La sentenza di Karlsruhe, le mosse di Draghi e la partita incrociata del Recovery e degli Eurobond

di Paolo Romani.

“Io posso pensare quello che voglio sull’utilità degli Eurobond, ma ci si arriva quando lo vogliono tutti e fin quando non c’è la convinzione di tutti su questo strumento siamo lontani”: rispondeva così, sollecitato dai giornalisti, il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, sull’utilità di emissioni di titoli comuni dell’Unione nel primo pomeriggio di venerdì, e, come una doccia fredda, ecco arrivare, nella serata dello stesso giorno, la decisione dell’Alta corte tedesca di congelare il Recovery Fund.

Se a prima vista il nesso può non essere così evidente ai neofiti, è lo stesso Draghi a spiegarlo quando sostiene che per finanziare il Recovery Fund la Commissione ha studiato una sorta di Eurobond, una “via di mezzo”, come la definisce, in quanto non c’è bilancio comune.

Il Presidente Draghi è stato chiarissimo sulla differenza di fondo fra Eurobond ed il ricorso ai mercati che la Commissione Europea attiverà per finanziare il Recovery Fund, ricordando ad esempio come i titoli di stato americani abbiano alla spalle un bilancio federale di dimensioni straordinarie, un’unione bancaria e fiscale che in Europa sono ancora molto lontane.

Ma questo si sa è un punto dolente in Germania, dove resta impressa la promessa della Cancelliera “finché ci sarò io non ci saranno gli Eurobond”; e dove l’approvazione della legge per il Recovery Fund è stata all’unanimità del Bundesrat e con i due terzi del Bundestag, ma grazie ad un piccolo escamotage che ha definito il debito necessario al finanziamento del fondo “risorse esterne” e non “risorse proprie” dell’Unione.

Ora i temi sono due, uno di breve periodo, legato proprio all’approvazione del Recovery Fund, e l’altro di medio-lungo periodo, che riguarda la ridefinizione dell’Unione.

Nel breve periodo la decisione di Karlsruhe può avere un impatto decisivo sul calendario del Recovery Fund: solo 16 Paesi, fra cui il nostro, su 27 hanno già ratificato l’accordo, si attendevano i restanti entro maggio. C’è chi parla di poche settimane perché l’Alta corte sblocchi la situazione, proprio sulla base della “maggioranza costituzionale” garantita dal voto del Parlamento. Ma pesa l’incognita di un allungamento dei tempi.

Nel medio-lungo periodo sembra formarsi un fronte favorevole ad una ridefinizione complessiva  dell’Unione: da un lato il Commissario Gentiloni sta preparando la riforma del Patto di Stabilità, nel tentativo di archiviare il Fiscal Compact che soffocherebbe la ripresa; dall’altro il tentativo di aumentare i fondi del Recovery Fund, che indiscrezioni addebiterebbero proprio a Draghi stesso in asse con Macron. Ipotesi questa al momento non confermata dal Presidente del Consiglio che però non ha fatto mistero di continuare a spingere per gli Eurobond, bacchettando anche i leader europei contrari che, come lui stesso ha dichiarato, pur di non accettare l’idea della condivisione del debito, cercano soluzioni fantasiose a problemi che sarebbero superati facilmente dall’emissione di titoli della Commissione, perché sarebbero ritenuti dai mercati meno rischiosi di quelli dei Paesi.

Il rischio è purtroppo che invece di funzionare come profezie autoavveranti queste spinte, che andrebbero a tutto vantaggio del nostro Paese, possano spaventare e irrigidire i Paesi frugali, mettendo a rischio la stessa approvazione del Recovery Fund. D’altronde l’iniziativa della Corte di Karlsruhe è frutto del ricorso di Bernd Luecke, economista anti-euro. Questo a dimostrazione che i nazionalismi difficilmente vanno a vantaggio degli interessi di tutti e che per promuovere gli interessi nazionali serve piuttosto un europeismo forte, che vuol dire prendere parte alle decisioni, superando così la dialettica fra coloro che hanno inteso l’Europa una autorità superiore a cui essere assoggettati e coloro che invece l’hanno combattuta come un’entità estranea.

Un’ultimissima considerazione: il percorso è ancora molto lungo e continuerà a segnare la grande differenza fra la raccolta di risorse per il Recovery e l’emissione di Eurobond. Ma avere posto il problema, forse in collegamento con Macron, dà il segno del “cambio di passo” dettato dall’esser rappresentati in Europa dal Presidente del Consiglio Mario Draghi. E ci impone anche di ragionare su quanto sia essenziale la sua permanenza a Palazzo Chigi ben oltre la scadenza del settennato dell’attuale Presidente della Repubblica.

Fonte: l’Occidentale

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