Ora le parole maschio, femmina, vita e ventilazione forzata non ci fanno più schifo?

di Assuntina Morresi.

Ormai ne siamo consapevoli tutti, lo leggiamo ovunque: quando questa emergenza sarà sconfitta niente sarà più come prima. Si, certo, i bambini torneranno a scuola e i giovani nelle università, tanti riprenderanno a lavorare, ci sarà chi si innamora, chi si sposa e chi si lascia, soprattutto tanti piangeranno chi non c’è più e tutti ricorderanno le terribili morti in solitudine: ma, come succede dopo ogni guerra, tutto cambierà. E la full immersion di autocoscienza nelle pagine dei giornali, nelle trasmissioni televisive, nelle nostre conversazioni via telefono, chat e video, letteralmente impregnate dal Covid-19, altro non sono che il tentativo, perso in partenza, di circoscrivere e possedere l’ignoto, quella indecifrabile palla grigia con le eleganti punte rosse coronate, un mix fra una presenza aliena e una decorazione natalizia che ha sconvolto il mondo.

Alcuni segnali di cambiamento già cominciamo a vederli adesso, e chi legge scuserà il tono caustico che forse scapperà, o magari la battutaccia: al tempo delle giornate senza tempo, quando sai che la palla grigia a punte rosse potrebbe scegliere te in un momento di distrazione – magari gratti il naso dopo aver tolto il cartone della pizza, quello che avevi preso al supermercato con i guanti ma poi maneggi a casa a mani nude – ecco, diciamo che con questa palla di Damocle sulla testa qualche cedimento all’ironia ce lo possiamo permettere.

E diciamoli questi segnali, che sono innanzitutto un grande ripasso di bioetica.

Il primo. Abbiamo riscoperto che esistono i maschi e le femmine. E basta. E sui giornali adesso è tutto uno spiegare che XX è diverso da XY, e pure gli ormoni, e pure le difese immunitarie, e la resistenza, e chi più ne ha più ne metta: mai viste tante differenze scientificamente spiegate dagli stessi che fino a un mese fa ci spiegavano quanto era costruita e stereotipata questa sciocca, noiosa, arcaica idea che esistono solo maschi e femmine. Adesso invece è assodato che nella pandemia i maschi muoiono più delle femmine, che si possono distinguere e addirittura contare, e nessuno si sente discriminato, e gli LGBT non protestano, e i transgender neppure, e manco tutti gli altri 57 generi perché la palla grigia con le punte rosse solo maschi e femmine capisce, solo due sessi riconosce. E così pure i virologi, e gli epidemiologi, quelli della protezione civile, i politici, l’OMS, e i giornalisti, e i lettori, e i commentatori, tutti quanti insomma, hanno ben chiaro che maschi e femmine siamo. Punto e basta. Che ne sia di tutto lo spettro delle identità di genere di fronte al Covid-19 non è dato sapere, e nessuno ha sollevato il problema, e pare proprio che a nessuno gliene freghi più granché.

Il secondo. E’ sparita la “ventilazione forzata”, espressione cara ai sostenitori del diritto a morire. Non lo scrive più nessuno. Nessuno si sente più “forzato” a respirare, tutti parlano di “aiuto” a respirare, e tutti hanno ben chiaro che “un ventilatore salva la vita”. In tutto il mondo, letteralmente, è diventato subito lampante che il ventilatore non cura niente, non fa guarire dal virus, non è una terapia ma un sostegno vitale. Un concetto divenuto tutt’un tratto evidente all’intero globo terracqueo, dai grandi capi di stato agli ultimi della terra, dall’ateo incallito al religioso eremita: esistono macchinari che aiutano a respirare, cioè a vivere, e da questo l’espressione “sostegni vitali”, ma purtroppo non si guarisce con queste macchine, perché, per l’appunto, non curano malattie. E se le stacchi a qualcuno mentre ancora gli servono per respirare, lo fai morire. Se pensi che il massimo interesse di quel paziente non è vivere conciato in quel modo, o se invece lo stacchi perché di ventilatori non ne hai abbastanza, il risultato è sempre quello: la persona muore. Concetti semplici che pensavamo perduti per sempre improvvisamente tornano utili.

Il terzo. Sparito improvvisamente anche il terrore di essere intubati, di vivere “attaccati alle macchine”. Certo, si dirà, qui la prospettiva è di starci solo un periodo breve, qualche settimana, per poi guarire. Ed è vero. Ma la palla grigia con le punte rosse ha spazzato via qualsiasi sensazione anche minimamente vicina al semplice disagio di essere “attaccati a una macchina”: l’idea non turba più. Se potessimo ce ne compreremmo una a testa, e pure una di ricambio, di quelle macchine. Come dicevano i disabili della associazione “Not dead yet”(non ancora morti) quando manifestavano davanti alla casa mentre moriva lentamente Terry Schiavo, “noi amiamo i nostri tubi”, che ci permettono di vivere. Tutto il resto viene dopo.

Il quarto. Non c’è fila ai comuni per depositare il testamento biologico. Non si sono sollevate proteste di piazza perché il registro nazionale delle DAT ancora non è partito, e neanche proteste dei singoli. Per autodeterminarci cerchiamo respiratori e ci affidiamo fiduciosi a medici e infermieri. Mai come adesso lo slogan universale è: “la vita innanzitutto”. Di idee tipo “la qualità della vita” manco uno straccio. Qualunque sia la nostra vita, ci restiamo attaccati.

Il quinto. Adesso si capisce molto meglio da dove sono nate le vicende di Charlie Gard e Alfie Evans, da quale mentalità di fondo. Qui non posso essere più esplicita, per evitare querele. Ma, adottando una metafora cara alla perfida Albione, quando scopri di essere entrato nel gregge a tua insaputa, quando ti accorgi di essere considerato una qualunque pecora tra le altre, allora anche i convincimenti più radicati possono mutare in un batter d’occhio.

Il sesto. Evviva la plastica. Evviva l’usa e getta. In tempo di coronavirus è fondamentale per tutto, dalle strumentazioni negli ospedali alle bottigliette di acqua e ai bicchieri monouso, al posto di quelle borracce che ti trascini ovunque, e chissà poi quando trovi il tempo di lavarle per bene e per davvero, e quanto ci sguazza bene là dentro, la palla grigia con le punte rosse.

Il settimo. Questo farà arrabbiare molti, ma vabbè: il consenso informato ne esce male. Anche se pienamente informati su quel che dobbiamo fare per non ammalarci, noi, che sicuramente non vogliamo ammalarci, non sempre facciamo quel che dovremmo fare. Vale cioè quella vecchissima faccenda del bene e del male, quella che non basta essere bene informati per scegliere il bene per sé, perché siamo liberi di scegliere quel che è male, lo sappiamo, e lo facciamo lo stesso. Chissà mai perché. Eppure il bene e il male esistono, adesso cominciamo a intuirlo.

Fonte: l’Occidentale

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