Un “Anno della Fede” a cinquant’anni dal Concilio. Tra ermeneutiche in conflitto

Il S. Padre ha indetto, con l’anniversario della solenne apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 2012, un Anno della fede, collegandolo idealmente all’ultima assise conciliare. Il discorso ormai famoso di Benedetto XVI alla Curia Romana, del 22 dicembre 2005, segnò, in verità, una vera svolta nell’analisi del Concilio. Avviò una nuova disputa intorno al Concilio; un confronto non più a senso unico col monopolio di una certa ermeneutica, ma un dialogo a più voci, molte delle quali nuove e scevre di risentimenti o rancori di sorta. Leggi tutto “Un “Anno della Fede” a cinquant’anni dal Concilio. Tra ermeneutiche in conflitto”

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Il Vaticano II e gli assolutismi. In dialogo con P. Giovanni Cavalcoli

Carissimo P. Giovanni,
ho letto i suoi ultimi interventi sul Vaticano II, pubblicati da Riscossa Cristiana. Ammiro la sua infaticabile passione per un argomento così spinoso ma centrale nell’attuale situazione ecclesiale. Mi permetta di rivolgerle qualche domanda e di riflettere insieme con lei, come abbiamo avuto già modo di fare in precedenza. Muoverei da un primo approccio: la situazione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. ? indubitabile che dopo ogni concilio la Chiesa abbia vissuto momenti di forti turbolenze, in ragione di un riassestamento lento e progressivo della compagine ecclesiale, scossa, normalmente, da errori che la minacciavano, smascherati però dalle definizioni delle verità di fede. Non sono mancate fratture, riacutizzatesi proprio in ragione della chiara ed infallibile posizione dei concili. Mi sovviene quanto si verificò per il Concilio di Nicea. ? vero che l’errore subordinazionista, che ammaliava anche vescovi dal calibro di Eusebio, fu sconfitto definitivamente solo con il Concilio successivo di Costantinopoli, definendo la divinità della Spirito Santo, mentre, nel frattempo, gli ariani si muovevano con sinodi ben precisi volti a conquistare dalla loro parte le Chiese. I confini dell’esagitazione ecclesiale però erano ben delineati: da un lato la fede della Chiesa, difesa da S. Atanasio e definita al Concilio, dall’altra l’eresia della non-consustanzialità del Figlio col Padre e di conseguenza un principio di svuotamento del mistero stesso della Redenzione. La cattolicità si stringeva intorno alla stessa fede, mettendo sempre più al bando l’errore dottrinale, che qui si avvaleva dell’accondiscendenza dell’Imperatore. Anche dopo il Concilio di Trento i confini della fede cattolica furono ben presto visibili, e con un’opera di intelligenza pastorale, la Chiesa tornò a risplendere della sua bellezza, graffiata dai suoi figli rivoltosi. Si insegnò che la S. Scrittura e le Tradizioni non scritte sono le due fonti dell’unico deposito rivelato da Dio e consegnato alla sua Chiesa. La Chiesa attinge la sua regola di fede da entrambe, unite nell’unico atto rivelativo, custodite e trasmesse indefettibilmente dal Magistero autentico.
Dopo il Vaticano II, però, si assiste a qualcosa di nuovo: è la stessa Chiesa ad essere colpita da una profonda crisi. Una crisi d’identità. ? nel suo interno che si mettono in discussione i dogmi: o li si vuole superare in nome di un meta-dogmatismo o – ciò che mi sembra abbia prevalso – li si vuole arrestare ad ogni costo al Vaticano I, per dare una svolta nuova all’Assise ultima: quella della conciliarità. Che presto diventa neo-conciliarismo.
Lo stesso approccio pastorale del Concilio – che lei dice esser il cavallo di battaglia dei lefebvriani per affossare il Vaticano II – si prestò a svariate letture. Ci fu chi come Y. Congar voleva un concilio pastorale, che non fosse da meno di uno dottrinale e che non si limitasse a definire o ad atomizzare la fede, ma raggiungesse gli uomini del tempo. A questi gli farà presto eco G. Alberigo, il quale dirà che il Concilio pastorale aveva messo in discussione l’ecumenismo dottrinale, fino a far abbandonare la via antiqua per una svolta epocale; chi, poi, come il card. G. Siri, che vedeva proprio nell’elevata enfasi data al lemma pastorale un “equivoco-ombra” per risistemare la dottrina passando al lato della condanna degli errori, ma provocando necessariamente una certa mescolanza. Una misericordia verso gli erranti poteva trasformarsi in una misericordia verso l’errore. Questo in larga parte si è verificato, seppur involontariamente. Riporto una lucida e coraggiosa analisi di questa situazione, fatta dal card. G. Biffi, che dice: “Un magistero che non condanna niente e nessuno – naturalmente con tutta la prudente attenzione alle concrete circostanze e alle esigenze della carità pastorale – è fatale che diventi complice involontario dell’errore e quindi di colui che il Signore Gesù ha chiamato “menzognero e padre della menzogna” (cfr. Gv 8,44)” (Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Siena 2010, p. 53).
Per questa ragione, caro Padre, trovo il suo argomentare un po’ troppo affrettato. Non risponde al vero dire, a mio modo di vedere, che i lefebvriani: solo loro o anche altri?, correggono il Papa e il Concilio in nome della Tradizione – mi sentirei anch’io chiamato in causa, per quanto ciò possa aver peso -, in ragione della pastoralità del Concilio e del fatto che il Vaticano II non ha emanato nuovi dogmi. Questo lo dice anche Paolo VI e con lui in modo particolare Giovanni Paolo II, che ne attuò le istanze più proprie. Si pensi solo alla missionarietà interreligiosa ed ecumenica di questo amato Pontefice.
Mi rendo conto della sua accorata preoccupazione per il Concilio e per le sue dottrine. Il riconoscimento del Concilio: a priori irrinunciabile per ogni figlio della “Cattolica”, la spinge però a rendere infallibili tutte le sue dottrine. Giustamente, dall’accettazione delle dottrine dipende l’accettazione del Concilio, ma non necessariamente l’accettazione delle dottrine deve prevederne l’infallibilità perché si accetti il Concilio. Leggo nei suoi scritti, e questo è sicuramente invidiabile, una grande volontà di riscattare il Concilio dai modernisti e dai tradizionalisti. Ma così facendo, ho l’impressione che il “nuovo” del Concilio, che comunque lei riconosce come sviluppo e aggiunta e mai abrogante quello di prima, perché sempre infallibile, debba richiedere necessariamente un atto di fede teologale. Questo vale sempre? In questo modo, però, come si potrà distinguere ciò che è dottrinale da ciò che è pastorale?, cosa che invece lei giustamente vuole fare.
Allora, le mie domande: quali sono a suo modo di vedere le dottrine infallibili del Concilio e gli insegnamenti pastorali fallibili e rivedibili? Riuscirebbe a farne un quadro ben delineato o troverebbe sempre la difficoltà di dover disgiungere il fine e la natura pastorali del Concilio anche dai suoi insegnamenti dottrinali? E se gli insegnamenti dottrinali non sono definiti quindi dichiarati infallibili, in ragione di cosa li si può vedere come tali? Solo in ragione del dato dottrinale nuovo portato dal Concilio o non piuttosto in ragione della Tradizione della Chiesa, metro dello sviluppo dogmatico? Il criterio dell’infallibilità non sta nel dopo, ma nel prima. La Tradizione non dovrebbe essere mai contro il Papa. Se lo è, è perché si è smarrito il suo vero concetto. Pertanto, distinguerei tra accettazione delle dottrine/insegnamenti del Concilio e loro (generale) infallibilità. Accettarle non dipende dalla loro infallibilità, ma dal fatto che sono insegnamenti del Magistero della Chiesa. ? la Chiesa la garanzia della loro autenticità. Questo potrebbe aiutarci a liberarci da una soffusa ondata di neo-conciliarismo, quando, ad ogni piè sospinto, si invoca l’autorità dottrinale del Concilio, con un generalissimo “il Concilio dice”, “il Concilio insegna”, ignorando magari lo stesso Magistero post-conciliare. Potrebbe essere anche il modo con cui ci si accosta alle dottrine del Vaticano II, senza prevenzioni dogmatiste, con una libertà, sempre nei confini del vero tracciati dall’Autorità, per verificarne, ad un tempo, il loro ancoraggio al Deposito della fede e lo sforzo della novità in ragione della nuova pastoralità voluta dai Padri.
? vero che il Magistero post-conciliare ha dichiarato a più riprese la continuità delle dottrine conciliari con la Tradizione della Chiesa. Si pensi ultimamente alla Verbum Domini quanto al rapporto Scrittura e Tradizione in Dei Verbum. Ma questo non ci redime ancora, purtroppo, da un angosciante e sordo appello al Concilio e sempre al Concilio. Non sarebbe inopportuno un nuovo Sillabo per mettere in guardia dagli errori declamati in nome del Concilio, con il quale non si chiederebbe alla Chiesa di correggersi ma di correggere gli errori.
Dopo il Vaticano I, ad esempio, non c’era molto da dibattere sul contenuto della Pastor aeternus. Ci furono quelli che lo rifiutarono, ma la Chiesa non dovette ritornare sul suo significato per una sapiente ermeneutica. Invece, si nota una singolarità del Vaticano II, che nasconde un problema ermeneutico di approccio e di lettura degli insegnamenti. Mi convinco sempre più, che più che nelle dottrine del Vaticano II, il vero problema si nasconde nel principio ermeneutico con cui le si legge, tema classico della modernità, postasi proprio come problema gnoseologico. Quel mondo moderno con cui si voleva dialogare ha presentato alla Chiesa il conto della sua principale difficoltà: mettersi in questione per arrivare, solo dopo, alla sua comprensione?
Vengo così all’Ad tuendam fidem (Motu proprio di Giovanni Paolo II, del 1998), che lei cita nel suo ultimo scritto (28 febbraio 2011). Con questo documento, il venerabile Pontefice, si premurava di munire di due paragrafi il canone 750 del CIC (e rispettivamente il can. 598 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali) per preservare la fede della Chiesa dagli errori che insorgono. Il primo paragrafo di detto canone richiama le cose da credere con fede divina e cattolica, in quanto insegnate infallibilmente dal Magistero solenne o dal Magistero ordinario e universale e contenute nella Parola di Dio scritta o tramandata (allusione alla due fonti della Rivelazione). Il secondo paragrafo, invece, riguarda l’accoglienza ferma di quelle cose che il Magistero insegna come definitive circa la fede e i costumi. Non si fa però menzione, per appurare l’infallibilità di una dottrina, alla sola “materia” di fede come lei invece dice. Il metro è ancora una volta il Magistero. ? interessante notare che questa definitività della dottrina, sebbene di cose non rivelate ma connesse con la Rivelazione e dichiarate tali dal Magistero, fu riconosciuta anche dalla Scuola di Bologna, che all’uscita del Motu proprio, subito s’allarmò con un intero numero monografico di Cristianesimo nella Storia (n. 1, 2000). Si sarebbe così compromessa la voluta scelta del Vaticano II di mettere un certo silenziatore alla Tradizione costitutiva, che ora Giovanni Paolo II, pretendeva rispolverare quanto all’infallibilità di dottrine definitive, insegnate infallibilmente dal Magistero. Si andava così a riprendere un certo modo controversistico e antiprotestante, accantonato dal Concilio. Si ripiombava in una visione dottrinale contro quella propriamente pastorale (vedi ad esempio G. Ruggieri, in Ibid., pp. 4. 103-131: l’unico italiano ad aver firmato il controverso memorandum “Chiesa 2011” dei teologi tedeschi).
Con accenti di rottura, certo, ma anche quest’ermeneutica riconosce che Ad tuendam fidem parla di definitività delle dottrine appurata dal Magistero e dà così piena cittadinanza alla Traditio costitutiva.
Con Benedetto XVI possiamo allora affermare, che “la Parola di Dio si dona a noi nella sacra Scrittura, quale testimonianza ispirata della Rivelazione, che con la viva Tradizione della Chiesa costituisce la regola suprema della fede” (Verbum Domini 18).
Ogni dottrina, anche quella di un concilio, non dovrà mai prescindere da questa “regola suprema”.

Con devoti sensi di fraterna amicizia.
p. Serafino M. Lanzetta

Firenze, 5 marzo 2011

I Santi Magi venuti da oriente e le religioni del mondo (Mt 2,1-12)

Una stella brilla nel cielo. La stella dell’amore, che ha guidato i Magi dall’oriente e li ha condotti con fede, con perseveranza, fino a Betlemme, a scoprire il Re fanciullo appena nato.

Questa è l’Epifania di Dio, ovvero la manifestazione di Gesù alle genti. Epifania significa appunto manifestazione. Il Figlio di Dio si rivela a tutte le genti. Nella persona dei Magi chiama a Sé, attira a Sé con la forza dell’amore e della verità ogni uomo di buona volontà. Oggi vediamo un fatto nuovo, ma già profetizzato nell’Antica Alleanza: tutte le genti sono chiamate a diventare un solo popolo nuovo, una sola eredità, in Dio che si è fatto Bambino e ha manifestato il volto del Padre.

I Magi non sono Giudei, non appartengono al popolo d’Israele, ma sono pagani; vengono da tradizioni religiose diverse da quella giudaica; molto probabilmente hanno conosciuto la religione di Zoroastro o Zaratustra, ed erano convinti, come tanti, che Dio fosse tanti dei, che ci fossero tanti dei (almeno due spiriti primi: il Bene e il Male) quanti i popoli che adoravano Dio.

Di conseguenza, tante religioni quanti i popoli religiosi. Ma questi Magi erano però sapienti, cultori di scienza, ma ancor prima uomini d’intelletto e di sapienza. Volevano conoscere la verità; avevano in cuor loro un desiderio: mettersi in cammino sui passi di tanti uomini di buona volontà, per incontrare finalmente quella verità religiosa su Dio e quindi sull’uomo, che desse pieno significato alla religiosità dell’uomo. Erano convinti che l’uomo non può semplicemente accontentarsi del ritrovato sociologico, identitario, culturale della religione.

Non basta perché si è nati in una determinata cultura rimanere nell’idea che in fondo ogni cultura conosce una religione diversa e ogni religione è in fondo un volto della religiosità così poliedrica dell’uomo, dei tempi e del mondo. Erano uomini d’intelligenza, si erano posti dei problemi: che cos’è la verità? È vero che ci sono tante religioni vere e salvifiche quanti sono i popoli, le culture degli uomini e dei tempi? Basta questo a sfamare quel desiderio di Dio che l’uomo di qualsiasi cultura porta nel cuore? E avevano risposto di no.

Ecco perché si mettono in cammino, vogliono dare una risposta definitiva a questo desiderio di Dio che portavano dentro: un desiderio che faceva unità con un desiderio di far chiarezza su Dio e sull’uomo, sulla cultura, sulla storia degli uomini; avere una risposta soddisfacente, una risposta che fosse quasi luce che dirada le tenebre; una risposta definitiva su Dio e sull’uomo. Ecco perché seguono questa stella, questa stella che è un miracolo apparso nei cieli per guidare questi uomini sapienti fino a Betlemme. Questo Bambino, che fa tremare i potenti, non era venuto a spodestare Erode, né Lenin, né gli altri grandi dittatori dello storia. Era venuto semplicemente per portare Dio in questo mondo, per fare chiarezza tra le religioni, per dirci che il Dio d’Israele è l’unico vero Dio, il quale in Gesù si rivela Salvatore di ogni uomo.

Questo Dio e solo questi è l’unica realtà che ogni uomo desidera, di cui ogni religione è in ricerca: è l’unico! La religione diventa piena, vera, nella misura in cui incontra il Volto di Dio e questo Volto non lo possiamo semplicemente immaginare, non lo troviamo in un libro. Questo Volto lo dobbiamo vedere: nella Chiesa, suo Corpo sacramentale, questo Volto è vivido, lì lo si vede. I Magi ci insegnano che la religio è vera, dunque piena, definitiva, assoluta, solo nell’incontro con Cristo, nell’adorazione a Lui. Infatti, dopo aver trovato Cristo, si prostrarono e lo adorarono (cf. Mt 2,11). Cristo è il compimento della religione e della stessa religiosità. Ormai, solo in Lui e nel prolungamento del suo Corpo sacramentale che è la Chiesa c’è salvezza. Scriveva il Cardinale Leo Scheffczyk: «…con l’avvenimento di Cristo è oggettivamente successo qualcosa (comprensibile solo nella fede del cristiano), che equivale a una critica fondamentale, ad un aumento e (sia in senso negativo che positivo) a un’“abolizione” delle religioni nella pienezza di Cristo».

 Il problema, allora, non sarà più quello di cercare di coniugare il panorama religioso mondiale, trovando un punto di unità tra tutti, che potrà essere il bene, il rispetto, la mutua collaborazione. Anche questo, ma non basta. Se ci si ferma a questo, la religione corre il rischio di esser soggetta ad un mero interesse umano, per quanto legittimo. La religione è ricerca di altro, di Dio. La religio dell’uomo di ogni tempo, di ogni cultura ci dice questo: l’uomo cerca Dio. Questa riposta la religione dovrà offrire: Dio. Il Volto di Gesù Bambino è proprio questa risposta. Lui solo è il Signore.