Il decreto Covid, il “grande freddo” e la nuova frattura italiana. Per altitudine

di Daniele D’Angelo.

L’Italia, si sa, è da sempre terra di fratture. Alcune storiche, altre più recenti. C’è quella fra Nord e Sud. Quella fra costa e aree interne. Quella, che la pandemia ha contribuito a esasperare, fra garantiti e non garantiti.

Compito della politica, se non di accorciare le distanze e rimarginare le lacerazioni già esistenti, dovrebbe essere quantomeno quello di non determinarne di nuove. A tal proposito, mentre sta suscitando (comprensibilmente) grande clamore la permanenza a oltranza del coprifuoco alle 22, non sembra esserci sufficiente consapevolezza delle implicazioni che potrebbero derivare dalla scelta di consentire la ristorazione esclusivamente all’aperto, contrariamente peraltro a quanto accadeva nella vecchia zona gialla.

Non si tratta di una rivendicazione corporativa (chi scrive opera nel settore), ma della fondata preoccupazione che il calendario a oggi immaginato per le riaperture possa provocare una nuova cesura netta e dare il colpo di grazia ad aree del Paese già provate da problemi endemici e non solo. Una misura già pesante per l’Italia costiera e pianeggiante, infatti, diviene proibitiva per quella che con formula efficace è stata definita “Italia in pendenza”: l’Italia interna, l’Italia degli Appennini, l’Italia dei monti e delle alture dove il fattore climatico già normalmente impedisce di pasteggiare all’aperto, figuriamoci in questa coda d’inverno camuffata da primavera.

Già immaginiamo le obiezioni: cosa volete che cambi tra fine aprile, metà maggio, inizio giugno? Cambia, cambia moltissimo. Cambia sul piano materiale, perché buona parte della speranza di ripartire era affidata alle cerimonie di maggio e al vasto indotto che (nel rispetto di regole rigorosissime) esse sono in grado di attivare. Cambia sul piano morale, perché alla fiducia accordata nel sostenere gli ultimi due mesi di sacrifici confidando nel decollo del piano vaccinale non sembra corrispondere altrettanta fiducia nei confronti di attività che hanno compiuto ingenti sforzi economici e organizzativi per garantire la sicurezza sanitaria e si trovano ancora una volta trattate come capri espiatori. Cambia sul piano delle strategie aziendali, perché dopo oltre un anno di regole onerose e successive chiusure (chiusure delle quali peraltro l’andamento dei dati Covid mette in serio dubbio l’efficacia), dopo mesi di inattività, ci vuole fegato a immaginare nuovi investimenti per sfruttare laddove possibile spazi aperti (di cui comunque non tutti dispongono e non sempre i fattori atmosferici consentono di fruire) sapendo già che ciò che oggi è possibile domani potrebbe non esserlo più, o (più auspicabilmente) potrebbe non essere più necessario.

E ancora. Cambia tutto sul piano sociale, perché la corda è stata tirata fino al limite e uccidere l’economia di prossimità nell’”Italia di mezzo” significa contribuire a sfibrare tessuti già provati dal gap infrastrutturale e da un pauroso spopolamento. E cambia anche sul piano epidemiologico, perché evidentemente il partito dei virologi, troppo impegnato a veicolare nelle case degli italiani messaggi terrorizzanti attraverso il tubo catodico, non si è accorto che la misura è colma e che ciò che non viene consentito nei pubblici esercizi con tutti i protocolli di sicurezza, avviene ormai sistematicamente nelle abitazioni private, dove non c’è distanziamento che tenga, e anche nelle strade delle nostre città dove – mentre l’economia viene ridotta allo stremo – la voglia di normalità si traduce in massicci assembramenti ben più “contagiosi” di un pranzo o di una cena seduti ordinatamente al proprio tavolo.

Nel presentare i timidi passi di fine aprile come una sorta di rivoluzione copernicana si è parlato di “rischio calcolato”. Si è puntato tutto sulla scuola nonostante si sia alla fine dell’anno scolastico, anche per fasce di età più elevate e dunque non disagevoli per i genitori che lavorano, senza potenziare di una virgola il sistema di trasporto che rappresenta la principale criticità della didattica in presenza. E questo in nome di una condivisibile contemperazione tra rischi e benefici che però alle “attività bersaglio”, che tutte le analisi epidemiologiche continuano a ritenere “innocenti” rispetto alla diffusione del virus, continua a essere negata.

Se a questo si limita il “rischio calcolato”, bisogna intendersi su quali siano i calcoli ai quali si fa riferimento, compresi quelli che fotografano una devastazione socio-economica senza precedenti. Per ora, mettendo tutto sul piatto della bilancia, l’impressione è che i conti non tornino. Ma i margini di resistenza si sono esauriti, e chi ha in mano il pallottoliere dovrebbe prenderne atto.

Fonte: l’Occidentale

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