The Coldplay: “Christmas Lights”, una nostalgia senza nome

“E’ sera, i pensieri si accavallano mentre i miei passi percorrono le strade del centro. Tantissime lacrime, un oceano avvelenato. E’ Natale. Ma lei se ne è andata. Tutte queste luci non mi dicono più niente e mi acciecano. Eppure a tratti le guardo come se fossero una fiaccola di speranza. Canterò stonato, come un ubriaco in questa città. Canterò di quanto ti ho sempre amato e di quanto ti amerò sempre. Potessero splendere per sempre queste luci di Natale, potessero riportarmi indietro lei, potessero cancellare tutto il dolore, potessero davvero illuminare le strade e fare esplodere i fuochi d’artificio che ho dentro. E poi splendere per sempre.”

La situazione è nota, già vista, già letta: un addio tra due innamorati e la malinconia delle feste, quando si è da soli.La musica un po’ facile, certamente commerciale (e il titolo natalizio aiuta a vendere).
Eppure le immagini, semplicissime, sono allo stesso tempo potenti ed evocative. Come se una nostalgia molto più grande percorresse tutta la canzone.
La prima parte è dolce e lenta, basata su un giro di piano malinconico e sul canto quasi parlato(il solito Chris Martin!), poi la voce si apre e gli altri strumenti fanno il loro ingresso convincente; infine ancora un arresto e un cambiamento anche nel ritmo, che ora pare una struggente ballata irlandese d’addio.

Struggente pure il ritornello, ripetuto diverse volte:.

“When you’re still waiting for the snowfall, doesn’t really feel like Christmas at all”
Quando stai ancora aspettando che arrivi la neve, non sembra davvero per nulla che sia Natale.

Com’è vero! Se non arriva quello che stai aspettando, quello che più desideri, non sembra davvero per nulla di vivere.

Beato chi non aspetta la neve.
Beato chi sa che a Natale arriva davvero Qualcuno che riempie la città.

UOMINI DI DIO

La storia è vera: nel 1996, in Algeria, i monaci benedettini del monastero di Tibhirine, sulle montagne dell’Atlante vengono rapiti e giustiziati, probabilmente da un gruppo di estremisti del GIA (Gruppo Islamico Armato), anche se l’inchiesta giudiziaria è ancora in corso e sembra suggerire l’ipotesi di una complicità da parte dell’esercito governativo, fatto che amplierebbe lo scenario all’orizzonte della politica internazionale.

Il film di Xavier Beauvois, che ha vinto il gran premio della giuria al Festival di Cannes del 2010, non si presenta, però, né come un documentario di denuncia contro l’islam integralista, né come un’inchiesta sulla verità dei fatti o sui controversi rapporti tra Francia e Algeria, né tantomeno come un racconto agiografico celebrativo dell’eroismo dei monaci.

Si tratta piuttosto di una fotografia senza sbavature della vita di un convento qualsiasi, abitato da uomini normali. Come se la macchina da presa si trovasse a passare lì per caso e aprisse la porta di una casa che potrebbe essere benissimo quella a fianco.

Per questo la loro storia straordinaria e drammatica può essere letta come la storia di tutti. Ed è in questo senso che va inteso il titolo originale francese “uomini e dei”, citazione del salmo 81, nel quale si afferma la dignità dell’uomo (Io ho detto: “Voi siete dei, siete tutti figli dell’Altissimo”) che consiste nell’essere chiamato a collaborare attivamente alla redenzione del creato nella relazione profonda con Dio e con gli uomini, ma nel quale se ne ricorda anche la fragilità ( “ma certo morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti” ).

La sottolineatura di questa normalità dei protagonisti del racconto emerge con chiarezza attraverso brevi scorci della loro vita quotidiana. Ecco allora una variopinta e chiassosa festa musulmana alla quale i padri partecipano accolti affettuosamente dalla popolazione del paesino; ecco il vecchio padre medico che cura con amorevolezza donne e bambini di ogni provenienza e religione; oppure il dialogo profondissimo con una ragazza che gli chiede che cosa vuole dire innamorarsi; ecco ancora il lavoro nei campi, il lavare i piatti; trova posto in quest’elogio dell’umano anche la descrizione della paura, delle incomprensioni tra i padri, che non sanno decidere se andarsene o restare, di fronte alle minacce sempre più serie dei guerriglieri islamici, (“Io rifiuto il suicidio collettivo”; “Io la protezione di un governo corrotto”)

Tutta questa normalità, però, non è altra cosa rispetto alla relazione con Dio, ne è anzi la continuazione e l’effetto, come ben sottolineano i salmi cantati dai monaci nei momenti di preghiera, che sembrano commentare gli avvenimenti, fornendone una visione più ampia, accolta nel volere imperscrutabile di un Padre che ama.

Questa profonda appartenenza a Dio e agli uomini, che viene pure messa in discussione (“Perché la fede è così amara?” dirà uno dei padri nella lettura durante i pasti, citando il monaco eremita Carlo Carretto), viene descritta come l’origine della capacità di rapporto con il popolo musulmano, estraneo anch’esso alla violenza della guerriglia e capace di incontro e di confronto proprio perché cosciente della propria identità di fronte ad Allah. “E niente esiste, tranne l’Amore che si manifesta; e niente esiste, tranne il Bambino”, recita un salmo che i monaci cantano nella notte di Natale, dopo un primo burrascoso incontro con i guerriglieri.

Tantissimo silenzio, tantissimi sguardi e primi piani, una scelta di regia, sobria e semplicissima nello scegliere le inquadrature, descrivono gli avvenimenti in un crescendo di intensità, delineando le figure umanamente ricche e complesse di uomini che si arrendono semplicemente a Dio. Come Christof, che attraversa una profonda notte dello Spirito, dalla quale esce dopo lunghissima preghiera e dopo un dialogo tesissimo con il priore Christian, che gli ricorda l’Amore per il quale vive:

“E’ utile essere martiri? Si è martiri per essere bravi?”

“No, si è martiri per Amore”.

Tra i documenti del Convento venne trovata questa lettera del padre priore:

Testamento spirituale del Padre Christian de Chergé

Quando si profila un ad-Dio

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.

Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me : come potrei essere trovato degno di tale offerta ? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.

La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.

Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.

Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.

Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno la “grazia del martirio”, il doverla a un algerino chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam.

So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. ? troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.

L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa; sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.

Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.

Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.

Di questa vita perduta, totalmente mia, et totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.

In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!

E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!

Insc’Allah

Algeri, 1? dicembre 1993
Tibhirine, 1? gennaio 1994
Christian”

“Departures”. L’opera d’arte della vita e della morte

In che cosa consiste la realizzazione personale? Che cosa vuole dire avere successo nella vita? A queste domande ciascuno tende a fornire una risposta diversa e unica, legata ovviamente alle proprie vicende personali.
Eppure non è certo peregrino affermare che nell’immaginario comune la realizzazione personale raramente viene considerata possibile in tutte le condizioni di vita. Non si parla qui di situazioni di estremo disagio sociale, personale e psicologico, che evidentemente gridano vendetta al cielo, reclamano giustizia sulla terra e per affrontare le quali ci vuole ben altro che la buona volontà. Si parla invece di ambiti dell’agire umano che pur appartenendo alla sfera della vita per così dire normale, vengono censurati, evitati, considerati inadatti al successo, che si colloca invece lontano, in una sfera più alta, spesso irraggiungibile, ma sempre desiderata.

Sembra rispondere a questi interrogativi il film Departures (di Yojiro Takita, Giappone 2008, Italia 2010, Oscar come miglior film straniero), che tratta apparentemente tutt’altro tema.
Il protagonista è un giovane musicista, Daigo, che suona il violoncello con grande passione. La sua orchestra, però, chiude per problemi economici e Daigo, che non è abbastanza bravo per farsi assumere da un’altra orchestra, rimane senza lavoro. Decide così insieme alla moglie, di ritornare al paese tra le montagne della sua infanzia, dove la vita costa meno e di andare ad abitare nella vecchia casa dei suoi genitori. Qui cerca subito lavoro, rispondendo ad un annuncio piuttosto vago, che allude a dei viaggi, a delle partenze (departures). L’alone di mistero gli viene però ben presto svelato: il viaggio è quello della morte ed il lavoro consiste nel preparare di fronte ai parenti i cadaveri dei defunti per il loro funerale (in giapponese nokanshi). Questo l’antefatto.

Il film, che ha momenti commoventi ma che non di rado fa anche sorridere, è il racconto delicatissimo e finissimo del percorso che porterà Daigo non solo ad accettare, ma anche ad amare questo lavoro con una passione molto più intensa di quella che lo legava alla musica. E in questo percorso verranno ricomposti tutti i tasselli disordinati della sua infanzia segnata da alcuni avvenimenti dolorosi, ma anche quelli della sua vita coniugale.

Nel racconto viene descritto con profondità il contrasto naturale tra la vita e la morte. Tutto nell’uomo anela a vivere, tanto che nessuno vuole sentire parlare di morte. E tutto il paese disprezza chi svolge un lavoro nel quale si è costretti a toccare dei cadaveri.

Anche Daigo si sente male in occasione del suo primo incarico e ha bisogno di riaffermare di essere vivo, una volta tornato a casa. Questo grido di rifiuto della morte si esprime attraverso una cura particolare che il protagonista comincia a rivolgere al proprio corpo. Si reca periodicamente ai bagni pubblici che frequentava da bambino e resta immerso a lungo nell’acqua calda. Il bagno diventa un luogo di recupero della sua fisicità, ma anche di contemplazione della bellezza. Anche in quell’angolo sperduto di paese tra le montagne, c’è infatti un artista.
La vecchina che gestisce i bagni, una figura materna e struggente, ha trascorso l’intera vita a svolgere umilmente, ma con passione il lavoro faticosissimo di trasportare la legna che serve a scaldare l’acqua, facendone un’arte. (“L’acqua viene dal sottosuolo ed è scaldata dal fuoco di legna. Per questo è così vellutata. E anche se è caldissima non punzecchia la pelle”)

Daigo recupera una fisicità nuova anche nell’abbracciare la moglie, il cui corpo morbido e profumato lo tiene saldamente ancorato alla vita. Si tratta però di un rapporto complesso, che è segnato inizialmente dalla mancanza di sincerità da parte di entrambi. Avrà bisogno di tempo e di dialogo per essere restituito alla sua verità.

Per sentirsi vivo, Daigo ha bisogno però anche di suonare: di notte, con il vecchio violoncello di quand’era bambino, ricordando così all’improvviso i suoi genitori e alcuni avvenimenti dolorosi della sua infanzia, che aveva sempre evitato di affrontare; in pieno giorno, all’aperto, nel verde delle montagne. La musica piano piano cessa così di essere uno strumento di affermazione della propria bravura e diventa invece occasione di dialogo con se stesso e di scavo nella memoria.

Infine, in questo cammino di riflessione sulla vita e sulla morte, che è costretto a percorrere il protagonista, e con lui lo spettatore, occupa sicuramente un posto di rilievo il suo datore di lavoro, padrone della ditta e figura paterna e accogliente.
Il suo carattere viene svelato lentamente, attraverso il lavoro che svolge e i brevi dialoghi con Daigo.
Nonostante abbia a che fare quotidianamente con i cadaveri, l’uomo sembra quieto e realizzato, sereno e dolce nei rapporti con le persone. Non è secondario neppure il fatto che ami il buon cibo, che sia in grado di mangiare avidamente subito dopo aver preparato un defunto. Il segreto si scopre strada facendo. E consiste nella sua capacità di accettare la morte come parte dolorosissima, ma naturale dell’esistenza. Solo così egli può stare quietamente di fronte al dolore delle famiglie che lo chiamano a prendersi cura dei loro cari, può incontrarle con un’umanità dalla quale tutti rimangono incantati. E soltanto così può fare anche lui del proprio lavoro un’opera d’arte. Si definisce infatti “thanatoesteta”, cioè una persona che restituisce bellezza ai morti.

Di fronte a lui Daigo, che per tutta la vita ha rincorso la propria realizzazione come artista, il proprio successo professionale in un’attività solitamente oggetto di ammirazione sociale, si accorge di essere nato per qualcos’altro. Capisce che l’arte non ha a che fare soltanto con la bellezza, ma con l’amore. E per questo può nascondersi anche nella persona più umile, nel luogo più remoto della terra. Dove i ritmi lenti, la memoria del passato, la natura estrema e bellissima della montagna dicono che vale la pena di vivere e di morire.

“Dare ad un corpo divenuto freddo una bellezza che durerà per sempre, con calma, con precisione, ma soprattutto con tanta amorevolezza, pur nella tristezza dell’ultimo addio; quanto viene eseguito per preparare il defunto, immersi nel silenzio pieno di pace, mi appare meraviglioso.”

Cantare di giorno: Paolo Nutini

Si sa che in occasione dei concerti delle grandi star del rock, oppure nei raduni musicali che durano giornate intere, quelli che contano suonano di sera. Dalle nove in poi. Ma meglio le dieci. Gli sconosciuti salgono sul palco prima di loro, di solito quando c’è ancora luce, e cercano di intrattenere una folla infastidita e in attesa di qualcun altro. Non a caso questi gruppi vengono chiamati supporters, cioè più o meno “sostenitori, fiancheggiatori”. Magari questi sono bravissimi, ma il fatto che suonino di giorno la dice lunga sulla loro posizione in classifica. Perché la notte è dei grandi.

Nel corso del consueto concerto romano del Primo maggio che ha avuto luogo quest’anno, è stato invitato a suonare Paolo Nutini, ventitreenne musicista italo-scozzese. Ha suonato dalle ore otto e quaranta alle ore nove e zero tre di sera . Quindi in una fascia oraria di quasi rispetto, ma seguito da altri artisti che nell’intenzione dovevano evidentemente essere più conosciuti e/o più capaci di condurre la serata fino alle ore ventiquattro e trentuno (stiamo parlando di artisti notissimi, del calibro di Sabrina Impacciatore, Claudio Santamaria, i Funk Off, gli Aretuska, Pietra Montecorvino, Roberto Giglio, Claudio Lolli ed Enrico Capuano!)

Eppure l’impressione è che sia stato fatto un torto a Paolo Nutini non perché non gli è stato permesso di chiudere la serata, ma perché non gli è stato concesso di suonare in pieno sole.

Suonare di giorno vuole dire cantare con una luce che non addolcisce i contorni delle cose, cantare senza le luci soffuse che creano l’atmosfera di una rivelazione possibile, ma che non arriva mai. La realtà è tutta lì, la musica lì. Chi canta, parla davvero.

E la musica di Paolo Nutini è proprio così.

In un’intervista che gli è stata fatta prima del concerto, lui stesso dice: “Quando scrivo cerco la bellezza, non mi interessa essere alla moda, non sono quel tipo di ragazzo, forse perché mi piace la vecchia musica”. E poi ancora: “Il primo (album) era più introspettivo, da cantautore, rifletteva i dubbi e le frustrazioni che avevo al tempo. Poi ho imparato che la musica significa anche dare gioia, e se ci riesci hai fatto una cosa importante”. (Gino Castaldo, Repubblica 15/4/2010)

Ma molto più efficace l’ascolto della sua musica. Non parla volentieri, Nutini. Nel video della canzone Growing up beside you, all’inizio tenta di presentare il gruppo e la canzone, ma si impappina e dice “non mi piace parlare” e poi chiude brusco: ” Questa canzone si intitola così: è così, spero che vi piaccia”.

Allora, ascoltiamolo.

Colpisce la voce profonda, calda, graffiata. Una voce scura, molto soul, che ricorda cantanti americani degli anni Trenta (tanto per citarne uno, Louis Prima).

Ci si stupisce che sia la voce di un ragazzo poco più che ventenne. E c’è chi gli rimprovera di giocare troppo con questa voce vissuta, quasi la sua fosse una posa insincera (si legga qualche commento ai video di You tube). Ma se quel timbro è suo, c’è poco da criticare.

Ci si stupisce anche della varietà dei generi musicali che l’album comprende, che spazia dal rock and roll delle origini, mescolato allo swing (Pencil full of lead, Ten out of ten), alle semplici ballate folk che volutamente fanno l’occhiolino a Johnny Cash (Simple Things, Worried man, Keep rolling), per passare al grido soul di No other way, allo strano ritmo velatamente reggae e profondamente scozzese negli strumenti dell’originale High hopes, quasi uno spiritual; una vera citazione di Cat Stevens in Chamber music, che si conclude, però inaspettatamente con i flauti scozzesi; infine il gioiellino pop Candy, tormentone estivo dell’anno passato.

Ci si stupisce, ancora, della qualità musicale, ma anche della semplicità degli accordi, veramente alla portata del più inesperto strimpellatore casalingo. Come nella più celebrata tradizione folk.

Ciò che stupisce veramente è però proprio la “luminosità” dei suoni e delle parole, che sembrano volere descrivere le cose della vita ora con struggente dolcezza, ora con una divertita strizzata d’occhio o con una scherzosa malizia inoffensiva.

Non a caso l’album si intitola Sunny side up, una sorta di gioco di parole: invece che This side up, che vuole dire “in alto questo lato”, (equivalente del nostro “Alto -fragile” sugli scatoloni da trasloco), “in alto il lato soleggiato”.

E davvero sono soleggiati questi brevi quadri della vita.

Si comincia con una canzone d’amore birichina, dal ritmo allegro a scanzonato, Ten out of ten, nella quale l’uomo chiede ad una donna di uscire con lui, promettendole che si comporterà bene (“Sarò un ragazzo modello, cara, voglio prendere 10 su 10”), salvo poi ammiccare alludendo al fatto che il voto riguarda anche la camera da letto.

Lo scherzo, però non continua. Nel secondo brano, Coming up easy, un ritornello finale recita alla maniera del soul/blues: “sono stato creato nell’amore e nell’amore spero morirò”, introducendo una delle tematiche portanti dell’intero album , cioè la gratitudine del vivere, espressa più volte dal cantante nei confronti della sua famiglia.

Growing up beside you è un inno all’amicizia e all’amore. L’ottica, anche se è quella di chi ha vent’anni, è quella di chi guarda al passato già con nostalgia, ma con la certezza di una catena di legami preziosissimi che percorrono la vita e che le danno significato. Qui viene isolato un ricordo di scuola, la bonaria competizione nel disegnare, le risate, la sensazione di condividere la vita: “Seduto vicino a te a scuola, mentre disegnavamo, io ti facevo ridere, il mio disegno non era mai granché, il tuo era esattamente come la fotografia, mi sembra di crescere, di crescere al tuo fianco”; poi una riflessione brevissima sul desiderio impossibile di condividere tutto, che viene esaudito dall’ adesione alla realtà: “Non mi sento sempre come ti senti tu, ma ora ho imparato a conviverci, è come se fossi parte di qualcosa di vero, colpivo la bottiglia, ma ora l’ho stappata, mi sembra di crescere, di crescere al tuo fianco”. Nell’incontro con questa persona (amore? amicizia? Non importa)i giorni di pioggia sono finiti e lo scenario del ricordo, ma si intuisce anche del futuro, è dominato dal pieno sole: “E il sole fa da sfondo, mentre la pioggia ha nostalgia di me e ogni volta io crescerò, crescerò al tuo fianco”.

Ancora l’amore in Candy. L’amore che salva dalla tempesta (“Ero sperduto là fuori nella pioggia battente, cercando di rappezzare le vele, poi sono approdato a te, mia cara”) anche chi lo cerca maldestramente, a volte disonestamente (“Nonostante i motivi del mio viaggio non siano i più nobili, mi hanno portato lì ugualmente. Nel peggiore dei casi sono un uomo senza cuore, nel migliore un debole”). Eppure la situazione è dolorosa. Si allude ad un distacco inevitabile, a un’offesa, forse a un tradimento; ma l’uomo è stregato dalla donna (“sei il mio diamante grezzo”), sia dalla salvezza inaspettata, che dal desiderio. Non per niente il ritornello impregnato di sensualità implora “some candy”, un po’ di caramelle, di zucchero, di dolcezze, prima che lui se ne vada. Che non sia un addio si capisce dal finale, ripetuto più volte in un crescendo di intensità: “Io sarò lì ad aspettarti”.

Il rock and roll di Pencil full of lead ha una grazia particolare. Il cantante elenca tutto ciò che possiede (in verità cose molto semplici), tanto che ci si chiede dove vada a para
re: “Ho un lenzuolo per il mio letto e un cuscino per la mia testa, una penna piena di inchiostro e un po’ d’acqua per la mia gola, i bottoni per il mio cappotto e vele per la mia barca”; ma la serie continua: “Ho una sedia con le gambe e una testa piena di capelli, ho una batteria di pentole da cucina e delle scarpe ai piedi, uno scaffale pieno di libri e la maggior parte dei miei denti, qualche paio di calzettoni e una porta con il catenaccio, ho cibo per la mia pancia e l’abbonamento alla televisione e niente mi può buttare giù!”. L’elenco strampalato continua ancora. Ma poi tutto si spiega: “Ma meglio di tutto questo, io ho la mia piccola! E’ la mia adorata, è tutta mia e niente mi può buttare giù”. Sono le parole semplici di un bambino felice, che non accetta smentite.

No other way è un grido di supplica alla donna amata lontana, un fluire libero di pensieri ed emozioni. Davvero qui non si possono separare testo e musica. L’uomo se ne sta lì con tutta la sua sofferenza e il suo bisogno d’amore, ancora senza mentire, nudo di fronte alla necessità (“Lavoro ogni giorno per te, perché ti amo, non ti voglio semplicemente, ma ho bisogno di te… sono a casa, amami”). Se il riferimento musicale è certamente quello del soul (I never loved a man di Ronnie Shannon), dal punto di vista del testo vengono in mente certe canzoni struggenti e sincere degli U2 prima maniera.

Il sunny side emerge con particolare vigore dalla canzone High hopes. Come già notato, ha la cadenza e il testo di uno spiritual, nel quale il desiderio di bellezza e di felicità emerge con forza, pur scontrandosi con la realtà e con la durezza del mondo: “Le mie speranze sono grandi, ma i miei occhi non riescono a credere a quello che vedono, oh datemi qualcosa in cui credere, datemi qualcosa in cui credere”. Tutto parte dal riconoscimento della propria felicità: “Sono stato fortunato nella vita, ho sempre avuto da mangiare e ho sempre visto il mondo come una grande miniera di occasioni”, per poi invocare con tono un po’ predicatorio, (per questo più vicino al gospel) un cambiamento nel mondo: “Abbiamo bisogno di un’educazione morale, per liberare le menti dei giovani!”. La strada è indicata appena dopo: “Impariamo ciò che possiamo e accettiamo ciò che non possiamo, partecipiamo di almeno un po’ della saggezza degli uomini affidabili che sono stati messi alla prova.” Questa intonazione un po’ moraleggiante viene però subito mitigata dal riconoscimento dei propri limiti: “Non c’è niente di male nel fare degli errori, sapete? Infatti per me è un’abitudine!”.

Sembra davvero di sentire parlare Johnny Cash o Hank Williams, ascoltando le simple things, le cose semplici della vita che vengono esaltate nel brano omonimo. E’ un invito a vivere la propria realtà con il cuore grato e gli occhi aperti di fronte al tesoro degli affetti quotidiani: “Se ami la vita che fai, il più è fatto, sarai più portato a imbracciare le redini, che a voltare le spalle e andartene. E’ molto raro, ma sembra garantire un’intera vita, così suppongo che la chiave sia la propria soddisfazione personale”. Poi un occhio incredulo e grato a suo padre: “Mio padre è un uomo forte, che si è costruito da solo, ma la sua forza non consiste nelle ricchezze o nelle terre; invece ha una famiglia che è il suo più grande sostegno e che è una cosa che io spero un giorno di avere”. Eppure questo padre felice non ha una vita particolarmente comoda, visto che vende fish and chips tutto il santo giorno: “Argh, si sveglia ogni giorno alle cinque, accende la macchina, apre la saracinesca, comincia a friggere, serve il cibo a tutti i clienti della città, mentre loro stanno lì sempre nella solita fila”(…) “Ma non lo sentirai mai lamentarsi o mormorare” .

La viva impressione di un luce decisa che pervade le cose della vita cantate da Paolo Nutini, quindi, non abbandona mai durante l’ascolto dell’intero album. Per averne conferma, vale la pena guardarlo, mentre canta High Hopes, in un concerto in Scozia di qualche tempo fa.

Ascoltiamolo in pieno giorno,dunque, in una giornata di sole. Ne sarà contento.