Laporta: Draghi mi Piace, Scese dal Britannia prima della Svendita dell’Italia

di Marco Tosatti.

Carissimi Stilumcuriali, il generale Piero Laporta ci offri oggi un commento alla nomina di Mario Draghi a Presidente del Consiglio. Buona lettura, e buoni commenti…

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Non ho l’onore di conoscere personalmente Mario Draghi. Il lettore sappia che la scelta di Sergio Mattarella questa volta mi convince.

Mi piace perché scese dal Britannia prima dei colloqui, diciamo così, bilaterali, con gli agenti del MI6. Il maggiore Vasilij Nikitič Mitrochin, nelle mani britanniche almeno da febbraio 1992, aveva vuotato il sacco e, sorpresa, i britannici avevano (e hanno tuttora) nomi e cognomi dei traditori collaborazionisti – in maggioranza italiani e tedeschi – al servizio dell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Ciascuno degli italiani, economicamente rilevanti di quella lista, fu convocato – uno per uno – negli elegantissimi salotti del panfilo reale. Era il 2 Giugno, festa della Repubblica italiana. Il senso dell’umorismo britannico non fu secondario nella scelta della data e neppure del macabro luogo, Ustica. Scioltasi l’allegra brigata di croceristi, la nostra industria di Stato era bell’e andata. I riottosi furono suicidati, spalancandosi invece orizzonti politici radiosi alle mezze cartucce, col DNA appena più evoluto di quello del de Majo in peggio.

Quel giorno Draghi, direttore generale del Tesoro, aveva 45 anni, troppo giovane per essere in prima fila, secondo gli equilibri del potere burocratico del tempo.

Per capirci, Carlo Azeglio Ciampi divenne direttore generale di Bankitalia a 58 anni, a luglio 1978, dopo la morte di Aldo Moro. Dopo tre anni divenne governatore di Bankitalia, strappando la poltrona all’adamantino Paolo Baffi, vittima d’una congiura politico giudiziaria, antesignana delle mani sporche d’alcuni magistrati del 1992 e delle palamarate correnti.

Se proprio vogliamo essere pignoli, la differenza fra il curriculum di Ciampi e quello di Draghi è la medesima intercorrente fra un lettore dei settimanali di Cairo e un brillante professore di economia. Che cosa portò avanti Ciampi? La camarilla e la retorica della Resistenza.

Che cosa spinge Draghi ai vertici? Studi seri e grande incessante fatica.

Il web è oggi inondato dagli insulti di Francesco Cossiga a Draghi. Il cosiddetto statista di Sassari è ben noto agli atti di questo ufficio da quando mi aizzò contro i cani dei servizi e non me ne spiegavo la ragione, mentre ero consulente della commissione Mitrokhin e cercavo proprio la lista di traditori. Non capivo tanto accanimento. Sono dopo tutto un integerrimo generale dell’esercito italiano. Perché un colonnello fesso e ladro, oggi ai piani alti dei servizi italiani, non aveva di meglio che dedicarmi le sue sconce attenzioni? Mi tesero più d’una trappola. Le schivai tutte. Mi stufai. Indagai io su Cossiga, sul quale non pochi sospetti nutrivo dal 1978. Ebbi più d’un provvidenziale incontro col generale Armando Sportelli, il capo del colonnello Stefano Giovannone. Il generale Sportelli fu il vero artefice del Lodo Moro, su ordine diretto dello Statista. Intervistai Sportelli. Quanto mi disse, nell’intervista e a latere, mi consentì di comprendere perché Cossiga si preoccupava della mia ricerca della lista di traditori e, allo stesso tempo, non si faceva scrupolo di gabellare un “Lodo Moro” farlocco, dando a intendere che lo Statista fosse stato ucciso dal Mossad per ritorsione contro la politica filopalestinese. Una balla fiancheggiata pure dai sionisti. Oggi quell’intervista è agli atti della Procura generale di Bologna, requirente della strage della stazione.

Ho abusato della pazienza del lettore con questi ricordi, per spiegare perché il ringhio del sassarese contro Draghi e contro Luca Palamara mi lasciò e mi lascia tiepido.

Dalla morte di Aldo Moro, fino agli anni ’90 c’ci fu una guerra fra bande, sulle quali primeggiarono i protagonisti della cosiddetta Resistenza, coi conseguenti compromessi, fra i quali la spartizione della tunica di Aldo Moro e del bottino industriale.

Il Britannia, il 2 Giugno 1992, doveva essere la conclusione di quella guerra, secondo il disegno di Stati Uniti e Gran Bretagna, mediante il favoreggiamento (e quindi il controllo, si illusero gli imbecilli) del notabilato ricattabile di PCI, DC e PSI, lasciando i rimanenti alle cure d’alcuni magistrati collaborazionisti. Per intenderci, Berlusconi, berciante contro tutta la magistratura, esordì quale corifeo di manette pulite, coi suoi dipendenti: Vittorio Feltri, Emilio Fede, Enrico Mentana.

Mario Draghi con tale mucchio di letame non ha nulla a che vedere. È nato nel 1947. A quindici anni è diventato capofamiglia con due fratelli minori, orfani d’entrambi i genitori. La tutela d’una zia fu provvidenziale ma il suo impegno personale non fu secondario. Non ha fatto il ’68, tanto meno l’opaco ’77 collaborazionista di Mosca, Londra e Tripoli, per ricordare solo i principali. Estraneo alle camarille politiche, dopo la laurea con lode, sotto le ali di Franco Modigliani e Federico Caffè, passato per il mitico Massachusetts Institute of Technology, ha scalato fino alla vetta il potere finanziario internazionale. È passato per Goldmann&Sachs? Certo, senza svendere nulla né tradire l’Italia. Il suo curriculum se n’è giovato. Di certo sa perché il potere d’acquisto del salario d’un operaio s’è dimezzato dal 1968 a oggi.

Non si diventa Mario Draghi senza massicce, continue iniezioni di realismo e, al tempo stesso, incessante, gelosa custodia dei propri valori e prudenza, prudenza e prudenza. Solo così – estraneo al circuito politico – diventi una macchina da guerra, abile a sfoggiare duttilità e rigidezza nei momenti appropriati, per entrare nei circuiti finanziari più esclusivi, dai quali i Ciampi, i Mattarella, gli Amato e ultimamente i Bergoglio ricevono tuttalpiù la lista della spesa e delle stanze da pulire.

Io non sono dunque fra quelli che sparano sul pianista. D’altronde altri pianisti non ve n’è all’orizzonte e le strimpellate di Roberto Gualtieri hanno rotto tanto la corda dell’economia quanto quella della coesione sociale; hanno rotto.

Mario Draghi è un massone! Ammonisce un carissimo amico. È più che probabile. D’altronde reputo Draghi realisticamente consapevole dell’imperituro impegno della massoneria a riparare gli errori del secolo precedente, preparando con altrettanta sagacia quelli da correggere nel secolo successivo.

Liberiamoci infine dei dagherrotipi. L’europeismo, prima di delirare a Ventotene, attecchì a Vienna, per mano d’un massone, citato tuttavia con qualche reticenza. Il piano Kalergy (approfondimenti a iosa nel web) prende il nome dal conte viennese Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, un nobilotto, sintesi della decadenza dell’ancien regime, dell’incomprensione della tecnologia e del dandysmo autoreferenziale. Il conte si barcamenò fra cocaina e sgangherate profezie europeiste, per ricollocare i popoli da un continente all’altro, con disinvoltura maggiore di quella usata per la passata di pomodoro sugli scaffali dei supermercati. Utile ricordare che Kalergy ebbe e ha tuttora il plauso dei sionisti e di George Soros. Morì con tutta probabilità suicida, come suicida morirà la UE se ne segue le tracce.

Kalergy serpeggia nel manifesto di Ventotene su cui gravò la benedizione di Winston Churchill, un genio farabutto, cui piaceva un’Europa unita sotto il tacco britannico e amava le repubbliche che distruggevano i regni cattolici e ortodossi. Londra fu una delle culle del terrorismo, da Portella della Ginestra in poi. Le metastasi in seguito si differenziarono e con quelle di Bonn (oggi Berlino) Parigi, Mosca e oltre. Un esempio fra tutti: Cesare Battisti, al quale, in cambio di qualche modesto beneficio, si dovrebbe chiedere quale fu il ruolo dei servizi francesi e che cosa chiesero in cambio per l’ospitalità a quattro stelle a lui, a Corrado Simioni, a Vanni Mulinaris e altri figuri.

Kalergy e Battisti somigliano a Draghi, mi fanno notare, sembrano fratelli. E quindi? Di certo Kalergy e Battisti sono due farabutti ma non sono lucertole insignificanti, come i rimanenti del governo Draghi, con poche eccezioni, incluse Giustizia ed Economia.

Non perdiamoci in scemenze. Non la sua foto, ma ricostruire l’Italia è il problema di Mario Draghi, riunire gli italiani, portandoli fuori dalla fanghiglia post Kossighiana (k come Kruscev) di cui dobbiamo liberarci. Questa scelta di Sergio Mattarella è quindi innovativa, lo si deve riconoscere. È l’ultima carta prima della catastrofe, propiziata da quanti insultavano Draghi mentre trescavano coi capitani di svariati panfili, non solo il Britannia.

Un consiglio non richiesto infine: si liberi, Draghi, dell’attuale dirigenza dei servizi segreti, tutta, dal vertice fino ad almeno il secondo livello; se arrivasse al terzo sarebbe meglio. Richiami piuttosto in servizio quelli che Massimo D’Alema fece fuggire. Meglio avere tanti nemici fuori che uno solo nella stessa casa. Nel Santo Rosario serale, in casa mia pregheremo non solo perché Nostro Signore restituisca dignità ai chierici iscarioti ma anche perché Mario Draghi e il suo coraggio siano ispirati, benedetti e assistiti da Dio.

www.pierolaporta.it

Gen. D.g..(ris) Piero Laporta

Fonte

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