Incesto e relativismo

Il Consiglio degli Stati della Confederazione elvetica, ovvero la Camera Alta del parlamento svizzero, ha proposto una legge per depenalizzare l’incesto, data la sua attuale marginalità. Sì, una delle ragioni per cui si è ritenuta “obsoleta” quella fattispecie penale risiede, per i promotori della legge, nel fatto che secondo l’Ufficio federale di statistica, tra il 1984 e il 2007, sono stati registrati solo tre o quattro casi d’incesto all’anno. Ora, a prescindere dal fatto che il carattere penale di una norma non può dipendere dal numero di volte cui viene violata (anche l’omicidio in Svizzera è fortunatamente un evento abbastanza raro, ma non per questo qualcuno si sogna di ipotizzarne l’abrogazione), e senza considerare la difficoltà che nasce dall’accertamento di un simile reato, soprattutto se consumato privatamente da persone adulte consenzienti, resta da comprendere il perché di una simile iniziativa.
Se appare scontata la reazione di Barbara Schmid Federer del Partito Cristiano Popolare che ha definito la proposta “ripugnante”, interessante appare, invece, il punto di vista del parlamentare e giurista Daniel Vischer del Partito dei Verdi, il quale ha parlato dell’incesto come di “una questione morale, a cui, però, non si può dare una risposta di carattere penale”. Vischer ha anche affermato che personalmente non vede nulla di male nella libera scelta di avere rapporti sessuali fatta due adulti consenzienti anche se consanguinei, e che se tali rapporti possono ingenerare in qualcuno perplessità di ordine etico, bisogna sempre tener presente che “il codice penale non serve per risolvere problemi di natura morale”.
E qui sta il punto. Questo ragionamento rappresenta quello che gli inglesi definiscono, con un’efficace espressione, una slippery slope, un pericoloso piano inclinato in cui, alla fine, nel frullatore del giustificazionismo relativista rischia di finirci di tutto, persino la pedofilia (non è un orientamento sessuale come un altro?), il cannibalismo, la nudità, eccetera.
Il caso svizzero mi ha colpito anche perché ha destato un certo scalpore a livello internazionale. Scalpore che però non si è notato quando nel Senato della Repubblica italiana, il 14 ottobre 2008, è stato presentato un analogo disegno di legge (S. 1155) avente per oggetto l’abrogazione del reato di incesto e dei reati contro la morale familiare, a firma dei senatori radicali Donatella Poretti e Massimo Perduca. Nella relazione al disegno di legge – che il 10 novembre 2008 è stato assegnato alla 2? Commissione permanente (Giustizia) in sede referente – i proponenti giustificano l’iniziativa sull’assunto che il reato d’incesto “crei confusione tra peccato e reato, tipica di leggi di Stati confessionali e non laici come il nostro”, arrivando a citare espressamente – ed a sproposito – il Presidente della CEI mons. Bagnasco.
Dagli anni ’70, del resto, esiste un tentativo ideologico di sdoganare il tabù dell’incesto in nome della liberalizzazione sessuale. Già l’attivista Shulamith Firestone, una canadese di origini ebraiche icona del movimento radicale femminista in quegli anni (fu tra i fondatori del New York Radical Women, del Redstockings, e del New York Radical Feminists) nel suo famosissimo best seller The Dialectic of Sex (1970), sintesi in salsa femminista delle idee di Sigmund Freud, Wilhelm Reich, Karl Marx, Frederick Engels, e Simone de Beauvoir, riteneva che con l’erosione della famiglia e l’eliminazione dei tabù relativi all’incesto ed alla repressione sessuale (considerati conseguenze inevitabili della vita familiare), sarebbe finalmente nato qualcosa di nuovo.
La psicosessualità al potere – secondo la Firestone – avrebbe dato vita ad un nuovo tipo di amore, un amore veramente libero, e con esso la possibilità di un vera felicità. Più esplicito è stato lo psicologo Americano Wardell Baxter Pomeroy nel suo controverso libro A New Look at incest (1977), una nuova visione dell’incesto, in cui la teoria a favore dei rapporti sessuali tra consanguinei si spinge davvero avanti:

Possiamo registrare molte relazioni sessuali serene e reciprocamente appaganti tra padri e figlie. Questi possono essere occasionali o duraturi, ma non hanno alcun effetto negativo (…). L’incesto tra adulti e giovani può rappresentare un’esperienza capace di soddisfare ed arricchire (…). Quando sussiste una mutua e sincera attenzione per l’altra persona, piuttosto che un atteggiamento di egoistico possesso focalizzato sul proprio godimento sessuale, allora la relazione incestuosa può davvero funzionare perfettamente. L’incesto può arrivare ad essere una piacevole, innocua e persino arricchente esperienza.

Alquanto significativo, poi, è che il libro del dottor Pomeroy sia stato promosso e consigliato dall’International Planned Parenthood Federation (IPPF) – di cui lo stesso Pomeroy è stato prestigioso membro -, una potente organizzazione abortista mondiale con sede a Londra e presente in 189 Paesi, specializzata, fin dal 1952, nella pianificazione familiare (rectius contraccezione ed aborto), che riceve finanziamenti pubblici per progetti speciali dalla Commissione Europea e dal Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, e che collabora con diverse istituzioni internazionali, tra cui l’UNICEF, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica, e così via.
Questo il clima culturale e la potenza di fuoco che sta dietro chi sponsorizza la legalizzazione dei rapporti sessuali tra consanguinei.
Eppure l’incesto – il cui nome deriva dal latino in-castus, impuro – è pratica ripudiata pressoché da tutti i popoli di ogni latitudine, periodo storico e cultura, un tabù prevalentemente dettato dalla preoccupazione per la difesa della specie umana, in senso sociale piuttosto che biologico. Per questo la Chiesa cattolica, ad esempio, ha sempre condannato l’incesto per la sua intrinseca capacità di corrompere le relazioni familiari e segnare un regresso verso l’animalità. Ed è per questo che la società può ben difendersi con l’arma della sanzione penale.
Nel suo saggio Le strutture elementari della parentela (1949) l’antropologo e filosofo francese Lévi-Strauss affronta questo delicato tema legandolo alla relazione che corre tra l’esistenza biologica e l’esistenza sociale dell’uomo, ed arrivando ad affermare che “la proibizione dell’incesto costituisce il passo fondamentale grazie al quale, per il quale, e soprattutto nel quale si compie il passaggio dalla natura alla cultura”. Quest’ultima affermazione la dice lunga sul passaggio evolutivo della società che i liberalizzatori dell’incesto intenderebbero propugnare.

Da Cultura Cattolica.it, domenica 9 gennaio 2011

Dagli Usa i figli sosia capaci di rendere “inutili” i genitori

La California Cryobank, Inc. è una delle più prestigiose e famose banche del seme a livello mondiale. Opera nel settore da più di trent’anni e si vanta di essere azienda leader del baby design. Ai clienti offre un’incredibile gamma di possibilità. Sono ben nove, ad esempio, le diverse tonalità cromatiche dei capelli in catalogo per i nascituri (neri, biondi, castani, biondi scuri, castani scuri, castani chiari, rossi, rossi scuri, rossi fragola), capelli che possono essere ricci, lisci od ondulati, mentre arrivano a sei i differenti colori degli occhi (nero, azzurro, marrone, verde, grigio, verde scuro).

Si possono scegliere fino a dodici tipologie di razze, mentre per la carnagione le opzioni arrivano a cinque, e nove sono i gruppi sanguigni messi a disposizione. Trenta sono le aree di professione dei potenziali donatori (dall’agricoltura al trasporto, in rigoroso ordine alfabetico) e ben sette i differenti livelli di istruzione, mentre centotre sono le nazionalità di provenienza del seme Colpisce il fatto che tra le varie offerte vi sia pure l’opzione religiosa, come se la fede fosse connessa al Dna. Nel delirio genetico, infatti, la California Cryobank concede l’alternativa di ben dieci religioni, dimenticando che la fede può nascere solo da un’educazione o dalla grazia di un incontro e non ha nulla a che vedere con l’acido desossiribonucleico.
Scott Brown, Communications Director della California Cryobank si vanta di precisare che l’azienda «offre un servizio sociale e democratico a donne single e coppie gay, che rappresentano il sessanta per cento della clientela», e «a coniugi sterili che possono coronare il sogno di avere un figlio simile al poster che avevano appeso da ragazzi in camera da letto».
Ebbene, proprio la California Cryobank, Inc. è tornata ancora una volta alla ribalta delle cronache per l’iniziativa denominata CCB Donor Look-a-Likes™. Si tratta della possibilità concessa alle mamme che leggono i rotocalchi rosa, che amano il cinema e la televisione, o ai padri appassionati di sport, di poter scegliere il seme da donatori somiglianti a celebrità. La California Cryobank sul punto è chiara: «si può scegliere tra attori, atleti, musicisti, o chiunque altro sia abbastanza famoso da essere finito sul web».
La lista è lunghissima (più di 600 nomi che vanno dall’attore canadese Aaron J. Buckley a quello taiwanese Zheng Yuan Chang) e non è ancorata a particolari canoni estetici, visto che vi si possono trovare anche personaggi come Bill Gates. Sebbene si tratti più che altro di un’illusione, priva di fondamento scientifico, l’iniziativa ha avuto un successo insperato e il numero delle mamme che desiderano un figlio sosia di Tom Cruise e George Clooney cresce a livello esponenziale.
C’è, però, qualcosa di patologico in una cultura che tende all’omologazione persino nei tratti somatici. Una società in cui tutti si assomigliano secondo criteri e parametri predeterminati, è qualcosa che fa venire i brividi, e più che ricordare le farneticazioni eugenetiche naziste del Neue Mensch, richiama le profezie distopiche di Aldous Huxley. Sembra l’avveramento del New Brave World, romanzo del 1932, nel quale si preconizzava la produzione in serie applicata anche alla riproduzione umana, attraverso la fecondazione artificiale.
Fortunatamente, per ora, la scienza non è ancora giunta al livello delle aberrazioni genetiche huxleyane, e la clonazione ai fini riproduttivi è ancora vietata in tutto il mondo, per cui la CCB Donor Look-a-Likes™ si riduce, in realtà, a poco più che un’esagerazione pubblicitaria.
Per una volta tanto possiamo essere d’accordo con il laicissimo, e quindi insospettabile, Los Angeles Times, che, dopo aver bollato l’iniziativa della California Cryobank come «incredibilmente stupida», ha aggiunto: «Se qualcuno desidera un figlio che assomigli a una celebrità, forse non è ancora davvero pronto per essere un genitore». Non si può dargli torto.

Il Sussidiario.net, 8 novembre 2010

Perché l’Ue spende 2,5 mln per sostituire l’uomo con l’androide?

Ciò che sta accadendo nel campo della biotecnologia robotica farebbe felice la fervida mente geniale di Isaac Asimov, il celebre biochimico scrittore di fantascienza, finito negli annali della letteratura per i suoi romanzi sugli androidi positronici.

 Come sempre è la Gran Bretagna a regalarci perle di futurismo biotech. L’ultimo e più sofisticato androide del mondo, infatti, esce dalle fucine della Hertfordshire University. L’hanno battezzato Nao ed ha come caratteristica principale quella di percepire ed esprimere emozioni. Èin grado di stabilire legami affettivi con gli uomini e può persino possedere differenti personalità.

Si spaventa, s’incupisce o si rallegra a seconda degli stimoli che riceve dall’ambiente umano che lo circonda; si mostra felice se qualcuno gli sorride o gli fa una carezza, e appare rattristato se gli si urla o lo si rimprovera. È vero che si tratta pur sempre di emozioni preprogrammate, ma è altrettanto vero che è Nao a decidere da solo quale sentimento esprimere. Per ora, secondo quanto spiega Lola Cañamero, la scienziata informatica dell’Università di Hertfordshire che dirige il progetto, i sentimenti di Nao sono modulati sullo standard emotivo di un bimbo di un anno e si fondano su un “set of basic rules” che permette un rudimentale discernimento dei concetti di “bene” e “male”, che consentono al robot di indicare se è “felice” o “triste”.

«Le emozioni – precisa la dottoressa Cañamero – vengono espresse da Nao attraverso gesti e movimenti del corpo anziché espressioni facciali o verbali». La ricercatrice si dichiara inoltre convinta che in futuro i robot potranno essere i migliori compagni dell’uomo. De gustibus. L’iniziativa, comunque, non nasce come la bislacca idea di qualche fanatico ricercatore di robotica, ma fa parte di un progetto – denominato Felix Growing – supportato e finanziato dalla Commissione europea, in virtù del contratto FP6 IST-045169, dicembre 2006-maggio 2010, per il quale è stato previsto uno stanziamento di 2.500.000 euro.

Tra i partner del progetto, volto a colmare il divario emotivo tra robot ed esseri umani, figurano l’Università di Karlsruhe, l’Università degli Studi di Verona, l’agenzia spaziale tedesca Deutsches Zentrum für Luft-und Raumfahrt, L’Università Paris VI Pierre et Marie Curie, l’Università di Montpellier II, la società BrainLAB AG di Feldkirchen, ed il francese Centre National de la Recherche Scientifique. L’obiettivo del progetto è quello di «integrare i robot» nella «dimensione quotidiana della vita umana», rendendoli capaci anche di «far compagnia, divertire e prendersi cura» delle persone (“company, caregiving, entertainment”), «in una dimensione di vita reale» (“into a real-life setting”). E siccome l’interazione dei robot deve avvenire in modo «flessibile ed autonomo», da qui nasce l’esigenza di creare delle «conscious machines».

Sembra proprio che i ricercatori dell’Università di Hertfordshire, finanziati dalle istituzioni europee, vogliano rendere reale la trama di R.U.R. (1920), il dramma dello scrittore ceco Karel Capek, sostituendosi all’ingegnoso dottor Gall, il personaggio dell’opera che, immettendo nei robot i sentimenti del dolore e della paura, aveva determinato la rivolta degli androidi, e la risposta di Robot2 ad Alquista, il capo del reparto costruzioni della R.U.R.: «Noi eravamo macchine, signore, ma la paura e il dolore ci ha fatti diventare esseri con un’anima». Dare un’anima agli androidi, sembra questa l’ultima frontiera della biotecnologia robotica.

 Nao, in realtà, è soltanto l’ultima tappa di un lungo percorso. Qualche mese fa è apparsa la notizia che due sofisticati robot-soldati sono stati arruolati nella polizia di frontiera sudcoreana per perlustrare l’area demilitarizzata che separa la penisola di Yonhap. I due androgeni, armati di tutto punto e dotati di un sofisticato sistema di riconoscimento della voce, sono costati al governo di Seul 207.000 euro l’uno, e sono destinati ad essere i primi di una lunga serie. Utilizzano la temperatura corporea e particolari sensori per captare il movimento di esseri viventi, e sono in grado di allertare immediatamente il comando, dal quale possono ricevere l’ordine di sparare a vista. Secondo fonti governative, i due androidi saranno i progenitori di una serie di robot ancora più sofisticati, che verranno utilizzati per combattere in battaglia. Nella Corea del Sud, infatti, il pur rilevante contingente di leva composto da 655.000 uomini resta sempre assai inferiore rispetto al numero dei soldati di Pyongyang, che supera il milione e duecentomila. Anche la recessione demografica e il basso tasso di natalità impongono a Seul la necessità di ingegnarsi, e così, anziché incentivare la nascita di figli, si ricorre all’arruolamento di robot.

Più allegra appare, invece, la notizia che lo scorso maggio sia stato proprio un robot, al posto del sacerdote o del sindaco, a celebrare le nozze di due giapponesi. Il celebrante, dal simpatico nome di I-Fairy, è un androide realizzato dalla società Kokoro Company Ltd. di Osaka, ed è stato proprio lui, in un ristorante di Hibiya Park, nel centro di Tokyo, a dichiarare formalmente marito e moglie la trentasettenne Satoko Inoue, dipendente della ditta Kokoro, ed il quarantaduenne Tomohiro Shibata, docente di robotica al Nara Institute of Science and Technology. Il costo di I-Fairy è di 57.000 euro e sono già in circolazione tre esemplari: uno in Giappone, uno negli Usa ed uno a Singapore, secondo quanto ha dichiarato il portavoce della società costruttrice Kayako Kido.

empre dal Giappone arriva la notizia del primo robot “affettuoso”, un androide dalle sembianze incredibilmente umane capace di avvolgere le persone con un caloroso abbraccio. La creatura si chiama Telenoid R1, ed è figlio del prof. Hiroshi Ishiguro, uno dei geni della robotica nipponica. Frutto della collaborazione tra l’Università di Osaka e la Advanced Telecommunications Research Institute International (ATR), il robot è stato ideato per essere il più simile possibile all’uomo (“the essential elements for representing and transferring humanlike presence”). È rappresentato con sembianze neutre, né maschili né femminili, e rivestito di un materiale morbido, che ricorda la pelle umana.

 

Il prof. Masatoshi Ishikawa, dell’Università di Tokio, si è divertito, invece, a realizzare due robot in grado di giocare a baseball e capaci di portare nella “strike zone” ben il 90 per cento dei pitches. Il prof. Ishikawa non ha però calcolato che il rischio di un gioco perfetto è la noia.

 

Sempre in tema di sport, bravissimo a bowling è anche Asimo, l’androide ideato e realizzato dalla Honda, il cui nome non è un omaggio ad Isaac Asimov, come qualcuno ha suggestivamente creduto, ma rappresenta, molto più semplicemente, l’acronimo di Advanced Step in Innovative Mobility. Oltre a giocare, Asimo riesce a riconoscere le persone, salutarle e chiamarle per nome, seguire oggetti in movimento e spostarsi nella direzione indicata. Non si sa ancora, però, come risponda nel caso in cui qualcuno gli indichi di andare a quel paese.

 

Non poteva mancare, poi, il robot politically correct in tema di rifiuti casalinghi. L’androgino netturbino è una creatura della Mitsubishi Electric Engineering Co. e dei ricercatori dell’Università di Osaka. Utilizza cinque raggi laser e sofisticati sensori per identificare fino a sei diverse tipologie di plastica, che poi riesce ordinatamente a selezionare ed ammucchiare. Alcuni prototipi, perfezionati grazie alla collaborazione della IDEC Corporation, sono utilizzati come test dimostrativi in due negozi di Osaka e Nara. Entreranno presto in commercio alla cifra di 45.000 euro, ma nessuno ha spiegato quante tonnellate di spazzatura saranno necessarie ad una famiglia per ammortizzare il costo d’acquisto.

In nome delle pari opportunità, non poteva neppure mancare la donna cibernetica. Il nome, Hrp-4c, non è in realtà molto sexy, ma la silhouette è da indossatrice. Infatti, questa creatura uscita dai laboratori del nipponico National Institute of Advanced Industrial Science and Technology, viene utilizzata come modella nelle sfilate di moda. HRP-4C è in grado di produrre espressioni del volto, di camminare e di posare proprio come una top model. I maligni dicono che, tutto sommato, il fatto che al posto del cuore e del cervello abbia un motore alimentato a batteria, non la rende poi tanto dissimile dalle sue colleghe mannequin.

 

Se è vero che i giapponesi primeggiano nel campo della biotecnologia robotica, è altrettanto vero che gli americani – i quali, notoriamente, non amano sentirsi secondi – non hanno voluto essere da meno. Così è nato Robonaut2, androide di seconda generazione prodotto dalla General Motors e sviluppato sotto la supervisione della Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), agenzia governativa preposta allo sviluppo di tecnologie per uso militare.

L’approccio con cui Robonaut 2 entra in contatto con gli amici è molto yankee. Se voi andate su twitter (sì avete capito bene, il robot ha un suo social network personale con 12.000 amici) lui vi accoglierà in questo modo: «Hello World! My name is Robonaut 2; R2 for short». Più americano di così!

 

Robonaut2, nato ufficialmente il 7 maggio 2010, sarà il primo umanoide a raggiungere, il prossimo novembre, la Stazione Spaziale Internazionale, da dove terrà al corrente i 12.000 amici twitteriani delle sulle avventure spaziali. Con le mani R2 è in grado di scrivere, stringere e sollevare oggetti (fino a 10 kg di peso). E, soprattutto, sa maneggiare molto bene il suo iPhone personale.

Così, dopo il robot-sentimentale, il robot-soldato, il robot-celebrante, il robot-affettuoso, il robot-giocatore, il robot-netturbino, il robot-mannequin è arrivato anche il robot-astronauta.

 

Ho iniziato con Asimov e credo sia giusto concludere con il grande maestro della science fiction. Tra le sue 500 opere ve n’è una, in particolare, che merita qui di essere citata. Mi riferisco al romanzo A Boy’s Best Friend. La storia, ambientata in una luna colonizzata dall’uomo, ha per oggetto la famiglia Anderson composta da una coppia di genitori, un figlio unico di 10 anni, Jimmy, ed il suo fido cane-robot, battezzato Robotolo. Un giorno il signor Anderson decide di sostituire il cane cibernetico con un animale vero fatto spedire apposta dalla Terra, e di fronte alle difficoltà di comprensione di Jimmy sulla differenza tra la macchina e l’essere vivente, cerca di spiegarsi in questi termini: «Figliolo, Robotolo è solo una macchina. È stato programmato a comportarsi come si comporta. Un cane invece è vivo veramente (…). Il cane ti ama sul serio. Robotolo è solo condizionato ad agire come se ti amasse».

 

Anche Nao, l’androide dell’Università di Hertfordshire, mostra di provare sentimenti, emozioni, affetti. Può addirittura sembrare che arrivi ad amare. Ma non è così, è solo programmato ad agire come se amasse. Per nostra fortuna.

Ponzio Pilato al Consiglio d’Europa

In un desolato deserto mediatico, qualche rara vox clamans (compresa quella di chi scrive) avvertiva, mesi fa, di un insidioso attacco al principio liberale del diritto all’obiezione di coscienza in caso di aborto.
La concreta minaccia a tale principio giungeva da una proposta di risoluzione presentata al Consiglio d’Europa dalla parlamentare britannica Christine MacCafferty, viscerale attivista pro-choice e strenua assertrice del cosiddetto “diritto all’aborto”, diritto che, lungi dall’essere mai stato codificato, resta per ora relegato tra le ipotesi de jure condendo.
Già il titolo della risoluzione la diceva lunga: “Accesso delle donne alle cure mediche garantite per legge: il problema di un uso non regolamentato dell’obiezione di coscienza”.
Quanto fosse concreta la minaccia e pressante l’influenza delle lobby abortiste, lo dimostra il fatto che la proposta MacCaffery fu approvata a maggioranza lo scorso 22 giugno nella Commissione Affari Sociali, Salute e Famiglia dello stesso Consiglio d’Europa.
Passato il vaglio della commissione, si attendeva la discussione nell’aula dell’Assemblea Parlamentare, con la quasi certezza che vi fossero tutte le premesse per una sconfitta del fronte pro-life. Ed invece è accaduto un miracolo. Il dibattito in aula si è concluso non solo disinnescando la pericolosa deriva abortista, ma addirittura sancendo formalmente l’inviolabilità del diritto all’obiezione di coscienza. Un clamoroso ed inatteso capovolgimento.
Così, la proposta MacCafferty AS/Soc (2010) 18 entrata nell’emiciclo del Palazzo d’Europa con l’eloquente titolo di “Women’s access to lawful medical care: the problem of unregulated use of conscientious objection”, è uscita come risoluzione n.1763 (2010) dal titolo altrettanto eloquente – ma in senso opposto – di “The right to conscientious objection in lawful medical care”, ovvero “Il diritto all’obiezione di coscienza nelle prestazioni sanitarie garantite per legge”.
Secondo la nuova risoluzione n.1763 del Consiglio d’Europa, «nessuna persona, nessuna struttura ospedaliera o istituzione sarà costretta, ritenuta colpevole o discriminata in qualsiasi maniera per il rifiuto di effettuare o assistere a un aborto, di manipolazione umana, di eutanasia o qualsiasi atto che potrebbe causare la morte di un feto o un embrione, per qualsiasi ragione». E sulla base di tale assunto, la stessa risoluzione invita gli Stati membri a «guarantee the right to conscientious objection».
L’esito imprevisto del dibattito e della votazione ha indotto Luca Volontè, capogruppo PPE e valiente matador di questa battaglia, a parlare di «giornata storica per il Consiglio d’Europa» in cui ha trionfato la vita, mentre per la mogia e scornata MacCafferty si è trattato di «una giornata di vergogna» in cui è stata letteralmente mandata al macero la sua proposta di risoluzione.
Infatti, il 7 ottobre 2010 (si noti la data) nell’aula del Palazzo d’Europa viene ribaltata la proposta della parlamentare britannica e approvata una risoluzione in favore dell’obiezione di coscienza con una maggioranza di 56 voti a 51 (si noti il numero).
Quando qualcuno ha parlato di vero e proprio miracolo, a molti non è sfuggita la coincidenza della data del 7 ottobre, anniversario della battaglia di Lepanto e festa della Madonna del Rosario.
A quel provvidenziale risultato politico hanno contribuito in maniera determinante i parlamentari italiani. Ma non tutti, purtroppo. Hanno, infatti, votato a favore della risoluzione Luca Volontè dell’U.D.C., Giacinto Russo dell’A.P.I., Renato Farina, Oreste Tofani, Deborah Bergamini e Pasquale Nessa, tutti del PDL. Altri italiani hanno disertato o sono fuggiti.
Davvero penoso e poco edificante – spiace dirlo – è stato, in particolare, l’atteggiamento tenuto da Dario Franceschini, capogruppo alla Camera del PD e membro del Consiglio d’Europa, il quale, dopo aver assistito all’intero dibattito, ha visto bene di abbandonare l’aula al momento del voto, per non esprimersi in dissenso agli altri parlamentari del gruppo socialista.
Non è moralmente etico, per chi si professa cattolico, assumere comportamenti pilateschi di fronte a simili questioni, secondo logiche legate a mero tatticismo o a meschini calcoli politici di basso cabotaggio.
Non è servito neppure l’accorato ed autorevole appello dell’intera Conferenza Episcopale Europea a convincere i cattolici del partito democratico sulla necessità di tutelare il sacrosanto principio dell’obiezione di coscienza dagli attacchi abortisti.
Da tempo, del resto, ci siamo accorti che ogniqualvolta i Pastori richiamano alla difesa dei valori che Benedetto XVI ha definito non negoziabili, i cosiddetti “cattolici adulti” sono colpiti da un’improvvisa e sospetta ipoacusia.

da Cultura Cattolica, 14 ottobre 2010

Gli scozzesi e il papa

Che gli scozzessi fossero pronti ad accogliere calorosamente il Santo Padre durante il suo ultimo viaggio in Gran Bretagna era pressocchè scontato.

E i fatti lo hanno dimostrato, a cominciare dal saluto rivoltogli in lingua gaelica: ceud mìle fàilte, centomila volte benvenuto! Ma forse uno degli onori maggiori rivolti da quel popolo al Pontefice è stato di avergli dedicato un tartan, il tipico tessuto di lana scozzese, usato soprattutto per la confezione dei kilt. Come in tutti i tartan che si rispettino, anche in quello donato a Sua Santità le diverse tonalità cromatiche hanno giocato un importante ruolo simbolico, a cominciare dai colori nazionali della Scozia (bianco e blu), da quelli vaticani (bianco e giallo), da quelli dello stemma del cardinale Newman (bianco e rosso), e dal colore verde utilizzato per richiamare i licheni che crescono tra le pietre di Whithorn nel Galloway, luogo in cui San Niniano portò per la prima volta l’annuncio cristiano agli scozzesi, più di 1600 anni fa.

Persino nella tessitura e nella trama dei fili sono state simbolicamente ricordate le otto diocesi della Scozia e le 452 parrocchie cattoliche. Se era, quindi, pacificamente prevedibile il sincero e festoso benvenuto al Papa da parte degli scozzesi, altrettanto non lo era quello degli inglesi. Nubi minacciose si erano addensate sulla visita del Santo Padre dalle parti di Londra. In questo caso, però, i fatti hanno smentito le previsioni, e la realtà ha donato scene davvero impensabili, come quella di vedere un Papa parlare a Westminster Hall, tessendo le lodi di San Tommaso Moro.

Per comprendere esattamente la portata storica di quanto è accaduto sarebbe sufficiente leggere l’editoriale apparso sul Telegraph del 16 settembre, dal titolo “Visita del Papa: Assoluti Morali e imperi che scricchiolano”. L’autore è il prestigioso giornalista agnostico e di sinistra Andrew Brown, vincitore, tra l’altro, del Premio Orwell 2009.

Un passo di quell’editoriale merita di essere integralmente riportato: «Abbiamo assistito alla fine dell’impero britannico. In tutti i quattro secoli di storia da Elisabetta I ad Elisabetta II, l’Inghilterra è stata definita come una nazione protestante. I cattolici sono sempre stati gli “altri”, a volte identificati come violenti terroristi e ribelli, a volte visti semplicemente come sporchi immigrati. Il sentimento che questa fosse una nazione prediletta da Dio, derivò da una lettura profondamente anti-cattolica delle Sacre Scritture. Tale sentimento era ancora ben presente quando la regina Elisabetta II durante la sua incoronazione nel 1952 giurò di mantenere la fede protestante come religione di stato. Per tutti quei quasi quattrocento anni sarebbe stata impensabile l’idea di un Papa che prendesse la parola a Westminster Hall per lodare Sir Thomas More, il quale morì per difendere la sovranità pontificia contro quella del re. La ribellione contro il Papa fu l’atto sul quale si è fondato il potere inglese (“foundational act of English power”). E ora che il potere è venuto meno, forse anche la ribellione non ha più ragione di essere».

Questa analisi di Brown la dice lunga sugli effetti della visita di Benedetto XVI nel cuore del potere inglese, anche se io non condivido pienamente l’idea che la ribellione alla Chiesa di Roma abbia costituito il “foundational act of England”. In questo sono d’accordo con Damian Thompson, editorialista cattolico del Telegraph. Non è propriamente corretto, infatti, sostenere che l’Inghilterra abbia scoperto la propria identità solo a seguito della Riforma. In realtà, l’industria e la cultura inglese sono fiorite sotto l’influenza di Roma, e avrebbero continuato a progredire anche se Enrico VII fosse rimasto cattolico. Come, del resto, è accaduto in Germania dove città rimaste fedeli a Roma hanno prosperato come quelle passate alla confessione protestante.

Per comprendere quanto profonda sia la radice cattolica della terra di San Giorgio è sufficiente pensare all’Abbazia di Westminster, luogo simbolo delle antichissime origini cristiane del Paese, la cui soglia è stata varcata per la prima volta da un Successore di Pietro, proprio il 17 settembre 2010. Il nome ufficiale è Collegiate Church of Saint Peter in Westminster, proprio perché al Principe degli Apostoli essa è dedicata. Il riferimento petrino e lo stretto legame con Roma stanno infatti all’origine della chiesa. L’abbazia di Westminster fu costruita tra il 1045 e il 1050 per disposizione di re-santo Edoardo il Confessore, in adempimento di un voto da lui fatto mentre si trovava ancora in esilio in Normandia: se Dio avesse aiutato la sua famiglia a riavere il trono d’Inghilterra, egli avrebbe compiuto un pellegrinaggio a Roma. Una volta diventato re, però, non essendogli possibile lasciare il Paese, gli fu concessa un’apposita dispensa papale, ed il Pontefice commutò il voto nell’impegno a costruire un monastero dedicato a San Pietro. Fu quindi individuato un luogo in cui già si venerava il Successore di Cristo presso Thorney Island, isola del Tamigi, dove nel 616 era stato eretto un piccolo santuario in memoria dell’apparizione di San Pietro ad un pescatore. Da allora ogni anno, tra l’altro, in ricordo dell’accaduto, il 29 giugno i pescatori del Tamigi portano in dono a San Pietro un salmone, che viene ricevuto dall’abate di Westminster.

Fu intorno al 970 che San Dunstano, con l’aiuto di re Edgardo, fece costruire un convento di monaci benedettini cui fu affidata la cura del santuario. Nel 1045 re Edoardo, grazie anche ad una consistente donazione di terreni, diede inizio alla realizzazione della grandiosa chiesa romanica che oggi ammiriamo, consacrata il 28 dicembre del 1065. Per i primi 500 anni della sua storia, quindi, l’Abbazia di Westminter è stata fedele ai predecessori di Benedetto XVI, ed è per questo che l’ingresso del Pontefice in quello storico luogo di culto, dedicato proprio a San Pietro, ha assunto un altissimo valore simbolico, riconfermando quale sia il vero “foundactional act” della fede religiosa inglese. Si è persino avuta l’impressione che il Papa avesse forse più titolo a stare in quella chiesa dell’arcivescovo di Canterbury, il quale – per amor di verità – ha dimostrato al Santo Padre un tale grado di rispetto da far quasi trapelare un riconoscimento di fatto della supremazia della Sede di Pietro, pur se negata sotto il profilo dottrinale. Tutto ciò non deve far dimenticare, comunque, che per secoli l’Inghilterra ha conosciuto una profonda e radicale deriva anticattolica, fatta di odio, persecuzioni e campagne finalizzate ad estirpare dalla società l’antica fede. Chi conosce bene l’attuale situazione in Gran Bretagna sa, però, che i residui dell’antico antipapismo sono oramai ridotti ai minimi termini, e non trovano molto spazio nei media.

Oggi il testimone dell’odio contro la Chiesa di Roma è passato nelle mani delle lobby laiciste. Atei, umanisti, massoni, secularist, assai più ricchi e potenti, rappresentano un nemico comune di tutta la cristianità in Gran Bretagna. Anche per questo mi ha particolarmente colpito vedere riuniti per la comune celebrazione dei Vesperi a Westminster Abbey tutti i rappresentanti delle diverse comunità cristiante della Gran Bretagna. E ancora di più mi ha toccato l’immagine del Successore di Pietro e dell’Arcivescovo anglicano di Canterbury che insieme veneravano la tomba di Sant’Edoardo il Confessore, mentre il coro cantava: «Congregavit nos in unum Christi amor». Perché tutto ciò accadesse ci voleva davvero Benedetto XVI. culturacattolica.it

Come farà la povera Lily May a chiamare “padre” Elizabeth?

Nel 1837, l’anno in cui salì al trono la regina Vittoria, furono introdotte, in tutto il Regno Unito, ferree disposizioni sulla compilazione dei certificati di nascita. Persino il tipo di inchiostro indelebile da utilizzare fu oggetto di specifiche disposizioni. La certezza circa le proprie origini non rivestiva un’importanza solamente giuridica ma anche sociale. Allo Stato spettava il compito di certificare paternità e maternità dei sudditi britannici. Questa centenaria tradizione si è interrotta il 18 aprile 2010 quando per la prima volta in Gran Bretagna un certificato di nascita ha indicato due donne come genitori di una bambina.

Si tratta di Natalie Woods, madre biologica di Lily May, e della sua partner omosessuale Elizabeth Knowles, che nella coppia rivestirebbe il ruolo di “padre”, al posto dell’anonimo donatore di sperma che ha consentito la fecondazione. Ovviamente l’evento è stato definito dagli attivisti gay una «tappa fondamentale» nell’evoluzione del concetto di famiglia, non più legato al mero aspetto biologico. Come tutto ciò sia potuto accadere è presto detto. Lo scorso primo aprile è entrata in vigore in Gran Bretagna quella parte della legge sulla fecondazione in vitro e l’embriologia del 2008 che consente il rilascio di certificati di nascita relativi a figli di coppie omosessuali, sostituendo i termini “padre” e “madre” con quello più neutro di “genitore”.

Ora, a prescindere da ogni considerazione di carattere morale, ciò che appare sconcertante in questa vicenda, dal punto di vista giuridico, è che le autorità britanniche si prestino a manipolare la realtà, attraverso una certificazione pubblica. Un falso di Stato. Un certificato di nascita, infatti, dovrebbe contenere dati autentici e corrispondenti alla verità circa l’origine biologica, laddove conosciuta, di un determinato individuo e non situazioni derivanti dai desideri o dalle fantasie di presunti genitori. Ciò dovrebbe valere ancora di più in una società dominata da una diffusa cultura genetica che, proprio attraverso la fecondazione in vitro, sembra ossessionata dal desiderio di una discendenza che condivida legami di sangue e Dna.

Elisabeth Knowles non ha nessun rapporto biologico con la piccola Lily May, e dichiararla genitore in un certificato di nascita integra semplicemente un falso. Anche se un falso di Stato. In realtà, nel riconoscere i presunti “diritti” delle due donne omosessuali, si sono violati i diritti di un terzo soggetto più debole: la figlia. Oggi la legislazione internazionale e nazionale di molti Paesi riconosce, infatti, il diritto all’identità di un individuo e alla conoscenza dei propri antefatti biologici. Si può ricordare, in proposito, l’art. 20 della Convenzione europea di Strasburgo sull’adozione dei minori, o gli articoli 7 e 8 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, oppure l’art. 30 della Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale.

Proprio quest’ultima disposizione, in particolare, sancisce che le autorità competenti degli Stati contraenti debbano «conservare con cura le informazioni in loro possesso sulle origini del minore, in particolare quelle relative all’identità della madre e del padre ed i dati sui precedenti sanitari del minore e della sua famiglia», e consentire l’accesso a tali informazioni. È per questo che in Italia la legge 28 marzo 2001, n. 149, per esempio, garantisce agli adottati «il diritto incondizionato a conoscere le proprie origini biologiche». Lo Stato non può manipolare la realtà confondendo la parentela biologica con la parentela sociale. E un cittadino che avanza il diritto di chiedere informazioni sulle proprie origini biologiche, non può leggere in un atto pubblico la favoletta secondo cui risulta essere nato da due madri o da due padri. Oggi per generare un essere umano sono ancora necessari due gameti: uno femminile ed uno maschile. Questa realtà, per ora, non riescono a modificarla neppure gli ufficiali di Stato Civile di Sua Maestà britannica. Il Sussidiario, Lunedì 27 settembre 2010

Ospitalità inglese

Shakespeare nel suo Enrico VI faceva dire al Duca di Bedford che «gli ospiti non invitati sono sempre più graditi quando se ne vanno».

 I suoi conterranei del XXI secolo avrebbero, quindi, ragione di mostrarsi infastiditi rispetto alla visita di Benedetto XVI, se non fosse per un piccolo particolare. Il Santo Padre non ha chiesto di andarli a trovare. E’ stato invitato. Così il Papa dovrà sperimentare la rude inospitalità degli inglesi.

Hanno cominciato due atei combattenti, il prof. Richard Dawkins, docente di Oxford, e Christofer Hitchens, celebre giornalista autore del best seller “Dio non è grande”, chiedendo l’arresto del Pontefice per crimini contro l’umanità, non appena quest’ultimo atterri in Gran Bretagna. Il precedente invocato è quello dell’arresto dell’ex dittatore cileno Augusto Pinochet, quando toccò il suolo britannico nel 1998.

Dawkins e Hitchens hanno incaricato gli avvocati Geoffrey Robertson e Mark Stephens, legali esperti nella difesa dei diritti umani, di procedere contro Benedetto XVI in ordine alla sua asserita complicità, quando rivestiva la carica di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, negli episodi di pedofilia commessi da religiosi. I due avvocati, contestando la possibilità che il Papa possa avvalersi dell’immunità diplomatica –in quanto la Santa Sede non sarebbe uno stato riconosciuto dalle Nazioni Unite –, hanno valutato la possibilità di richiedere al Crown Prosecution Service l’avvio di un procedimento penale a carico di Joseph Ratzinger.

 In alternativa, c’è l’ipotesi di iniziare un’azione civile, oppure di deferire il caso alla Corte Penale Internazionale. «Questo è un uomo», ha inveito l’esimio Prof. Dawkins, «il cui primo istinto, quando i suoi preti sono stati scoperti con le mutande abbassate, è stato quello di coprire gli scandali e di intimare alle giovani vittime il silenzio». «Quest’uomo», gli ha fatto eco Hitchens, «non è al di sopra della legge; la pedofilia è un reato penale e non si può liquidare con riti di contrizione o risarcimenti da parte della chiesa, bensì attraverso la giustizia e scontando le relative pene».

I due confidano di trovare in Gran Bretagna un giudice sensibile, come quello che l’anno scorso, su richiesta di attivisti pro-palestinesi, ha emesso un mandato di cattura a carico di Tzipi Livni, ex Ministro degli Esteri israeliano, per le asserite atrocità commesse durante l’operazione militare nella striscia di Gaza, denominata “Piombo Fuso”. Il mandato fu ritirato dopo che la Livni ha deciso di rinunciare al suo viaggio a Londra.

 Negli ultimi mesi le cose per il povero Benedetto XVI, si sono messe persino peggio. Nel frattempo, infatti, si è costituito un coordinamento tra tutte le forze che si oppongono alla visita papale, denominato “Protest the Pope”, il quale si è fatto promotore di diverse iniziative, tutte reperibili sul sito web protestthepope.org.uk. Del coordinamento fanno parte le principali associazioni laiche britanniche, tra cui Atheism UK, la British Humanist Association, il Central London Humanist Group, il Council of ex-Muslims of Britain, i Doctors4Justice, la Gay & Lesbian Humanist Association, la Humanist Association of Northern Ireland, la Humanist Society of Scotland, l’International Humanist and Ethical Union, il Liverpool Humanist Group, i Marches Secularists, la National Secular Society, il North London Humanists, la One Law for All, il gruppo OutRage!, il Plymouth Humanist Group, il Richmond upon Thames LGBT Forum, le Southall Black Sisters, la Women Against Fundamentalism, ed i Young Freethought.

In meno di tre settimane sono riusciti a raccogliere venticinquemila firme in calce ad una petizione inviata al governo britannico per chiedere non solo che venisse cancellata la visita papale, ma anche che lo stesso Pontefice venisse ufficialmente definito «unsuitable guest of the UK government» (ospite indesiderato), affinché non gli fosse consentito di proferire pubblicamente le «harsh, intolerant views and the practices and policies of the Vatican State».

Seguono materiale e gadget appositamente confezionati contro la visita, come una T-shirt con la scritta “Pope Nope” (No al Papa!), che verranno utilizzati nella “Big March” che si terrà il 18 settembre, al clou della visita londinese di Benedetto XVI. Si tratta di una processione laica che partirà da Hyde Park Corner, dove all’una e mezza è prevista un’assemblea, per raggiungere, due ore più tardi, la sede del Primo Ministro al numero 10 di Downing Street, dopo aver attraversato Piccadilly Circus, Haymarket, Trafalgar Square e Whitehall.

 La notte prima della “Big March”, è invece prevista una veglia laica dalle sette di sera a mezzanotte circa, celebrata da Peter Tatchell il noto attivista gay per i diritti degli omosessuali. Una «secular revelry», in pieno stile laico, in cui si distribuiranno cibo e bevande, si danzerà, si ascolterà musica e, soprattutto, si offenderà il Santo Padre al grido di “Nope Pope” (questo il programma ufficiale). Due ore prima dell’inizio della veglia, invece, il gruppo The Richmond Coalition Against The State Visit protesterà, dalle cinque alle nove di sera, davanti alla St. Mary’s University College di Twickenham, dove è prevista la presenza del Papa. I più facinorosi hanno pure pensato di bloccare la strada al corteo che accompagnerà il Pontefice.

 Lì davanti all’università, peraltro, quelli della Richmond Coalition Against The State Visit troveranno un altro gruppo di contestatori: si tratta di alcuni residenti del quartiere, che protesteranno per il fatto che la loro zona verrà offesa dalla presenza di un Papa. Non credo esistano simili precedenti nella storia delle visite papali. Neppure quando un Pontefice si sia recato in terra infidelium.
Questa villana reazione, i cui toni esacerbati rasentano il ridicolo, non fa davvero onore al popolo inglese. Benedetto XVI, però, non è uomo che si possa facilmente intimidire. Il Papa, infatti, si recherà a Londra come Vicario di Cristo, e se là non fosse accolto, o se le sue parole non venissero ascoltate, si limiterà, secondo l’esortazione evangelica, ad uscire da quella città, scuotendo la polvere dai suoi calzari. Il Signore, del resto, ha promesso che «nel giorno del giudizio la terra di Sodoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città» (Mt. 10.15). Il paragone delle due antiche località bibliche non potrebbe essere più azzeccato.

Aborto offerto in busta paga: Marie Stopes International l’ha inserito nei benefit per i dipendenti

Torna alla ribalta Marie Stopes International, l’organizzazione abortista britannica che si ispira alla celebre razzista ammiratrice del F?hrer.
Dopo la controversa pubblicità televisiva pro aborto, e lo scandaloso appoggio alla politica cinese del figlio unico (il famigerato jihua shengyu), gli eugenisti londinesi di Conway Street hanno stupito il mondo con un’ultima trovata.
L’organizzazione ha deciso, infatti, di concedere ai propri dipendenti – 430 unità che operano nei nove centri del Regno Unito -, un benefits package, ovvero una serie di servizi agevolati, come parte accessoria della prestazione lavorativa. Una sorta di premio produzione in natura.

Si tratta di abbonamenti scontati a palestre e centri benessere, di viaggi a tariffe ridotte, della possibilità di partecipare a programmi dietetici a prezzi agevolati, e simili amenità. Fin qui nulla di male. Il punto è, però, che nel pacchetto di quei servizi rientra anche l’aborto gratuito.
Sì, ai dipendenti di Marie Stopes International, ai propri partner e ai relativi figli, viene offerta come benefit, la possibilità di accedere gratis al core business dell’organizzazione: aborto, sterilizzazione maschile e femminile, e family planning.

Colpisce la motivazione di simile generosità nei confronti dei dipendenti, che vengono espressamente premiati da Marie Stopes International proprio per la loro “i>dedication, passion and hard work“. Dedizione, passione e duro lavoro nel procurare aborti. Il tono, davvero macabro, più che ricordare il freddo umorismo inglese, fa venire in mente il Galgenhumor, l’ilarità patibolare germanica. La dedizione e la passione dei dipendenti nel dare la morte, viene premiata con la morte, ovvero con l’accesso gratuito per gli stessi dipendenti e familiari all’eliminazione dei figli indesiderati.

Mors mortem invocat, verrebbe da dire.
L’aspetto drammatico – che ha in realtà ha poco di umoristico – coinvolge il tentativo di banalizzare una tragedia umana com’è quella dell’interruzione di una gravidanza.
In questo processo ideologico di trivialization, si è ora arrivati a porre sullo stesso piano l’abbonamento agevolato a una palestra con lo sconto sull’eliminazione di un essere umano. Ed è persino passata l’idea che l’aborto possa far parte di un servizio accessorio alla retribuzione di un lavoratore dipendente. Qui, in realtà, siamo oltre l’ideologia. Si tratta di mero cinismo affaristico, di puro business, di avida speculazione sulle difficoltà, i bisogni e i desideri degli esseri umani.

Marie Stopes International pratica circa 65mila aborti l’anno, più o meno il 30% di tutti gli aborti realizzati nell’Inghilterra e nel Galles, con un vorticoso giro d’affari che porta nelle casse dell’organizzazione circa 100 milioni di sterline l’anno, un terzo delle quali proviene da fondi pubblici, a titolo di rimborso per servizi sanitari in campo sessuale e riproduttivo. Anche qui, come spesso accade, dietro tanti bei proclami che inneggiano alla salute della donna, alla sua libertà sessuale, all’emancipazione femminile, all’inarrestabile progresso scientifico, si celano, in realtà, interessi economici multimilionari. Ma è una società malata quella in cui si accetta il principio che per l’avidità di pochi possano essere eliminati esseri innocenti e indifesi. La storia ha insegnato che l’avidità porta inevitabilmente al sopruso, e che tutte le scelte contrarie al diritto naturale non tardano a presentare, prima o poi, un conto salato.

Avvenire 24-08-2010

Preti e gelati

Preti e gelati. Quale può essere il nesso tra questi due elementi, a parte il legittimo e innocente piacere di assaporare un sorbetto da parte di un religioso? A rendere letteralmente strano il connubio ci pensa l’ennesimo attacco alla Chiesa cattolica sul filone ossessivo dei preti gay.

Questa volta si tratta di una pubblicità. L’immagine maliziosa, diffusa in Gran Bretagna, è quella di due sacerdoti che stanno per baciarsi, accanto alla scritta: «Noi crediamo nella salivazione».

L’elemento irriverente e sacrilego sta nel pessimo gioco di parole tra “salvation”, l’opera di salvazione dell’anima, e “salivation”, la secrezione di saliva, chiara allusione ad un French kiss. Con l’aggiunta di una sola vocale sono riusciti a trasformare la provocazione in profanazione. A commissionare l’offensiva reclame è stata la società londinese che ha reso celebre il gelato italiano nel Regno Unito.

Si tratta, infatti, della Antonio Federici’s Gelato Italiano, premiata ditta che da oltre cento anni (1896) confeziona il celebre manufatto dolciario che pare sia stato inventato dagli arabi quando scoprirono, durante l’occupazione della Sicilia nel IX secolo, le neviere iblee. Sulla qualità dei prodotti della ditta londinese non v’è nulla da ridire, visto che ha persino ottenuto il primo premio per il “miglior gelato del mondo” dall’International Ice Cream Consortium (IICC) nel 2009. Sul buon gusto dell’iniziativa pubblicitaria, invece, da dire ve n’è molto. Come era prevedibile, l’empia reclame ha suscitato una veemente protesta da parte di consumatori cattolici, i quali si sono rivolti alla Advertising Standards Authority (ASA), l’ente che vigila sulla correttezza e liceità della comunicazione pubblicitaria. La provocatoria iniziativa commerciale, infatti, non può essere archiviata come una semplice caduta di stile, per quanto discutibile e di dubbio gusto. Lo dimostrano, tra l’altro, le parole di Matt O’Connor, direttore creativo dell’azienda, che nel difendere l’operazione di marketing, si è appellato espressamente all’indignazione che regna nell’opinione pubblica britannica sull’omosessualità dei preti cattolici.

O’Connor, confidando nell’influenza della potente lobby gay, è arrivato a sfidare l’ASA con un provocatorio auspicio: «Ben vengano le indagini». L’azienda è convinta, infatti, che quella pubblicità, se può far indignare qualche retrivo bigotto, in realtà «celebrates homosexuality», e inoltre «fa espresso riferimento al recente episodio dei tre preti scoperti a frequentare night club riservati ai gay». In nome della sacra laicità, i responsabili marketing della Antonio Federici’s Gelato Italiano sono arrivati addirittura a mettere in discussione il potere di decisione dell’ASA sul caso, in quanto, a detta degli stessi responsabili, tale ente non può arrogarsi il ruolo di «moral guardian». Questo sì che sarebbe un sacrilegio della politically correctness.

 Il fatto è che, approfittando cinicamente del vento anticattolico che soffia in Gran Bretagna (e non solo), la premiata gelateria ha lanciato una campagna pubblicitaria dal titolo “Il gelato è la nostra religione”, nella quale la raffigurazione dei preti gay è soltanto l’ultima delle provocazioni. Lo scorso giugno, infatti, la stessa azienda aveva fatto pubblicare l’immagine di una suora incinta nell’atto di gustarsi un gelato, accanto alla frase: «concepito immacolatamente». Furono più di quaranta i ricorsi presentati allora all’ASA da parte di cattolici profondamente indignati per la blasfema offesa del concepimento di Nostro Signore. L’ASA – che non pare brilli per solerzia e celerità – sta ancora valutando la possibilità che un simile messaggio commerciale possa ritenersi offensivo. Anche in quel caso O’Connor, forte della deriva anticattolica internazionale, (che proprio a giugno raggiunse l’apice con il blitz in Belgio), ha difeso l’iniziativa definendola una «pubblicità intelligente, provocatoria ed iconoclasta».

Nel tentativo di far breccia tra i detrattori dei papisti ed invocando le leggende nere che circolano sulla Chiesa, il direttore creativo ha precisato che quell’immagine, in realtà, «intende mostrare qualcosa di assai più profondo», ovvero «le orribili storie di migliaia di giovani donne irlandesi rinchiuse come schiave nei conventi dalla Chiesa cattolica, e a cui le suore hanno sottratto i figli, perché ritenute delle “degenerate”».

Il bello è che O’Connor ha affermato di essere egli stesso, da buon irlandese, un autentico cattolico. Quando ho letto queste dichiarazioni mi è subito venuta in mente la riflessione esternata da Benedetto XVI ai giornalisti durante il volo verso il Portogallo lo scorso 11 maggio. Proprio in quell’occasione, infatti, il Santo Padre aveva denunciato il pericolo del “fuoco amico”, ed aveva amaramente ammesso che gli attacchi più pericolosi e subdoli sono quelli che avvengono all’interno del mondo cattolico e della stessa Chiesa. Non voglio essere profeta di sventura, ma temo che ce ne accorgeremo durante il prossimo viaggio che il Papa ha in programma di fare proprio in Gran Bretagna. Sospitet eum Deus! culturacattolica.it

Gli inquietanti elogi dell’Economist per Fini

Da tempo circolano voci su presunte affinità elettive tra il Presidente della Camera Gianfranco Fini e la massoneria.
Qualcuno parla già di un Fini in grembiule.
I più maligni hanno addirittura intravisto un richiamo subliminale nel nome scelto per i nuovi gruppi parlamentari “Futuro e Libertà”.

Troppo simile a “Giustizia e Libertà“, la celebre loggia coperta di piazza del Gesù, destinata a riunire i fratelli più in vista, e che in passato aveva accolto anche l’ex presidente del Senato e senatore a vita Cesare Merzagora, i generali Giuseppe Aloja e Giovanni De Lorenzo, e perfino il ras fascista Giulio Caradonna.
Pare che anche Cuccia, Carli e altre eminenti figure della finanza illuminata abbiano fatto parte della loggia che poi confluì nel Grande Oriente (1973), obbedienza ufficialmente riconosciuta dalla Grande Loggia Unita d’Inghilterra.

Né è passato inosservato il fatto che Fini, nel febbraio del 1995, abbia scelto proprio Londra, e non a caso la Chatam House – vero e proprio santuario massonico dei poteri fortissimi -, per celebrare il proprio autodafé laico, rinnegando le ingombranti origini fasciste e scaricando Benito Mussolini tra i detriti della Storia. Ragionavo su queste circostanze, quando lo scorso 5 agosto ho letto un interessante editoriale dell’Economist intitolato “Signor Fini, where do you stand by?“.

In quell’articolo il Presidente di Montecitorio veniva presentato come “the most able“, il più abile dei politici italiani attualmente sulla scena pubblica, un vero “liberal” e, soprattutto, “the most keen to limit the Catholic church’s influence over Italians’ lives“. Sì, proprio così, il più determinato a limitare il potere di influenza della Chiesa cattolica sulla vita degli italiani.
Beh, è davvero singolare che proprio l’Economist – prestigiosissimo foglio influenzato dalla massoneria britannica e da Chatham House – si sia sbilanciato in questo modo a favore di Fini.

Le evidenti influenze di loggia sull’Economist, peraltro, sono tali da aver costretto persino un moderato come Pier Ferdinando Casini a denunciare una “manina” della massoneria internazionale dietro gli attacchi violenti condotti contro il Vaticano e la Santa Sede proprio dal quotidiano di St. James’s Street.
Singolare anche che molte delle analisi critiche sulla situazione italiana denunciate da Fini, a partire dalla debolezza culturale della politica (“weaknesses in the political culture“), fino alla necessità di limitare l’ingerenza della Chiesa (“separation of church and State“) corrispondano esattamente alle analisi fatte dall’Economist nel 2007, quando nel formulare l’index of demo cracy ha declassato l’Italia tra le democrazie di serie B, definendola “flawed democracy“, insieme a Paesi del Sudamerica e dell’Est Europa.

Anche le posizioni finiane sulla fecondazione artificiale – business attorno al quale, in Gran Bretagna, ruota una girandola di milioni – coincidono esattamente con quelle dell’Economist. Frasi come “le leggi si devono fare senza il condizionamento dei precetti di tipo religioso” (pronunciata da Fini all’incontro con gli studenti di Monopoli del 18 maggio 2009), o “la laicità delle istituzioni significa affermazione chiara del confine che deve separare la sfera privata rispetto a quella religiosa” (discorso al Congresso di AN del 23 marzo 2009), o ancora “la differenza non è tra laici e cattolici, ma tra laici e clericali” (Festa del PD di Genova, 26 agosto 2009), sembrano tratte da un editoriale di John Micklethwait.
Il percorso della conversione laica ed illuminista del Presidente della Camera sembra non tralasciare nessuna delle priorità iscritte nell’agenda politically correct tanto cara alle lobby massoniche.
Coincidenza anche il fatto che l’accusa lanciata a freddo da Fini, nel dicembre 2008, contro i presunti silenzi della Chiesa cattolica nei confronti delle leggi razziali del 1938, abbia rappresentato un altro dei cavalli di battaglia anticattolici dell’Economist.

Se Fini avesse studiato, però, avrebbe saputo che Pio XI è stata la sola personalità pubblica del suo tempo a opporsi apertamente a Mussolini per la sua politica antisemita, arrivando a definire pubblicamente, il 15 luglio 1938, quella politica una “vera apostasia” del cristianesimo. Così come il 21 luglio dello stesso anno, ricevendo in udienza gli assistenti ecclesiastici di Azione Cattolica, il Santo Padre ricordò che “cattolico vuol dire universale, non razzistico, nazionalistico, separatistico“, e che le ideologie antisemite finiscono “con non essere neppure umane“. Nella storia sono rimaste impresse pure le parole di Pio XI rivolte, il 28 luglio 1938, agli alunni di Propaganda Fide: “Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali (…) La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana“.

Fini avrebbe dovuto anche sapere che in quegli anni vigeva in Italia un potere dittatoriale che non consentì, attraverso l’uso della censura, la pubblicazione di una serie di articoli di Civiltà Cattolica contro la deriva razzista dell’antisemitismo.
Tornando all’attualità, anche l’ultima boutade goliardica dell’Economist sulla ridefinizione dei confini d’Europa non pare sia stata esattamente compresa nella sua reale portata. Com’è noto, nel recente articolo intitolato “Redrawing the Map” (ridisegnando la cartina), si nota che l’Italia risulta divisa in due all’altezza di Roma, che viene accorpata al sud ed alle isole, per formare una nuova nazione dal nome poco elegante di Bordello. Si è parlato di odioso antimeridionalismo, di volgare disprezzo per il Sud del nostro Paese, di becero leghismo in salsa anglosassone.
In realtà, però, per gli esperti di cose d’Oltremanica è stato subito chiaro che l’attacco dell’Economist non riguardasse tanto il Mezzogiorno d’Italia (che la massoneria inglese ha peraltro contribuito a “liberare” dai Borboni), o il potere romanocentrico. Il vero obiettivo era lo Stato Città del Vaticano, quella aborrita Santa Sede, considerata la pestifera sentina di tutti i mali d’Italia. E’ proprio lì, nella Babilonia luterana che non è stata purificata dalla Riforma, che per i soloni dell’Economist si insedia il maggiore ostacolo ad una completa evoluzione illuministica e liberale del nostro Paese.

Basti pensare che lo stesso giorno in cui è stato pubblicato l’elogio di Fini, lo scorso 5 agosto, l’Economist ha dato spazio ad un ennesimo articolo al vetriolo contro la Chiesa cattolica, dal titolo “The Void within“, il vuoto all’interno, denunciando uno stato di “quasi teocracy“, un inspiegabile “attaccamento atavico” alle gerarchie vaticane, e arrivando ad evidenziare la differenza tra “cattolicesimo” e “cattolicismo”; per concludere con una riflessione filosofica: “l’Illuminismo europeo può aver posto fine a quella sorta di formale teocrazia nella quale i papi guidavano gli eserciti e i re governavano per diritto divino, ma per un’intricata combinazione di circostanze l’autorità della Chiesa e quella dello Stato, in Europa, sono rimaste intrecciate”. Quando ho letto le lodi sperticate dell’Economist a Gianfranco Fini, considerato il più abile e deciso politico italiano, capace di contrastare lo strapotere vaticano e la nefasta influenza della Chiesa cattolica nella vita degli italiani, mi sono fatto qualche idea in più sulla svolta politico-esistenziale del Presidente della Camera. Dalle parti di Chatham House non amano sprecare parole.
Lì, davvero, nulla è casuale (http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=17&id_n=18930 )