alcide De Gasperi, uno dei padri nobili della storia politica italiana ed europea, era ancora un giornalista, e il capo del suo partito, Silvio Berlusconi, praticamente uno sconosciuto. Sono loro ad essersi affermati tardi politicamente oppure è lei ad essere precoce? “Credo che i tempi della politica siano cambiati; in passato il cursus honorum iniziava nelle sezioni dei partiti, strumento di formazione e di informazione, determinando certamente una maggior ” disciplina ” ma anche un’uniformità d’ idee. Oggi la sede dell’impegno politico non è più la sezione, ma la società civile, dove la passione politica può esprimersi nelle associazioni di volontariato, nei circoli, nelle fondazioni o nei tanti think tank che nascono. Devo anche dire che la mia formazione politica , relativamente precoce sui banchi del Liceo e proseguita da coordinatore F.I. giovani Lombardia, è avvenuta negli anni in cui , dopo l’esperienza storica di Mani Pulite e della nascita di nuovi movimenti politici, si avvertiva l’esigenza di un rinnovamento non solo in termini di strutture, ma di linguaggi, di relazione, di approcci. Berlusconi credo, sia riuscito a intercettare e a rispondere a queste domande. Dalla militanza al protagonismo : questo slogan credo possa fotografarne il passaggio”.

E’ stata eletta al Parlamento europeo con 63.158 preferenze – comprese , ha dichiarato, quelle di alcuni elettori di sinistra – nella circoscrizione nord-ovest: un successo clamoroso, tanto più, mi passi il termine, per una esordiente. Ma come ha fatto? Si è clonata decine di volte di volte fino ad invadere Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta? E’ stata aiutata dal Cavaliere in persona oppure ha fatto come la sua prima maestra politica, Maristella Gelmini, che ha dichiarato di aver condotto le proprie prime campagne elettorali passando “cascina per cascina“? “Il Presidente Berlusconi è stato prodigo di consigli e di suggerimenti, ricordandomi di rimanere sempre me stessa. Del Ministro Gelmini ho ammirato la determinazione, la volontà messa a disposizione di una causa giusta, e soprattutto la convinzione che la politica si fa tra la gente, ascoltando, avvicinandosi ai suoi problemi. Così ho fatto, girando,coinvolgendo soprattutto i giovani, e quanti volevano volti nuovi nei quali credere e dare fiducia . Il mio impegno è proprio rivolto a non deludere queste aspettative”.

Per Bismarck è la dottrina del possibile, per De Gasperi il realizzare e per Voltaire l’arte di mentire a proposito. E per Lara Comi, invece, che cos’è la politica? “Al di là delle definizioni da Lei citate, ho sempre apprezzato due posizioni che sono state per me illuminanti e che hanno incrociato il sistema di valori trasmessomi dai miei genitori. Quella di Max Weber secondo il quale l’orizzonte in cui deve muoversi il politico è la vocatio (Beruf), vocazione come capacità di trasformazione e promozione di nuovi valori, uno scopo razionalmente organizzato e fondato sulla conoscenza della realtà. Io credo nella Politica come Passione , come senso di responsabilità , come lungimiranza L’altra convinzione che ha animato il mio impegno politico è quella di Papa Ratzinger : la politica al servizio del bene comune e ispirata dalla verità morale. Ciascuno di noi nella vita di pubblico servizio, credo debba essere impegnato a servire il bene degli altri nella società, a livello locale, nazionale e internazionale. Sono convinta che l’impegno politico non si qualifichi, se non mettendolo al servizio di una “causa” e quindi facendo della responsabilità, nei confronti appunto di questa causa, la guida determinante dell’azione. Così sto imparando io, così intendo la politica: lo sforzo di realizzare il bene comune, la valorizzazione costante del mio territorio, vicino alla mia gente , per dare anima a idee e progetti, passione e realtà, coraggio e partecipazione per rilanciare la nostra Italia in Europa. Ed io come tanti voglio crederci. La passione per un cammino che sento mio e che voglio condividere con quanti mi hanno dato fiducia e soprattutto con i giovani. Fare politica è questo. E’ incontro con l’altro e va vissuto, oggi più che mai, come servizio”.

In un articolo pubblicato sul quotidiano di Vittorio Feltri, lei ha denunciato, ricordando il crollo del Muro di Berlino, la situazione drammatica di quei paesi “per cui il Muro non è ancora crollato […] come la Bielorussia” (Il Giornale 14/11/2009, p. 12). Come ha interpretato, allora, le parole del Premier quando, giusto pochi giorni dopo il suo articolo, ha lodato il plebiscitario sostegno elettorale di cui gode Alexander Lukashenko, già definito dall’amministrazione americana “l’ultimo dittatore” europeo? Errore oppure strategia politica? “Intanto, nonostante le critiche, il Presidente Lukashenko ha un consenso di ferro essenzialmente per due ragioni: la prima è che appartiene a quel mondo contadino che è stato la base del potere comunista nel Paese, e in secondo luogo perché non si piegò alle privatizzazioni selvagge degli anni Novanta, difendendo con le unghie il vecchio modello statalista. Questo gli ha permesso di incassare una serie di dividendi economici positivi, nel tentativo di smarcarsi dalla pesante tutela russa. Strategicamente Silvio Berlusconi è stato il primo leader occidentale da 15 anni a Minsk, non è andato in missione in Bielorussia solo per questioni economiche ma soprattutto per sancire un riavvicinamento del Paese alla comunità internazionale. L’Italia sta giocando, infatti, un ruolo chiave anche nel contribuire al disgelo dei rapporti tra Unione Europea e Bielorussia. In questa prospettiva si comprende che quella del Presidente Berlusconi è stata una sagace iniziativa politico/diplomatica Anche l’Italia ha registrato una crescita rispetto all’anno precedente, ma in proporzioni decisamente basse, ovvero pari all’1,1%. Regina d’Europa e traino della ripresa economica nell’area euro è la Germania, con un invidiabile tasso del +3,7% rispetto all’anno precedente. C’è stato un diluvio universale e il governo ha fatto bene a diffondere fiducia e ottimismo perché questa crisi, è stato dimostrato, ha, anche, grande origine nel fattore psicologico. Una convinzione che lo stesso premier ha confermato portando l’esempio dei dipendenti pubblici che, pur non essendo “toccati direttamente” dal rallentamento economico, hanno modificato i propri comportamenti Un’indagine fatta su 3,5 milioni d’ impiegati pubblici italiani, ha dimostrato come anche chi non rischia il proprio posto di lavoro o chi abbia visto un aumento del proprio stipendio grazie alla riduzione dei costi e all’aumento del potere d’acquisto, abbia deciso di non cambiare l’auto soltanto per la paura di una crisi che non può toccarlo direttamente”.

In Europa i decessi annuali per suicidio – oltre 58.000 – sono più numerosi alla somma di quelli dovuti a incidenti stradali (50.700) e omicidi (5350). Per non parlare degli aborti – uno ogni 11 secondi – e di un correlato inverno demografico che mai, a detta del sociologo Ben Wattenberg, il nostro continente aveva attraversato dai tempi, fortunatamente remoti, della peste nera. Le sembra così campata per aria la tesi di chi ritiene la crisi economica diretta ed inevitabile conseguenza di una crisi di altro genere, soprattutto etica e morale? “Ho letto questa estate “Homo oeconomicus: crisi etica e antropologica” di Flavia Barberi Un testo che propone un’economia per l’uomo e tenta d’ ipotizzare le sfide per il futuro. Credo che l’analisi delle dinamiche finanziare e le successive ripercussioni etiche e morali abbiano condizionato i comportamenti sociali dell’uomo mettendo in discussione i fondamenti dell’antropologia e dell’etica. Ciò che doveva essere uno strumento – la proprietà, la ricchezza, la finanza – è divenuto principio e fine degli sforzi, misura unica e indiscussa delle azioni. La responsabilità degli attori economici ha lasciato spazio alla speculazione, al guadagno facile, all’arricchimento fraudolento, spesso mascherati da un’efficienza “di comodo” del mercato. Credo che occorra proporre una nuova economia, con le sue regole, i suoi limiti, i suoi strumenti. Ripartire dalla persona deve essere la parola d’ordine. Persona è innanzi tutto relazionalità: ripartire da essa, quindi, significa superare l’isolamento individualistico e aprire la possibilità di un incontro autentico con gli altri. Umanizzare l’economia è un compito arduo: ma se è vero che non basta un singolo elemento per modificare il sistema in cui è inserito, è anche vero che un micro-sistema, inteso come porzione seppur piccola del macro-sistema d’origine, può invece portare germi di cambiamento. Perciò, va superata la dicotomia tra individuo e Stato: bisogna piuttosto puntare sui corpi intermedi della società civile, su tutto ciò che si trova nel mezzo tra l’isolamento del singolo e il conformismo della massa, e che può aggregare le persone in vista del bene comune”.

In tanti, specie tra gli euroscettici, sostengono che l’Europa politica, al di là dei proclami, altro non sia che un’immensa ragnatela burocratica fenomenale quando si pronuncia sui mazzi di asparagi o sulla massima curvatura del cetriolo ma a dir poco lacunosa quando si tratta di fare sul serio. Nel corso della sua esperienza a Bruxelles, che pregi e che limiti ha riscontrato nelle istituzioni europee? “Parto da un’affermazione di fondo : l’Europa, a mio avviso deve diventare una realtà concreta , una realtà per cui valga la pena battersi per ridare a una generazione le ragioni per mettere su casa e famiglia, per mettere al mondo dei figli, per combattere la perdita delle proprie radici e della propria identità. Durante la campagna elettorale ho percepito l’immagine dell’Europa come un’istituzione un po’ fredda e distante dai reali problemi. Eppure su 100 leggi che il Parlamento italiano approva, 70 hanno origine da direttive della Ue. Il Parlamento europeo non può essere una cassa di risonanza dei conflitti e delle polemiche politiche che si svolgono nei singoli Paesi e per essi nei singoli Parlamenti nazionali, né può essere una sorta d’ istanza d’appello nei confronti di decisioni dei Parlamenti nazionali e di comportamenti dei governi nazionali. L’Unione europea non può essere concepita come tribunale in cui dirimere le controversie nazionali, ma deve invece essere un volano di pace e di sviluppo, un progetto politico ,quindi, a disposizione delle comunità nazionali e di un sentire europeo. Il grande limite che ho riscontrato e che mi auguro diventi una sfida, riguarda la partecipazione attiva delle cittadine e dei cittadini all’interno di questa costruzione, la comprensione di un’Europa che, da unione economica e monetaria, si avvii a divenire sempre più politica. Passiamo ora alla politica nazionale”.

Da mesi i giornali non fanno che parlare del divorzio, in casa Pdl, tra il Presidente della Camera Berlusconi. Eppure Fini, già nel lontano 1994 ebbe a criticare pesantemente il Cavaliere, dandogli dell'”inesperto” (La Repubblica, 8/4/1994). Sei anni fa Oriana Fallaci definì l’ex leader di An “capace di tutto”, “gelido calcolatore”, “un furbone” che “dirige un partito che si definisce di Destra e gioca a tennis con la Sinistra”e che farebbe meglio a presentarsi “come capolista dell’Ulivo”. E pare che poco prima di morire, persino Almirante, il primo a credere in Fini, abbia confidato a Ciarrapico queste parole:”Peppino, io di Fini non mi fido” (Cfr. Corriere della Sera, 17/8/2010). Non sarà che Fini, in realtà, è sempre stato un’altra persona rispetto a quella, carismatica e idealista, che tutti, elettori in primis, credevano fosse? “Non mi appassionano le querelles estive, né posso condividere la domanda retorica che mi rivolge, che suona essere un giudizio sulla questione Futuro e Libertà-Fini / PDL Berlusconi. Un partito è, innanzitutto, un’idea. Un’idea, quella di Popolo della Libertà, che è il fondamento del nostro stare insieme. Un’idea di libertà. Un partito è un’idea che si fa progetto. Il Popolo della Libertà è stata la prima forza politica a comprendere che è terminata l’era delle deleghe in bianco da parte dell’elettorato, a capire sin dalla sua fondazione, dieci anni fa, che occorreva dare una risposta positiva all’ansia di riforma degli italiani. Che non bastavano le formule del vecchio politichese, ma che occorreva passare alla politica dei fatti, prosciugare la palude in cui le istituzioni si erano, da troppi anni, impantanate. Dibattere, progettare, scegliere: un modo per stare insieme.. Ma altre sedi, altri luoghi, altri momenti da “convivere” dobbiamo saper creare, per rafforzare i motivi del nostro stare insieme, per scambiare e confrontare le nostre idee, le nostre storie, i nostri progetti e le nostre realizzazioni. Mi auguro che prevalga il buon senso , che si rispetti il mandato elettorale ricevuto e che si realizzino le aspettative di coloro che , e sono davvero tanti, hanno creduto in noi”.

Intervista alla scoperta della realtà delle famiglie numerose

Riportiamo una breve intervista che Libertà e Persona ha fatto ai coniugi Spitaleri, che sono i coordinatori regionali per il Trentino Alto Adige (nonché membri del Consiglio Nazionale) dell’Associazione Famiglie Numerose. Molto importante è sottolineare come sia la coppia ad assumere l’incarico, e non la singola persona: la condivisione è infatti vista come un valore fondamentale, il punto di partenza in ogni dimensione della vita quotidiana.

Per prima cosa, ci potreste spiegare brevemente che cos’è l’Associazione Nazionale Famiglie Numerose e quali requisiti bisogna avere per entrare a farne parte?

L’Associazione è nata dall’esigenza pratica di alcune famiglie numerose, che si sentivano discriminate nella vita di tutti i giorni. Come, per esempio, quando si viene additati per strada, oppure ci si sente rivolgere − con aria di commiserazione − la domanda: “Ma sono tutti vostri?”. La gente è piena di pregiudizi… Da qui è sorta l’idea di fondare l’Associazione Nazionale Famiglie Numerose: dal desiderio di trovarsi con persone che condividono gli stessi valori, tra cui quello fondamentale di apertura alla vita.
Il fine che la nostra Associazione si propone è quello di dimostrare che avere famiglie numerose non solo è una realtà possibile, ma è anche una cosa molto bella e che va sostenuta.
Il primo passo per aderire è riconoscersi nella Carta dei valori della nostra Associazione. In secondo luogo è necessario avere dai quattro figli – naturali o adottivi − in su. In realtà nelle altre Associazioni europee il numero minimo di figli richiesti è fissato a tre, e di conseguenza anche noi finiamo con l’accettare anche le iscrizioni di famiglie composte da cinque membri. Però nell’idea originale di fissare il numero discriminante di figli a quattro, c’era la considerazione prettamente pratica per cui chi ha tre figli può girare con una normale macchina famigliare da cinque persone, mentre chi ne ha quattro è inevitabilmente costretto ad acquistare una macchina di grosse dimensioni, che comporta uno sforzo economico maggiore.

Quali sono le principali azioni che svolge l’Associazione Nazionale Famiglie Numerose?

La prima e più importante azione è quella di creare amicizia fra le famiglie. Da questa base, poi, deriva la voglia di incontrarsi per confrontarsi sulle difficoltà e per sostenersi a vicenda.

Inoltre l’Associazione cerca di promuovere in Italia delle leggi pro-famiglia. Nel nostro Paese, purtroppo, gli unici interventi che si compiono in favore delle famiglie sono di tipo assistenzialistico, quindi attraverso un’azione a posteriori. Invece il punto da cui partire è la famiglia come soggetto, cercando non di penalizzarla, bensì di favorirla.

In Italia quante sono le famiglie iscritte alla vostra Associazione? E in Trentino Alto Adige?

A livello nazionale si sono superate proprio in questi giorni le 10.000 famiglie iscritte, con una media di otto persone per famiglia.
In Trentino Alto Adige, invece, le adesioni si attestano attorno alle 250 famiglie.

Quali sono i principali campi d’intervento in cui si esplica il lavoro dell’Associazione?

Il campo d’azione fondamentale è quello della promozione, a livello culturale, di un’apertura verso la vita e la famiglia.
La conseguenza di tale cambiamento culturale dovrebbe concretizzarsi, in seguito, in un’azione legislativa a favore delle famiglie. Infatti, in Italia sono in vigore moltissime leggi che penalizzano chi ha più di un figlio. Un esempio molto banale, ma significativo, è quello dei contatori di luce, gas e acqua potabile. Nel consumo elettrico, nella fattispecie, il primo scaglione di consumo a tariffa sociale si attesta a 900 kW. Se si supera questo tetto, il costo del kW/h passa indicativamente dai 5,70 centesimi ad un massimo di 20,10 centesimi. La stessa logica vale per le tariffe del gas e dell’acqua potabile. Queste, infatti, sono le tariffe nate con l’austerity imposta dal governo italiano negli anni Settanta per il risparmio di energia, e dietro a tali politiche c’è l’idea, di per sé corretta, che “chi spreca, paga”. L’unico problema di questo sistema vigente è che non tiene affatto conto di quante persone ci sono dietro ad un contatore. Perché è vero che magari una singola famiglia arriva a consumare molto, ma se poi si divide il dato finale per il numero di componenti della famiglia, allora spesso risulta che il consumo effettivo pro-capite non è affatto elevato, anzi.

Inoltre, le leggi dovrebbero tenere conto del fatto che i figli sono un bene per l’intera società: saranno i nostri figli che un domani ci pagheranno le pensioni. Ma, per restare al presente, è doveroso sottolineare come, se non ci fossero figli, non ci sarebbero neanche consumi, e quindi tutto il sistema lavorativo non servirebbe pressoché a nessuno… con conseguenze ovviamente devastanti per l’intera economia.

In Italia c’è una media di figli per donna molto bassa, largamente insufficiente per coprire il ricambio generazionale. Secondo voi quali sono le principali cause di questo fenomeno?

Sicuramente c’è un fondo culturale che non aiuta: si insegue a tutti i costi l’edonismo. L’apertura verso l’altro viene vissuta come un venire meno della propria libertà. Ovviamente questa è un’idea profondamente sbagliata, ma per arrivare a dire che i figli sono una gioia, e non una rinuncia, bisogna sperimentarlo sulla propria pelle.
In seconda istanza c’è un’indefinita paura verso il futuro, e questo proprio perché non ci sono politiche a sostegno della famiglia. Oggi, per riuscire ad arrivare alla fine mese è necessario che entrambi i genitori lavorino. La lotta lavoro-famiglia è una questione molto spinosa. E’ infatti emerso chiaramente da alcune recenti ricerche che, se ci fosse una reale possibilità di scegliere, molte donne farebbero volentieri il secondo o il terzo figlio, ma la paura le blocca. Lo Stato dovrebbe riuscire a garantire alle madri la possibilità di curare i propri figli, cosa che purtroppo fino ad ora non si è verificata.
Noi in Trentino Alto Adige abbiamo delle leggi regionali e provinciali a tutela della famiglia, siamo quindi più fortunati rispetto al resto d’Italia.
La politica che si dovrebbe attuare sarebbe quella di dare un assegno famigliare ad uno dei genitori, in modo tale che possa rimanere due o tre anni a casa, dopo la nascita del proprio figlio. Dando questa forma di agevolazione, lo Stato arriverebbe a spendere una somma pari a quella che investe nei nidi, però nel contempo si avrebbero due valori aggiunti: quello di incentivare le nascite e quello di poter seguire i bambini nei primi anni di vita con la dovuta attenzione.

Data la vostra esperienza, quali sono le maggiori esigenze delle famiglie italiane?

La difficoltà più grande è quella di affidare i propri figli, a livello educativo, a delle istituzioni che molto spesso si rivelano poco affidabili, dotate di scarse competenze. Oggigiorno la scuola è messa molto male…

Tanti figli… come si fa ad arrivare alla fine del mese?

Sicuramente bisogna prestare molta attenzione al denaro: molto spesso le mogli e madri delle famiglie numerose sono delle piccole manager…

Si fa la spesa tenendo d’occhio le offerte, aspettando le svendite, ma senza drammi.
Per venire incontro alle esigenze delle famiglie numerose, la nostra Associazione ha organizzato i GAF, ossia i “Gruppi acquisti familiare”, e promosso convenzioni commerciali locali e nazionali. Naturalmente non è una a gara a chi ha più figli: la scelta deve essere fatta
alla luce di una paternità e maternità responsabile.

In un’ottica cristiana, poi, c’è da dire che anche nella gestione prettamente economica della famiglia la Provvidenza interviene spesso…
Comunque fondamentale rimane il cercare di ottimizzare le risorse. E’ ovvio che si è costretti a fare delle piccole rinunce, le quali però impallidiscono di fronte alle molte cose belle dettate dall’avere tanti figli. Per esempio, se si hanno otto bambini si farà loro un regalo a testa, mentre un figlio unico probabilmente ne riceverà otto tutti per sé. Ma se si insegna ai bambini a condividere le proprie cose, alla fine anche gli otto fratelli finiscono con l’avere otto regali diversi…
In riferimento a questo, è molto significativa la frase di un figlio di una delle nostre famiglie: “Non avrei mai voluto un paio di Nike al posto del mio fratellino“. Questa affermazione è stata scelta come introduzione al libro pubblicato dalla nostra associazione: “Tutti Vostri? Viaggio nel modo delle famiglie numerose” (Ed. Messaggero Padova, pp. 188, 12 euro).

Insomma, quando si è in tanti bisogna essere oculati: si punta a comprare quello che si può, e non quello che si vuole.

Per concludere, un’ultima domanda più personale. Voi avete una famiglia numerosa… perché, nonostante le innegabili fatiche e difficoltà, avere tanti figli è bello?

Semplicemente perché così la giornata viene totalmente riempita dagli affetti. I tuoi figli condividono con te e con gli altri la loro vita, ed è stupendo vedere come maturano i valori che gli hai trasmesso, costruendosi una propria autonomia.

Grazie mille per la disponibilità e buon lavoro!

Per conoscere meglio la realtà dell’Associazione Nazionale Famiglie Numerose consigliamo di visitare il sito internet: http://www.famiglienumerose.org.

Intervista sul Beato Newman. Parla la scrittrice Cristina Siccardi

Far rivivere sulle pagine di un libro personaggi del passato richiede pazienti lavori d’archivio, ricerche e talento. Tutte qualità che alla torinese Cristina Siccardi, classe 1966, non mancano affatto; così, dopo essersi occupata delle donne di casa Savoia e di Paolo VI, si è imbattuta, attratta dal campo religioso, nel ritratto del Cardinale John Henry Newman (“Nello specchio del Cardinale John Henry Newman“, Fede & Cultura, pp. 205) , indubbiamente una delle figure più affascinanti della storia della Chiesa. Basti dire che, nel corso della sua vita, da posizioni anglicane, che lo convinsero che il Papa fosse nientemeno che l’Anticristo – tesi che ribadì pure in pubblico – non solo si convertì al cattolicesimo, ma fondò il primo Oratorio di San Filippo Neri in Inghilterra, fu per quattro anni Rettore dell’Università Cattolica di Dublino per poi, dulcis in fundo, esser fatto Cardinale da Papa Leone XIII, che gli riconobbe “genio e dottrina“. Una vita straordinaria, insomma. Che si interruppe serenamente l’11 Agosto 1890, quando il Cardinale, ormai ottantanovenne e consapevole, condotta la buona battaglia, di esser giunto alla fine della sua corsa, si spense. Sulla sua tomba, a memoria della sua incredibile avventura spirituale, è scolpito un epitaffio da lui stesso voluto: ” Ex umbris et imaginibus in veritatem ” ,”Dall’ombra e dai simboli alla verità“. Il giorno successivo alla sua morte, il londinese Times pubblicò un elogio funebre che si concludeva con una piccola profezia:”il santo che è in sui sopravvivrà“.Ci ha lasciato un’Opera omnia imponente, un epistolario di oltre diecimila lettere e, soprattutto, la testimonianza di chi ha vissuto nella convinzione che sia la santità “il grande fine“. Così, dopo averlo reso venerabile nel gennaio del ’91, la Chiesa si prepara, il prossimo 19 settembre, a beatificarlo. Non c’era davvero momento migliore, dunque, per incontrare l’autrice di una biografia, peraltro fresca di stampa e redatta sulla base di una robusta bibliografia, del celebre Cardinale.

Dottoressa Siccardi, che cosa l’ha spinta ad accostarsi alla figura del convertito e “dottore” della Chiesa, il Cardinale John Henry Newman? Com’è nata la sua curiosità verso questo straordinario cristiano?

Da sempre ho visto nel grande convertito inglese una delle immagini più plastiche della irrinunciabilità della Fede e dei dogmi cattolici. Quando ho notato che, in prossimità della beatificazione, stava uscendo un florilegio di biografie che, invece, avevano il preciso scopo di descriverlo, nella linea Tyrrell-Buonaiuti, come un antesignano del modernismo e del relativismo, ho sentito il dovere etico di cercare di ribadire la verità storica, poiché questa stessa beatificazione è un segnale forte di riaffermazione, da parte della Chiesa, del suo monopolio della Verità.

Newman, a ben vedere, fu un caso di “pluri-convertito”: da piccolo era, come lui stesso ebbe a definirsi, “molto superstizioso“, poi divenne calvinista, anglicano e infine cattolico. Come si spiega questa continua metamorfosi?

Questo cammino spirituale è, potremmo dire, la logica conseguenza della ricerca di Dio e della Verità, ricerca che fu, per tutta la sua vita, l’essenza della sua spiritualità. Newman ebbe sempre chiarissimo il principio cattolico che la Verità non può contraddire la ragione e che, quindi, la vera Fede può essere spiegata e, soprattutto, capita. Si pensi, a questo riguardo alla splendida lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona. Newman fu educato dalla madre nel credo calvinista e la superstizione lo accompagnò in questa Fede, almeno fino a quando, soprattutto per merito dell’incontro con il pastore Walter Mayers, purificò l’etica evangelica, in quanto ad essa non contraria: il Calvinismo elimina dalla religione l’aspetto razionale a favore di un’eticizzazione neofarisaica del Credo: il ripetere delle azioni per il fatto che sono comandate, indipendentemente dalla loro razionalità aiuta ad essere schiavi della superstizione. Non appena il futuro Cardinale iniziò a sottoporre a critica razionale la sua Fede, critica razionale cui sottoporrà tutta la vita ogni suo credo, si rese pressoché immediatamente conto della insostenibilità della dottrina del riformatore ginevrino. Ecco che la sua sete di razionalità lo portò alla Chiesa alta d’Inghilterra, vale a dire all’adesione a tutti i dogmi cattolici, sia pure in un contesto scismatico ed in una cornice di sentimenti ostili a Roma ed al Papa. Ancora una volta, però, è la sottoposizione ad analisi razionale dell’Anglicanesimo che lo conduce alla pienezza della verità cattolica. La razionalità gli impone il principio dell’immutabilità della Fede: se Dio ha rivelato la religione, essa è eternamente vera, come eternamente vero è Dio. Ogni evoluzione, mutamento o nuova interpretazione della dottrina è, dunque, dimostrazione di falsità della medesima. In base a questo principio Newman inizia a studiare i Padri della Chiesa, sicuro di ritrovare in loro la stessa Fede e validi motivi per permanere nella sua ostilità antiromana. Ma i Padri della Chiesa, come tutta la storia della Chiesa, testimoniano che solo la cattolicità romana, con tutte le sue pretese, primato petrino incluso, è rimasta immutata dalle origini ad oggi. Diviene, pertanto, esigenza etica imprescindibile l’adesione alla Sposa di Cristo. Quando Newman afferma che la sua spiritualità non è mai mutata, nonostante le conversioni, intende dire che da sempre lo guidò unicamente la sete di Verità e che tale sete si è placata solo con l’adesione alla vera Fede.

Di tutti i numerosi personaggi incontrati nella vita e negli studi, quale fu, secondo lei, la figura che esercitò maggior influenza su Newman? il compagno di studi John William Bowden? Il confidente Ambrose St. John, il grande amico Hurrell Froude oppure Papa Gregorio XVI?

Newman fu sempre profondamente grato alle persone e ai tanti amici che conobbe e frequentò, perché da ciascuno di loro seppe trarre insegnamenti ed ammaestramenti. Tuttavia nessuno ebbe su di lui un’influenza totalizzante: rifuggì sempre l’eccessiva adesione all’altrui pensiero, come una vera e propria idolatria. Ecco che anche gli influssi che altri esercitarono su di lui divennero, nella sua mente e nella sua anima, pensieri e sentimenti assolutamente suoi, di cui è riconoscibile l’origine, ma è ancor più evidente la trasformazione e l’inserimento in un sistema di pensiero ed in una spiritualità armonici. Tutto ciò premesso possiamo ritenere che ci siano state delle persone da cui Newman trasse di più, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Il pastore evangelico della Chiesa d’Inghilterra Walter Mayers, ad esempio, insegnò al giovane Newman a coltivare la serietà religiosa, senza indulgere a facili concessioni al mondo: fu il passaggio da un Calvinismo superstizioso ad una interiorizzazione, sia pur non ancora razionale, dell’etica evangelica. Inoltre il ventunenne Newman imparò dal professor Richard Whately di Oxford ad utilizzare l’autonomia di pensiero. Confesserà nell’ Apologia pro vita sua: “Nel 1822, quando ero ancora timido e impacciato, egli mi prese per mano e si assunse nei miei riguardi la parte del maestro gentile e incoraggiante. Mi aprì, per così dire, la mente, mi insegnò a pensare, ad usare la ragione […] mi aveva insegnato a vedere con i miei occhi e a camminare con le mie gambe. Non che non avessi ancora da imparare molte cose da altre persone, ma queste le influenzai anch’io quanto loro influenzarono me, e fu una cooperazione piuttosto che un semplice incontro“. Stima e profonda amicizia stabilì con Hurrell Froude, il quale gli diede la spinta decisiva ad innescare quel processo razionale che lo condurrà ad abbracciare il Cattolicesimo. Fu il tirare le estreme conseguenze dall’Anglicanesimo rigido del Tract 90: dalla liberazione dalle scorie evangeliche della Chiesa alta d’Inghilterra non poteva che conseguire la sua confluenza nel Cattolicesimo, alveo naturale per tutti coloro che hanno un Cristianesimo razionale. Delle altre persone citate nella sua cortese domanda nessuna ebbe particolare influenza sul pensiero e la spiritualità di Newman. Un cenno merita la concordanza antiliberale e antimodernista di Newman con Gregorio XVI (si pensi all’enciclica Mirari vos ed al Biglietto Speech del Cardinale inglese); ma fu una concordanza cui l’oratoriano giunse autonomamente.

In una lettera del 1830 il futuro Cardinale confessò il suo desiderio “di non fare mai carriera nella Chiesa”, ma l’Onnipotente, almeno su questo, non lo accontentò. Ed oggi è pure Beato. Ma come seppe fronteggiare, lui che sin da ragazzo era estremamente riservato e talora pure irriso per questo, l’impegno della carriera ecclesiastica?

Newman non svolse nessun ruolo nella gerarchia ecclesiastica, fatto salvo, ovviamente, il suo impegno sacerdotale e l’organizzazione del primo oratorio inglese. Fu creato Cardinale, che lo ricordiamo, non è una funzione ed un grado all’interno della gerarchia, ma un titolo ed un riconoscimento, tanto è vero che prima della riforma di Giovanni XXIII per divenirlo non era necessario essere nemmeno sacerdoti e tantomeno vescovi: e Newman non fu Vescovo.

Impressiona molto leggere di come, nonostante l’isolamento anche universitario che gli procurò la sua conversione al Cattolicesimo, Newman non sia mai indietreggiato di un millimetro dalle sue posizioni. Anzi, attaccò frontalmente l’Anglicanesimo, credo che definì, con parole assai pesanti, “infelice e penoso“. Non andò meglio al Protestantesimo, che definì “nel migliore dei casi […] una bella statua di cera“. Questo spirito da apologeta maturò in lui tardivamente oppure gli apparteneva già prima?

L’assoluta e totale intolleranza per qualunque dottrina si distanzi, anche minimamente, dalla Verità, fu sempre la faccia militante ed apologetica dell’amore per la Verità di Newman, in ogni fase della sua vita. Parole di fuoco ebbe, da anglicano, contro il Protestantesimo, tanto da sognare una Chiesa d’Inghilterra liberata dalle tossine della Chiesa Bassa e, di fatto, cattolica. Si può quasi affermare che, non essendo riuscito a far confluire tutto l’Anglicanesimo nella Cattolicità, si arrese a convertirsi da solo, anche se fu, poi, seguito da molti discepoli.

Tra i numerosissimi ammiratori di Newman ci fu anche Francesco Cossiga, da poco scomparso. Il presidente emerito, in un articolo scritto per la rivista “Vita e Pensiero“, riprese un intervento del Cardinale nel quale il futuro Beato ebbe a sostenere che vi sarebbero dei casi “nei quali la coscienza può entrare in conflitto con la parola del Papa e che, nonostante questa parola, debba essere seguita“. Letta così, si direbbe una legittimazione dei “cattolici-adulti”, non crede?

L’affermazione che la coscienza è il supremo tribunale dell’individuo è corretta solo se interpretata nella sua lettura tomista, vale a dire solo se la coscienza non è corrotta, anche ex ante, da colpevoli pregiudiziali. La persona ha il dovere morale di aderire alla Verità e di formare la propria coscienza alla luce di questa. Una coscienza formata alla luce della Verità diviene, almeno nel lungo periodo, pressoché infallibile, perché la Verità la plasma e la abitua a non lasciarsi sedurre dal mondo. Ecco che è vero che la coscienza così formata deve guidare la persona più delle stesse parole del Papa, perché essa porta alla Verità. Si pensi, ad esempio, alla strenua battaglia di sant’Atanasio contro le influenze ariane tollerate, quando non favorite dal Pontefice. Egli, per Cristo e la Verità, patì persino la scomunica. Se si vuole un esempio più recente si pensi alla strenua difesa della Verità cattolica di Monsignor Marcel Lefebvre, che con il grande santo del IV secolo, condivise zelo, determinazione e dedizione assoluta del dogma. Ogni legittimazione dei cattolici adulti in base al principio dell’ossequio ai dettami della propria coscienza è viziata ab origine dall’accettazione delle influenze mondane contro il dogma e la Tradizione. Dogma e Tradizione sono sinonimi, come molto bene ha espresso san Vincenzo di Lérins quando ha definito il primo come ciò che tutti, sempre e dovunque hanno creduto nella Chiesa. In conclusione, si può affermare che la coscienza rettamente formata può essere invocata solo dai difensori della Verità di sempre e mai dai novatori, cui ben si addicono le parole di san Paolo: “Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole” (2Tim 4, 3-4).

A parer suo qual è l’elemento oggi più attuale del pensiero di Newman?

L’attualità di Newman è la sua inattualità, vale a dire la capacità, che egli condivide con ogni cattolico di essere eternamente attuale ed eternamente fuori tempo, perché legato indissolubilmente alla Verità eterna e, quindi, irrimediabilmente nemico di ogni adeguamento ai tempi, che, in fondo, non è altro che resa al Principe di questo mondo. Tanto come dire che la persona pervasa dalla Verità trasuda eternità.

A proposito, com’è possibile che un convertito di razza, per giunta stimatissimo anche da Benedetto XVI, sia stato talora additato come una sorta di precursore del modernismo e di propiziatore della nouvelle theologie?

Datemi una frase e vi condannerò un uomo” recita un antico adagio popolare. ? esattamente ciò che hanno fatto, a partire da Tyrrell e Buonaiuti, tutti i modernisti, nouvelles theoligistes compresi, nei confronti di Newman. Prendendo alcune frasi, soprattutto della Grammatica dell’assenso, ed estrapolandole dal contesto e, soprattutto, non applicando quell’altro splendido proverbio che dovrebbe guidare l’esegesi di ogni testo, vale a dire “prendete le parole dalla bocca da cui vengono“, hanno attribuito a Newman una lettura soggettivistica della gnoseologia, dimenticando che egli dava per scontata l’oggettività del reale e si concentrava sulla capacità del soggetto di adeguarsi all’oggetto. Hanno scambiato un’introiezione e spiritualizzazione, quasi ascetica, del già conosciuto come lo strumento stesso del conoscere. Tyrrell, ad esempio, era convinto di trovare nelle dottrine sul “senso illativo” della Fede del Cardinale Newman l’anello di congiunzione tra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, fraintendendo il concetto di evoluzione del dogma del grande convertito inglese dell’Ottocento, che era sempre il cattolico sviluppo endogeno del dogma, vale a dire la possibilità e capacità della Chiesa di dire in modo sempre nuovo e più ricco ciò che ha sempre detto e solo quello: nove et non nova. Newman si è scagliato contro l’antidogmatismo protestante già quando era anglicano, potremmo dire, almeno in parte, già quando subiva le suggestioni calviniste della Chiesa Bassa d’Inghilterra. Attribuirgli queste posizioni, da cattolico, è ribaltare completamente il suo pensiero. Spesso il Cardinale inglese viene usato dagli assertori dell’ ecumenismo come un anticipatore dei temi a loro congeniali, affermando che è un precursore della comunione fra i diversi cristiani, ma Newman non ebbe mai a porsi di fronte ad un inverosimile ecumenismo delle religioni, lo avrebbe visto come una pericolosa teoria sincretista: la Chiesa di Cristo è unicamente quella romana e cattolica e l’obbedienza è la prova della Fede. L’ortodossia di Newman fu del resto difesa dallo stesso san Pio X nella lettera al Vescovo di Limerick del 10 marzo 1908.

Passiamo al gossip storico. Maligni internauti insinuano, sottolineando la sua lunga convivenza col già citato Ambrose St. John, da lei definito “grande amico d’anima” (p.40) del Cardinale, che Newman fosse gay. Scomoda verità o bufala?

Ella ha, giustamente, ascritto questa questione al genus del pettegolezzo; e, per questa ragione, in sede di biografia storica abbiamo deciso di non occuparcene, ma, in sede giornalistica ella ha fatto molto bene a sollevare la questione, perché mi permette di spiegare la genesi di questa vera e propria calunnia, scientificamente diffusa. Le lobbies omosessuali, in cerca di legittimazione nel mondo cattolico, appoggiate, purtroppo, anche dai loro amici all’interno della Chiesa, hanno diffuso questa calunnia, che trova facile terreno di coltura in una sedicente civiltà che, riducendo tutto a materia e l’uomo a corpo, quasi freudianamente a sesso, non comprende più che cosa sia un’amicizia d’anima. Per questi moralisti di Satana, non può esistere un rapporto unicamente spirituale, una comunione tra due anime, che si sorreggono reciprocamente nel duro cammino ascetico per giungere a Dio. Possiamo immaginare che cosa le loro blasfeme menti penserebbero, se si dovessero soffermare sul rapporto fra santa Scolastica e san Benedetto, su quello fra san Francesco e santa Chiara, su quello fra santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce o su quello fra san Francesco di Sales e santa Giovanna di Chantal, per citare solo alcuni esempi di amicizia d’anima. Si tratta dell’espressione più mefistofelicamente perversa del vizio, siamo al vizioso che fa il moralista, al fine di giustificare il proprio vizio.

Se Newman vedesse i giovani d’oggi, così sovente sconfortati ma al tempo stesso incapaci di accostarsi alla Fede e di ammettere la loro nostalgia d’infinito, secondo Lei che farebbe? Esattamente ciò che fece allora: affermare con assoluta, totale e rigidissima nettezza la Verità dogmatica, da cui discende, tramite la retta ragione, la morale. Solo la contemplazione di Dio e la sequela di Nostro Signore Gesù Cristo, anche nel comportamento, possono eliminare il tedio della vita e dare, a tutte le età, la gioia dell’Infinito.

Per concludere, un parere personale: che cosa ha imparato scrivendo questo libro? Anche lei deve un ringraziamento al venerabile Cardinale? Ciò che mi è risultato molto più chiaro e, soprattutto, ha acquisito un sapore particolare, una sua fragranza spirituale è la strumentalità della ragione e, quindi, della teologia, alla Fede. Studiando il Cardinale Newman, si vede come questo principio non abbia solo una valenza negativa, ma, soprattutto, ne abbia una positiva. Non è solo vero che, staccando la ragione dalla Fede ed orientandola contro di essa, si uccide la stessa ragione; tale principio mi è sempre stato chiaro e gli esempi di molti pensatori, soprattutto contemporanei (si pensi a Kant, Voltaire, Marx, Freud…), stanno lì statuariamente a dimostrarlo. Ma, con il santo oratoriano inglese, si può valutare quanto la ragione possa, con la sua azione incessante, sostenuta dalla volontà, implorare la Fede a Dio; come il lavoro intellettuale possa assurgere al rango di preghiera e possa, con la sua fatica ed il suo dolore, muovere Dio a compassione ed indurLo a concederci il dono della vera Fede… ? questo il motivo di maggiore gratitudine che conservo per questo grande santo, dopo, ovviamente, la riconoscenza che mi unisce a tutta la Chiesa per il gran numero di conversioni dallo scisma da lui prodotte ed agevolate.

Intervista sulla Polonia. Parla lo psicologo Roberto Marchesini

La parentela tra psicologia e sociologia è nota, come dimostra la propensione – basti pensare, su tutti, ad Alberoni – di molti sociologi ad occuparsi di dinamiche individuali e, dunque, primariamente psicologiche. Non deve dunque meravigliarci bensì incuriosirci quando  uno psicologo, senza pretese di esaustività, si cimenta nel tentativo  di raccontare un cambiamento, più che individuale, collettivo. Se poi questo psicologo si chiama Roberto Marchesini, possiamo stare tranquilli perché la chiarezza e la capacità nel raccontare ciò di cui è testimone, come dimostra lo stile con cui redige i suoi libri, soddisferà al meglio ogni nostra curiosità. Lo abbiamo contattato e lui, reduce da un soggiorno polacco – l’ennesimo – non ha resistito alla tentazione di raccontarci le sue impressioni sulla Rzeczpospolita Polska dove si reca per circa un mese, ormai da anni. 

Dottor Marchesini, benché accomunati della comune parentela europea, i mass media italiani non sono soliti, se non in casi eccezionali – come catastrofe di Smolensk, costata la vita al presidente Lech Kaczynski e altre 95 persone – riferirci notizie dal fronte polacco. E dato che spesso e volentieri, per via di un ormai ricorrente cortocircuito mediatico, sono proprio le notizie vere quelle che ci vengono negate, Lei che è recentemente stato in Polonia, potrà toglierci la curiosità: che cosa ci stiamo perdendo? Credo che la Polonia stia attraversando un periodo drammatico dal punto di vista identitario, culturale e religioso. Sono impressionato dalla velocità di questo cambiamento che vedo anno per anno svolgersi davanti ai miei occhi. Sembra di vedere un film con una sceneggiatura ben precisa e definita. La mia impressione è che l’Occidente (passatemi il termine) non abbia mai avuto, negli ultimi trent’anni, una immagine reale di questo paese; e che si stia perdendo un esperimento sociale che potrebbe aiutare a capire meglio anche la nostra realtà italiana.

Con i suoi vent’anni, la democrazia polacca è tra le più giovani d’Europa. Risale infatti al 1990, quando Lech Wa³êsa divenne il primo presidente eletto, il riconoscimento di quei diversi diritti civili e umani ritenuti fondamentali, primi fra tutti tra la libertà di parola e la democrazia. Oggi come sta la democrazia polacca? E’ in salute oppure, come la nostra, patisce un progressivo allontanamento tra popolo, giovani in particolare, e istituzioni? Sulla questione posso esprimere soltanto il mio personale pensiero. I polacchi non erano abituati alla democrazia, ma si sono abituati in fretta, credo a causa del loro profondo senso civico e nazionale. La mia impressione è che la rivoluzione iniziata nell’89 stia giungendo a compimento, e che forze che potremmo chiamare (con una brutta espressione) “poteri forti” stiano per raggiungere i loro obiettivi. A questo punto la democrazia non gli è più utile, e stanno cercando di distruggere il senso nazionale polacco.

Nel quadro europeo la Polonia è nota per essere un Paese di lunga tradizione cattolica, una sorta di eccezione permanente, di schiaffo alla secolarizzazione. Per quanto ha potuto constatare, è ancora così oppure, anche da quelle parti, iniziano a farsi strada tendenze laiciste?  Vorrei proporvi tre “quadri” che spero possano dare un’idea della situazione. Il primo. Ogni anno, ad agosto, ogni parrocchia della Polonia organizza un pellegrinaggio a Czêstochowa, a piedi. Alcune parrocchie impiegano tre settimane. Partecipano sacerdoti, religiosi, giovani, anziani, bambini… l’arrivo dei pellegrini al santuario di Jasna Góra è uno spettacolo davvero commovente. Arrivano in migliaia ogni giorno, sporchi, sfiniti, con i piedi piagati, spesso dopo giorni di cammino sotto la pioggia. Ma entrano in città ballando e cantando. Giunti davanti al santuario tacciono e si inginocchiano davanti ad una statua della Madonna. Poi si mettono in coda per passare per pochi secondi davanti alla famosa Madonna Nera. Alcuni contano più pellegrinaggi degli anni che hanno: il primo l’hanno fatto nella pancia della mamma; molti fidanzati fanno insieme il pellegrinaggio e compiono l’ultima tappa vestiti per il matrimonio, che viene celebrato in chiesa dai padri Paolini; spesso tutte le ferie dell’anno vengono impiegato in questo modo, pregando e camminando; molti polacchi, anche poveri, offrono alloggio e il loro cibo ai pellegrini che passano davanti alla loro casa. Molti religiosi dicono che non hanno mai avuto problemi ad avere nuove vocazioni: moltissimi giovani, dopo il pellegrinaggio, scelgono la vita consacrata. So che molti italiani, che fanno parte del movimento Comunione e Liberazione, partecipano al pellegrinaggio da Cracovia a Czêstochowa; io stesso ho partecipato all’ultima tappa del pellegrinaggio, insieme ai giovani di alcune parrocchie polacche. Il regime comunista ha tentato per anni di sopprimere il pellegrinaggio: ha addirittura costruito un lunghissimo sottopassaggio che attraversa la città per nascondere l’arrivo dei pellegrini. Ma il pellegrinaggio estivo a Czêstochowa è diventato sempre più importante e partecipato: si può dire che, il 15 agosto, tutta la Polonia è a Jasna Góra. Bene, quest’anno il commento generale è stato “Nessuno partecipa più al pellegrinaggio”. Intendiamoci, è un “nessuno” molto relativo: in Italia una tale partecipazione ad una manifestazione religiosa sarebbe impensabile. Ma l’impressione generale è che i ragazzi, sempre più, se ne freghino del pellegrinaggio, come di altri momenti religiosi e di preghiera che per decenni hanno scandito la vita dei polacchi. Dove ha fallito il comunismo pare stia riuscendo la televisione, la stampa, la musica, internet… Il secondo. Dopo la tragedia polacca il popolo ha reagito in modo per lui consueto: spontaneamente è uscito di casa e si è radunato compostamente, silenziosamente in piazza. Uomini e donne, ragazzi, vecchi e bambini. In poche ore, davanti al palazzo presidenziale, si è formata una fila lunga chilometri che sfilava davanti alla residenza dei Kaczynski: chi lasciava un fiore colto dal proprio giardino, chi un lumino, chi un biglietto… gli scout hanno passato giorni interi, dandosi il cambio, per sostituire i fiori appassiti e i lumini spenti con quelli sempre nuovi che la gente portava. Gli stessi scout hanno anche portato una croce di legno, fatta da loro, che in poco tempo è diventata un segno per tutti. Chi conosce la Polonia non si stupisce di queste manifestazioni spontanee, ma chi non ha mai assistito a questi eventi difficilmente può capire cosa sia un popolo. Bene, il presidente Komorowski, appena eletto, ha dichiarato che la croce portata dagli scout, simbolo del ricordo commosso del popolo polacco, davanti alla quale la gente continuava a portare fiori freschi e lumini, non poteva stare davanti al palazzo presidenziale perché la Polonia è uno stato laico. A questo punto è necessario un piccolo inciso: nei confronti del presidente Kaczynski l’opposizione ha, per anni, usato le armi della denigrazione, della calunnia, del ridicolo. Ha attaccato l’uomo anziché le sue idee. Questo è un atteggiamento non usuale per la cultura polacca, ma questo atteggiamento ha cambiato, probabilmente per sempre, il clima dello scontro politico in Polonia. Dopo la catastrofe di Smolensk questo clima non è si ammorbidito, anzi: nei confronti del presidente defunto e onorato dal popolo è cominciata una campagna denigratoria ancora peggiore, mirante a qualificare l’uomo e a minimizzare la portata della catastrofe aerea nella quale ha trovato la morte. A mio parere, Komorowski, con la sua prima dichiarazione, ha voluto trasformare il conflitto politico in un conflitto religioso, facendo appello ai settori laicisti polacchi (minoritari ma molto influenti). La Chiesa ha cercato una mediazione avanzando una proposta: i pellegrini avrebbero portato la croce da Varsavia a Czêstochowa; e al suo ritorno sarebbe stata accolta nella chiesa di sant’Anna, accanto al palazzo presidenziale. Il popolo, invece, ha reagito di nuovo al solito modo: la mattina della partenza dei pellegrini gli abitanti di Varsavia (nuovamente: di ogni età, professione, livello sociale) si sono stretti in centinaia attorno alla croce, opponendosi fisicamente al suo spostamento. Purtroppo è stato ordinato l’intervento della polizia, con lo scopo di allontanare la gente e rimuovere la croce. Vi assicuro che vedere la polizia polacca usare lacrimogeni e manganelli su anziani con il rosario e piccoli crocefissi in mano è stato un brutto spettacolo. Ovviamente, credo, in Italia nessuno ha visto quelle immagini. Da quel momento – a quanto ne so a tutt’oggi – gli abitanti di Varsavia si sono organizzati in turni per presidiare la croce; qualcuno porta quotidianamente generi di confronto, un piatto di minestra, un po’ di cibo per quelli che stanno accanto al crocefisso. Ma adesso viene il bello. Il popolo della croce non è più l’unico rappresentante del popolo polacco; adesso c’è anche il “popolo di facebook”. Tramite questo “social network” decine di ragazzi si sono radunati nella stessa piazza per insultare e denigrare quelli che si erano radunati attorno alla croce per pregare. Alcuni di loro hanno costruito una croce fatta con le lattine della birra Lech, nota marca di birra polacca che casualmente porta il nome del presidente defunto, proponendosi di sostituire con quella la croce degli scout. Questa contromanifestazione, per me, è stata scioccante: il comunismo non era mai riuscito a suscitare sentimenti di denigrazione nei confronti della religione cattolica; i giovani si sono sempre mostrati molto rispettosi nei confronti dei simboli religiosi, della preghiera, del rispetto per i defunti e per la patria. Questi ragazzi, da dove sbucavano? Chi li ha educati? Chi li ha preparati per radunarsi davanti al palazzo presidenziale per urlare volgarità e parolacce davanti a presone raccolte in preghiera? Il terzo ed ultimo quadro. Commentando la questione del crocefisso davanti al palazzo presidenziale in una intervista per il quotidiano “Rzeczpospolita”, monsignor Józef Michalik, presidente della Conferenza Episcopale Polacca, ha parlato esplicitamente di questa minoranza laicista, legata ai poteri forti, che non rispetta i sentimenti del popolo polacco. Nella stessa intervista monsignor Michalik ha citato alcune roccaforti della resistenza cattolica nei confronti di questo attacco e ha citato alcune riviste non legate direttamente alla Chiesa, i movimenti ecclesiali e Radio Maryja del padre passionista Tadeusz Rydzyk. Ossia strumenti pastorali non legati direttamente alle diocesi, alle parrocchie. Eppure la resistenza polacca al regime comunista è sopravvissuta soprattutto al c
lero diocesano (che ha offerto diversi martiri, tra i quali don Jerzy Popieluszko) e alle parrocchie. Padre Michalik sembra ammettere che le parrocchie e le diocesi hanno cessato di avere, sul popolo polacco, quella funzione di guida e di formazione che hanno ricoperto nei difficili anni del regime comunista.

Anche sotto il profilo economico, la Polonia appare una terra attraversata da notevoli cambiamenti: dopo le liberalizzazioni e l’iniziale tentennamento post comunista, dal ’93 al 2000 si è verificata una crescita mai sperimentata prima in quel Paese culminata, nella primavera del 2004, con l’ingresso dell’Unione Europea. E la crisi? Che effetti sta avendo? Anche in questo caso posso solo presentare il mio personalissimo punto di vista. Io credo che il “miracolo polacco” sia non esclusivamente ma soprattutto di cartone. Percorrendo in automobile le disastrose strade polacche (incredibilmente i governi non sono ancora riusciti a costruire le poche autostrade per i quali i polacchi da decenni pagano fior di tasse ad accise) si vedono le campagne piene di ville immense, non intonacate, con le finestre sbarrate e la scritta “Sprzedam”, vendo. La stessa scritta che si vede attraverso i finestri di BMW o sulle carene di moto sportive parcheggiate davanti a povere casette in legno, (in Polonia, a causa del clima, la moto si può usare poche settimane l’anno). I polacchi hanno comprato – spesso con le rimesse dei figli emigrati – i simboli del benessere occidentale secondo quanto hanno visto sul canale satellitare, ma lo hanno comprato a credito. Ora, a causa della crisi, gli emigranti tornano in patria e le famiglie non sono più in grado di pagare il mutuo. La Polonia si sta riempiendo di centri commerciali mentre i negozi chiudono. Nelle città le uniche attività che aprono sono banche e aziende che rifinanziano i crediti; la disoccupazione è ormai sopra l’11 per cento. La situazione economica delle famiglie rispecchia quella dell’attuale governo: nonostante il parere contrario delle autorità monetarie statali, il premier Tusk ha chiesto per ben due volte prestiti al Fondo Monetario Internazionale. Questo, secondo me, è il quadro dell’economia polacca. Una moneta così debole, poi, dovrebbe assicurare buone esportazioni; eppure i polacchi non producono: comprano (a credito) e basta. Prima o poi questo miracolo di cartone crollerà, e i polacchi si troveranno di nuovo nei guai. La situazione era diversa durante il governo di Kaczynski, che ha cercato di abbassare le tasse, incentivare la produzione e la creazione di aziende e ha ridotto la disoccupazione sotto il 10 %. Le famose liberalizzazioni sono semplicemente consistite in questo: personaggi legati al potere comunista e ai servizi segreti hanno acquistato per pochi z³oty aziende floride, importanti e strategiche, poi smembrate e rivendute ad imprenditori stranieri. Attualmente Tusk intende riaprire una nuova fase di privatizzazioni per tentare di ridurre lo spaventoso debito pubblico; le nuove privatizzazioni riguarderanno la sanità, i cantieri (tra i quali quelli navali di Danzica), le miniere, le banche e le assicurazioni a partecipazioni statali…

Tra Roma e Varsavia ci sono 2000 km, quasi 500 in più di quelli che separano la nostra capitale da quella francese e da quella tedesca. Eppure sono in molti, specie nel mondo cattolico, a sottolineare una vicinanza col territorio polacco molto superiore a quella tra noi ed altri Paesi. Conferma? Confermo. Lo stesso anno in cui ho passato per la prima volta un certo periodo di tempo in Polonia sono stato anche negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti conoscevo la lingua, in Polonia no; conoscevo, anche se approssimativamente, la storia, la geografia, la cultura USA, mentre sapevo pochissimo della Polonia; la televisione mi aveva assuefatto al cosiddetto “american way of life”, mentre quel freddo paese ex comunista era per me completamente sconosciuto. Eppure in Polonia mi sono trovato immediatamente a casa (diversamente dagli Stati Uniti). Attenzione: credo che gli italiani abbiano una visione favolistica della Polonia cattolica, di Solidarnosc, del cambiamento avvenuto negli anni ’80. Eppure sì: credo che l’Italia e la Polonia siano molto vicine.

Non sono ancora passati sei mesi dalla già citata catastrofe di Smolensk, probabilmente la più grande tragedia occidentale dopo l’11 Settembre. Come Le pare stia reagendo la Polonia? Come ho detto precedentemente, in due modi: da una parte, direi, “alla polacca”, ossia con dignità, rispetto, con un forte senso nazionale; dall’altra parte con un cinismo inedito per questo paese. Politicamente il paese è spaccato radicalmente in due. Le due principali cariche dello stato (Tusk e Komorowski) stanno cancellando tutto ciò che hanno fatto i loro avversari con una semplicità impressionante: modificando le leggi, il consiglio d’amministrazione della televisione pubblica, l’Istituto per la Memoria Nazionale, i poteri monetari sono ora strettamente dipendenti dal parlamento; mentre i gemelli Kaczynski hanno cercato di impedire le carriere di ex membri del regime comunista, ora queste persone vengono inserite in centri di potere nevralgici. Quello che è avvenuto dopo l’incidente di Smolensk, che ha di fatto decapitato la nazione, potrebbe anche essere definito un colpo di stato.

Al termine del suo ultimo viaggio nella sua patria, visibilmente rattristato dalla consapevolezza di lasciare per l’ultima volta la Polonia, Giovanni Paolo II, il 19 agosto 2002, si lasciò andare ad una frase forte:”Odio dover andare”. Anche Lei, che pure non è polacco, ha provato una forma nostalgia (o proverà, se è ancora lì), nel lasciare quel Paese? E se sì, come se lo spiega? Nostalgia è la parola giusta. È la nostalgia per qualcosa che non ho mai vissuto, ma che so che esiste, e per il quale sono naturalmente portato. È la nostalgia per le relazioni umane, per parole come onore, dovere, dignità, per una vita realmente in sintonia con la natura, per donne femminili e felici di esserlo, per uomini virili che vivono la loro forza come un dono da spendere per gli altri, per bambini sporchi e felici, per bambine vestite da bambine e non da cubiste, per un cattolicesimo radicato in ogni gesto, in ogni parola, in ogni atteggiamento, per una vita che non ha senso solo per il denaro che si possiede. Non vorrei che i polacchi, un giorno, debbano avvertire questa stessa nostalgia.

Ultima domanda. Se dovesse fare un accostamento ideale, a Suo dire che cosa manca all’Italia della Polonia, e che cosa alla Polonia del nostro Paese? Insomma, che cosa questi due inquilini europei dovrebbero imparare l’uno dall’altro? Beh, visto che è l’ultima domanda posso anche tentare la battuta: dell’Italia, alla Polonia manca sicuramente il caldo, una lingua comprensibile e la pizza. Della Polonia all’Italia mancano invece molte più cose, e molto più importanti. La Polonia non ha vissuto il cosiddetto ’68 (anche se oggi viene travolta dalle conseguenze di quella rivoluzione), e questo, a mio parere, rende la vita in Polonia molto più umana rispetto a quella in Italia.