PRIMO RAPPORTO SUI COSTI DELL’ABORTO. Tutti gli interventi alla presentazione del 24 maggio

di Stefano Martinolli

Lunedì 24 maggio è stato presentato, presso la sala Giubileo dell’università LUMSA di Roma, il primo Rapporto in Italia sui costi di applicazione della Legge 194/78 ovvero della legge che regolamenta la pratica dell’aborto. Tale studio è stato condotto da un gruppo di lavoro composto da economisti, medici e giuristi, con il patrocinio della SIBCE (Società Italiana per la Bioetica e i Comitati Etici), dell’AIGOC (Associazione Italiana Ginecologi e Ostetrici Cattolici), della Fondazione Il Cuore in una Goccia e di Pro Vita & Famiglia.

Si sono avvicendati il prof. Benedetto Rocchi, professore associato presso il Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa dell’Università di Firenze, il prof. Filippo Maria Boscia, già Direttore della Cattedra di Fisiopatologia della riproduzione umana all’Università di Bari e del Dipartimento Materno-infantile dell’ASL di Bari, Presidente Nazionale dell’Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI), il prof. Giuseppe Noia, Direttore Hospice perinatale – Centro per le cure palliative Prenatali  «Madre Teresa di Calcutta» Policlinico Gemelli Roma, Presidente Associazione Italiana Ginecologi ed Ostetrici Cattolici (AIGOC), Presidente della Fondazione Il cuore in una goccia ONLUS, la prof.ssa  Francesca Romana Poleggi, docente di Discipline giuridiche ed economiche Scuola secondaria di secondo grado, Direttore editoriale del Mensile Notizie Pro Vita & Famiglia, il dott. Stefano Martinolli, dirigente medico presso ASUGI di Trieste, diplomato in Bioetica presso Università Cattolica di Roma.

Riportiamo qui di seguito i principali contenuti dei loro interventi.

Intervento del  Dott. Stefano Martinolli

L’aborto è un tema scomodo: per le persone comuni; se l’argomento emerge durante una conversazione, si osservano immediatamente imbarazzo, frasi di circostanza dette sottovoce, e si cerca immediatamente di chiudere il discorso; per i politici che valutano il rischio di calo di consensi elettorali; per molti uomini di Chiesa che ritengono l’argomento troppo divisivo.

In un modo o nell’altro parlare di aborto oggi è estremamente arduo. Tanto che la legge 194/78 rappresenta ancora oggi una sorta di tabù, un “dogma” che è meglio lasciare sedimentare nell’ambito dei diritti già acquisiti e consolidati. Eppure dopo 42 anni e 6 milioni di bambini abortiti in Italia, è possibile individuare numerose crepe e contraddizioni della legge, a partire dal radicale cambiamento di mentalità che essa ha determinato, di cui vale la pena, secondo il nostro parere, di parlare.

Per comprendere un fenomeno, uno dei metodi utilizzati (soprattutto dalla Scienza) è quello di osservare e descrivere le conseguenze e l’impatto che esso ha sulla società e sugli uomini.

Siamo spesso stati accusati di evidenziare solo la parte drammatica dell’IVG, ma, come ci si addentra nel “pianeta aborto”, si scopre un abisso che separa la teoria dalla realtà: è un mondo reale, fatto di donne che «sperimentano profonde solitudini, di aiuti solo sulla carta, di un mare di indifferenza, di libertà negate» (Mazzi, 2017). Per renderci conto di questa affermazione è sufficiente leggere qualsiasi blog femminile da siti Internet.  In questo clima, si arriva poi all’esperienza paradossale di donne che hanno resistito e che, alla fine, sono state definite come “indesiderate” (Mazzi, 2017), spesso etichettate come irrazionali, incoscienti, fatte oggetto di accuse per la loro scelta. Anche il concetto di “libertà di scelta” non tiene conto della relazionalità madre/figlio. Ne sono testimonianza le migliaia di donne che hanno abortito e raccontano oggi la loro esperienza fatta di sensi di colpa, dubbi e sofferenze (Affinito e Lalli, 2010).

Tutto questo ha un costo, non solo in termini di vite umane, ma anche di relazioni, di equilibri sociali e di spesa pubblica.

Il presente studio ha voluto quantificare, attraverso una rigorosa analisi dei primi quarant’anni di applicazione della legge, il costo finanziario – peraltro sottostimato – sostenuto dalla collettività per la pratica abortiva, in un tempo, come il nostro, in cui le risorse economiche a disposizione del sistema sanitario risultano drammaticamente limitate e richiedono pertanto un’equa distribuzione sociale.

Siamo partiti dalla valorizzazione dei DRG (Diagnosis-Related Group detto in italiano ROD ovvero raggruppamento omogeneo dei dati: sistema che permette di classificare tutti i pazienti dimessi da un ospedale in gruppi omogenei per assorbimento di risorse impegnate o isorisorse, risalente al 1994) e dalle tabelle regionali relative ai costi delle procedure. Seguendo tali indicazioni, abbiamo creato una tabella riassuntiva delle principali voci relative all’IVG (procedure diagnostiche e “terapeutiche”), abbiamo raccolto questi dati da ogni singola regione, attraverso i nostri referenti e i componenti del Gruppo di lavoro e abbiamo calcolato un costo medio per ogni singolo aborto. Abbiamo poi voluto fare un confronto con i  dati  forniti dalle relazioni ministeriali e dall’Istat e infine abbiamo semplicemente fatto il calcolo della spesa finale.

Vale la pena di porre l’accento su due aspetti evidenziati dalle relazioni ministeriali:

  • la percentuale di donne in età fertile, rispetto alla popolazione femminile generale, è notevolmente ridotta in questi ultimi decenni, oltre al fatto che la prima gravidanza è ritardata ad un’età più avanzata (35-40 anni). In quest’ambito abbiamo voluto distinguere la percentuale di donne in età fertile che iniziano una gravidanza da quella di donne che, nello stesso periodo, decidono di interromperla volontariamente. Se confrontiamo il tasso di abortività standardizzato con la percentuale di gravidanze interrotte, nel corso dell’ultimo decennio, osserviamo come i due indicatori possano essere rappresentati da curve che divaricano notevolmente: la quota di gravidanze volontariamente interrotte è scesa solo di poco negli ultimi anni [e questo può essere facilmente spiegato con l’introduzione dei farmaci abortivi (abortività RU-486 circa 18%) o della cosiddetta “contraccezione d’emergenza”]. I numeri mostrano che l’aborto, al di là di considerazioni soggettive o valutazioni statistiche parziali, rimane una pratica di largo uso, inserita in un preciso piano di controllo delle nascite quando altri metodi abbiano fallito nella contraccezione.
  • Un altro aspetto non meno importante – e mai analizzato – è la relazione tra calo demografico e numero di aborti. Ripercorrendo la “storia” abortiva delle singole regioni italiane, si osserva una chiara polarizzazione geografica del fenomeno: in Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Puglia sono stati praticati circa il 25% di tutti gli aborti in Italia. Emerge inoltre che nelle regioni dove si è abortito volontariamente di più la popolazione è in genere cresciuta di meno o spesso è addirittura diminuita. Anche questo dato permette di rafforzare l’affermazione che l’aborto legale in Italia non costituisce la protezione di una scelta di ultima istanza che viene garantita alla donna in situazioni straordinarie, come si cerca spesso di sostenere, ma fa parte integrante di una mentalità denatalistica più ampia.

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Intervento del Prof. Benedetto Rocchi

La rilevazione dei costi di applicazione costituisce una delle componenti ineludibili di qualsiasi seria valutazione delle politiche sanitarie. La valutazione del peso per la finanza pubblica di specifiche politiche sanitarie, come nel caso dell’aborto volontario, è tanto più urgente oggi, in un contesto di emergenza dove il contrasto all’epidemia da Covid 19 mette duramente alla prova il Sistema Sanitario Nazionale ed esercita una pressione inedita sulla spesa. Anche la politica che permette l’aborto, come tutte le altre politiche sanitarie, deve essere valutata all’interno di un quadro complesso di crescente limitazione delle risorse e questo studio mette per la prima volta a disposizione una quantificazione sistematica e rigorosa del suo costo di applicazione.

Non esistono rilevazioni sistematiche sulla spesa effettiva per l’applicazione della legge 194, nonostante l’articolo16 della preveda una sistematica raccolta di informazioni sull’applicazione della legge, per supportare le relazioni annuali al Parlamento dei ministri della Salute e della Giustizia con un adeguato apparato conoscitivo. Questo studio, a quarant’anni dalla sua approvazione, mette per la prima volta a disposizione una stima dei costi di applicazione della legge 194/1978 in Italia.

In primo luogo è stata ricostruita la serie storica degli aborti volontari effettuati in base alla legge, disaggregata per tipologia di intervento e per regione. Ciò ha permesso una rivalutazione di prospettiva dell’evoluzione, incidenza e distribuzione geografica del fenomeno in Italia e dei suoi possibili effetti sull’andamento demografico. Le statistiche ufficiali hanno rilevato dal 1979 al 2018 poco più di 5 milioni 721 mila aborti legali, una media di oltre 143.000 all’anno. Anche se, per una serie di fattori demografici e sociali, il numero annuo di aborti è diminuito dopo il picco iniziale, si può stimare che ancora oggi oltre il 15% delle gravidanze viene interrotto volontariamente. Secondo il tasso di abortività totale stimato da Istat, in una coorte di mille donne della stessa età oltre 220 abortiscono volontariamente almeno una volta nel corso della loro vita.

Gli oneri di applicazione della legge per il periodo 2010 – 2018 sono stati determinati analiticamente, applicando agli aborti rilevati i costi standard (per tipo di intervento) secondo i tariffari dei sistemi sanitari regionali. Per gli anni precedenti il 2010 è stato applicato al numero di totale di aborti rilevato in ogni regione il costo medio per singolo aborto che risultava dal calcolo analitico relativo al 2010.

Il costo stimato di applicazione della legge 194 in Italia per il 2018 varia da un minimo di 57.965.828 Euro ad un massimo di 86.711.783 Euro (prezzi 2018). La voce che determina maggiormente il valore totale è quella riferita agli aborti chirurgici entro il terzo mese, che nel 2018 rappresentavano il 74,5 % del totale. Il costo medio per ciascun aborto risulta compreso tra 762 Euro nel caso della stima minima e 1.140 Euro nella stima massima. Il costo cumulato dei primi quarant’anni di aborto legale in Italia nell’ipotesi di stima mediana è di 4 miliardi e 847 milioni di Euro, corrispondente ad un costo medio per aborto di 847 Euro e ad una spesa media annua di oltre 120 milioni di Euro. L’andamento del costo di applicazione della legge nel tempo è stato irregolare, seguendo la curva dell’abortività volontaria. Nei primi anni di applicazione il valore annuale della spesa ha raggiunto i 200 milioni di Euro.

La stima è stata effettuata con criteri prudenziali, utilizzando solo le fonti di dati ufficiali e complete. Altre componenti dell’onere per le finanze pubbliche generato dalla legge 194 sono stati semplicemente descritti, come ad esempio i costi per la diffusione di una diagnostica prenatale difensiva, gli oneri non quantificabili a causa dell’underreporting degli aborti legali e la sottostima dei costi per le immediate complicanze post-aborto.

Il gruppo di ricerca ha anche studiato una serie di conseguenze connesse alla diffusione della pratica dell’aborto volontario che generano costi per la società che vanno molto al di là dei semplici oneri finanziari di applicazione della legge. Si tratta di costi che riguardano principalmente la salute delle donne, che si aggiungono alle immediate complicanze post-aborto rilevate da Istat e riguardano complicanze nelle gravidanze successive e altre conseguenze fisiche e psichiche a lungo termine. Anche se non ne è stata tentata una quantificazione monetaria, la loro esistenza è indubbia e deve essere considerata in una valutazione aggettiva degli oneri finanziari della legge 194. Il Rapporto propone un’ampia rassegna dell’evidenza scientifica disponibile.

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Intervento del Prof. Filippo Maria Boscia

Esiste una risposta scientifica all’aborto eugenetico che è aumentato più di 10 volte in 30 anni? L’articolo 5 della legge 194 afferma di dare un’alternativa all’aborto eugenetico. E la risposta è che esistono tre alternative: 1) in caso di anomalie cromosomiche si può proporre l’assunzione di antiossidanti alla madre per ridurre il danno neurocognitivo come dimostrato in letteratura; 2) in caso di malformazioni strutturali, senza alterazioni cromosomiche, si possono proporre terapie fetali invasive e non invasive eco guidate e/o trattamenti palliativi; 3) in caso di condizioni di gravi e complesse patologie si può proporre l’alternativa dell’accompagnamento come riferisce il Cdc di Atlanta: «ci sono molti genitori che desiderano accompagnare i loro figli gravemente malati fino alla fine». Per cui esiste una scienza prenatale che al di là dei fattori ideologici fornisce risposte scientifiche, etiche e umane.

Viene legittimo chiedersi perché tale spesa, per una prestazione non indispensabile bensì fortemente voluttuaria, debba essere a carico di tutti, anche di chi è per la vita e per principio o per fede è decisamente contrario all’aborto, mentre contribuendo ad essa si sentirebbe complice sebbene involontario di un vero e proprio omicidio, all’interno di quella che è la «congiura contro la vita», come ebbe a dire Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium Vitae. Con il denaro sprecato per le interruzioni di gravidanza si potrebbe invece incentivare l’aspetto preventivo, se non altro aiutando le gravide in difficoltà, proprio in nome dell’importanza del «valore sociale della maternità» e dell’inderogabile «tutela della vita umana fin dal suo inizio» come previsto dalla stessa Legge all’articolo 1.

La Legge 194 è da considerarsi iniqua oltre che viziata da alcuni inganni. Pur richiamando il valore sociale della maternità nella sua reale applicazione, essa ha prodotto un effetto contrario. Oltre, ovviamente, alla depenalizzazione, la Legge 194 ha determinato soprattutto una banalizzazione dell’aborto volontario, portando all’accettazione generalizzata di una pratica oggi considerata del tutto ordinaria. Si dovrebbe allora iniziare a difendere con orgoglio tutte le vite, a partire da quelle più deboli. Poi, se si vuole realmente parlare di ecologia, non si deve «spiantare la vita» ma piuttosto imparare a coltivarla. In quarant’anni sono stati eliminati sei milioni di vite nascenti con molta facilità rispetto al passato, specie con l’introduzione di massa dell’aborto farmacologico. Siamo davanti non ad una ulteriore liberalizzazione dell’aborto ma ad una sua totale e definitiva liberalizzazione. L’aborto domiciliare, che trae origine dall’emergenza pandemica, fa perdere definitivamente il controllo anche su quei dati statistici che potevano aiutare a prevenire il fenomeno. Quando, nelle varie consultazioni parlamentari, nei vari rapporti al Parlamento e al popolo, si va a dire che gli aborti sono diminuiti, non si afferma la verità. Il numero di tali pratiche è molto più alto da quando sono in commercio le varie pillole abortive, responsabili di quello che è definito come «l’aborto nascosto o criptoaborto».

E’ importante poi presentare con onestà quell’ampia gamma di complicanze che la letteratura medica codifica come «sindrome post-abortiva». Quest’ultima rientra nel grande capitolo delle sindromi post-traumatiche da stress, così diffuse in questo periodo di Covid. L’aborto spesso conduce la donna a fenomeni di depressione, ad un lutto inconsolabile che la accompagna tutta la vita. È il frutto amaro di una scelta non facile, agevolata dal consenso della società ma spesso tragica e sempre comunque traumatica. Il declino demografico, che tutti oggi piangiamo, è l’effetto di una maternità negata alla donna che lavora, negata a chi è forse inconsapevole della preziosità della gravidanza. Una maternità troppo spesso banalizzata e oscurata, riposta interamente a carico della donna, come effetto estremo dell’autodeterminazione femminile. Con il denaro sprecato per le interruzioni di gravidanza e per il rinvio della «maternità socialmente negata», si potrebbe, piuttosto, incentivare l’aspetto preventivo e dare un valore sociale alla maternità un inderogabile valore, così come previsto dalla stessa legge 194, ormai diventata contraddittoria in se stessa. Basterebbe ridurre la completa gratuità della pratica abortiva e cominciare a responsabilizzare le persone. Quando qualcosa è totalmente a disposizione, l’istinto di chiunque è ad abusarne.

Ovviamente non si devono colpevolizzare le donne,ma  piuttosto la società e la politica che hanno voluto concedere tutto a tutti, politiche di morte comprese. Una donna è consapevole del fatto che, con l’aborto non le viene asportato un tumore ma le viene ucciso un figlio. È inevitabile che ne scaturiscano ferite a livello psicologico: ansia, depressione, disturbo post-traumatico da stress, autolesionismo. Uno studio recente ha dimostrato che le donne che hanno abortito da uno a tre bambini hanno un rischio del 30% in più di depressione nel momento in cui comincia la menopausa.

In questo processo di conoscenza vanno anche coinvolti gli uomini, perché molti problemi nascono anche dal fatto che sta venendo meno quell’aspetto di generatività che per secoli abbiamo vissuto e che in quest’epoca abbiamo rimosso.

Il sostegno delle famiglie poi è qualcosa di importante, mentre lo Stato si concentra quasi esclusivamente sui singoli cittadini.

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Intervento del Prof. Giuseppe Noia

Questo studio scientifico ha il grande premio di aver evidenziato diversi aspetti fondamentali: 1) tasso di ripetitività dell’aborto che 40 anni fa si riteneva sarebbe stato contrastato dalla contraccezione. E’ emerso invece un dato storico che evidenzia come, proprio nelle regioni (Liguria, Toscana) dove si registra un notevole tasso di contraccezione e di pillole del giorno dopo (o dei cinque giorni dopo), il tasso di abortività è fra i più alti; 2) la presenza di cifre che la relazione del ministro della Sanità non riesce a spiegare e che riguardano una punta del 67% di aborto spontaneo nelle adolescenti dai 15 ai 19 anni; 3) l’aborto clandestino, che la legge 194 si era impegnata a combattere ed eliminare; da proiezioni dell’Istituto Superiore di Sanità invece sono stati individuati tra gli 11 e i 15 mila aborti l’anno. 4) l’aborto eugenetico non è affatto diminuito. Nella metodica è chiaramente insito l’elemento di eugenismo: si erano esaltate tutte le procedure che avrebbero dovuto migliorare la qualità esistenziale delle donne in gravidanza e che, per un circuito culturale molto «particolare» dove è contemplato anche il bene del bambino etichettato come «malato», si trovano a vivere una scelta che in eugenetica che le condizionerà tutta la vita.

Indubbiamente, una così grande diffusione dell’aborto chimico- farmacologico non  può rappresentare un messaggio di speranza per i giovani. Le pillole del giorno dopo o dei cinque giorni dopo sono «bombe ormonali» che sicuramente avranno delle implicazioni sulla loro capacità procreativa futura. Va considerato poi il dato sulla salute fisica e psichica delle donne, che non viene valorizzato  a causa dell’apparente facilità nell’assunzione di una pillola e la conseguente banalizzazione dell’aborto. L’esperienza abortiva è devastante sul piano psicologico, soprattutto per quanto si riferisce alle 18mila donne che hanno abortito con la Ru486. Si verifica puntualmente un’iper-responsabilizzazione della donna, che sceglie e assume la prima pillola, seguita dalla seconda, prima di cominciare ad avere perdite emorragiche, senza sapere quando né dove avverrà l’espulsione. Nel 56% dei casi, afferma il British Medical Journal, la donna espelle tutto il sacchetto con l’embrione che già presenta fattezze umane riconoscibili. Inoltre, vi sono numerose evidenze scientifiche che segnalano come un aborto farmacologico più «tardivo» (da sette a nove settimane) possa aumentare la possibilità di distacco di una placenta più allargata e più adesa, quindi con una emorragia più grave, sia in termini di durata che di intensità. Un 30% di questi casi, infatti, necessita di  emotrasfusioni. Vi sono poi i costi prospettici della futura fertilità delle donne, non solo nella prospettiva economica ma anche in quella relativa alla salute psicofisica, con maggiore tendenza al parto pretermine nelle gravidanze successive, e a maggiori problemi di fertilità generale. «

Esistono alternative all’aborto che non solo dovrebbero essere possibili ma dovrebbero essere proposte con uno sguardo non ideologico, confessionale o politico, ma piuttosto come dovere verso l’umano che viene distrutto. Tutti concordano sul fatto che l’aborto è una devastazione, un dramma. Accade però, che una reale e concreta alternativa all’aborto, di cui parla l’articolo 5 della legge 194, viene a mancare perché non vi sono sufficienti informazioni né un idoneo ambiente, fatto di persone disposte ad accompagnare le donne in difficoltà o nel dolore.

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Intervento della Prof.ssa Francesca Romana Poleggi

La 194 è costata ai contribuenti italiani miliardi senza neanche aver garantito alle donne una vera libertà: non sono informate su cosa è l’aborto né sulle sue conseguenze. Di fronte a una gravidanza imprevista il sistema offre come unica possibilità l’aborto: dopodiché la donna si ritrova con gli stessi problemi socioeconomici che l’hanno spinta ad abortire e in più madre di un bambino morto. Perché non impiegare le (scarse) risorse del SSN per offrirle una vera scelta, cioè la possibilità di tenere il bambino?

In teoria c’è una parte di spesa che dovrebbe andare ai consultori nella fase preliminare, ma si è rivelata totalmente inefficace perché non ha prevenuto l’aborto.

L’aborto economico poi è veramente l’esempio tipico della società maschilista e sessista che abbandona la donna a se stessa davanti al problema della gravidanza che non può sostenere. L’aiuto economico oggi in Italia arriva solo dal volontariato: dai centri di aiuto alla vita e dal progetto Gemma. Che non ci sia un aiuto statale contro miliardi di euro investiti nella morte è una cosa assolutamente scandalosa.

Eppure, nonostante questa storia fallimentare, non sembra ancora possibile una presa di coscienza collettiva di quel che ha comportato la legalizzazione e la gratuità della pratica abortiva nel nostro Paese.

L’analisi proposta in questo rapporto dovrebbe viceversa fare sorgere quanto meno una domanda: perché a carico del contribuente?

Il nostro lavoro infine vuole suscitare un dialogo aperto e basato su dati oggettivi relativi alla legge 194 – che ancora oggi divide profondamente gli italiani – portandone alla luce gli aspetti più controversi.

Fonte: Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân

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