Ecco le due lezioni impartite dal Coronavirus

di Aldo Vitale.

In primo luogo: emerge con quanta urgenza la politica debba riappropriarsi del proprio ruolo, della propria funzione, della propria vocazione, non potendo demandare tutto ai tecnici, agli specialisti, agli esperti, ai magistrati in funzione suppletiva o agli scienziati in funzione organizzativa. In secondo luogo: l’esperienza del Coronavirus ha insegnato e sta insegnando, inoltre, che tutte le attuali visioni, speranze, proiezioni sulla presunta infallibilità della scienza non soltanto contraddicono la realtà, come dimostra il dissenso che anima virologi ed epidemiologi per esempio sulla mortalità del Coronavirus, ma la natura della stessa scienza che è davvero tale soltanto quando si percepisce e viene percepita per ciò che realmente è, cioè fallibile

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«Benedetti siano gli istanti e i millimetri e le ombre delle piccole cose»: così Fernando Pessoa, quasi con i toni del salmista fiducioso, al limite della serafica rassegnazione di un Giobbe flagellato, scriveva nel suo “libro dell’inquietudine”, potendosi le sue riflessioni perfettamente adattare al tempo attuale in cui, tra timori e tremori, percependosi tutta la fragile precarietà dell’esistenza umana ci si “gode” gli istanti della quarantena, in cui i millimetri che ci dividono dagli altri diventano il “droplet” che separa la vita e la morte, mentre, come torreggianti e tuonanti nembi che d’improvviso irrompono in una azzurra e assolata giornata di fine estate, su tutto il mondo, su tutta la vita, sui singoli e sulla collettività, sullo Stato e sulla Chiesa, sull’anima e sul corpo, si proietta l’ombra oscura di una piccola, piccolissima, cosa come un virus, come il Coronavirus appunto.

Eppure, esorta Pessoa, siano tutti benedetti: gli istanti, i millimetri e perfino le ombre; e forse è davvero così; sicuramente meno per la quarantena, specialmente per coloro che riporteranno danni economici o, peggio, per coloro che purtroppo hanno già pagato con la vita, o per coloro che stanno lottando per la sopravvivenza, ma probabilmente e paradossalmente di più per quella infima e infinitesima cosa che è il Coronavirus il quale silenziosamente, pur all’interno del caos e del trambusto che ha generato, con quella linearità inesorabile, quasi spietata, che spesso contraddistingue la natura, specialmente quella “matrigna” come chioserebbe Giacomo Leopardi, sembra aver impartito due fondamentali lezioni all’umanità contemporanea.

In primo luogo: emerge con quanta urgenza la politica debba riappropriarsi del proprio ruolo, della propria funzione, della propria vocazione, non potendo demandare tutto ai tecnici, agli specialisti, agli esperti, ai magistrati in funzione suppletiva o agli scienziati in funzione organizzativa.

Senza dubbio in determinati contesti il parere degli uomini di scienza è utile, se non addirittura necessario, ma non si può sperare che l’uomo di scienza travalichi i propri limiti e i propri compiti, cioè quelli dell’analisi per inerpicarsi sull’erto pendio della sintesi.

La sintesi dovrebbe sempre spettare alla classe politica, specialmente a quella che è investita dell’onere di governare e amministrare la cosa pubblica.

Solo tramite il recupero della sintesi la classe politica potrà nuovamente non soltanto ritrovare se stessa e fuoriuscire da quello stato di minorità in cui versa nei confronti di altre categorie, come per esempio nei confronti dell’aristocrazia giudiziaria o dell’elite scientifica, ma anche e soprattutto potrà concretamente garantire l’effettività della tutela del bene comune pur nella complessità dei fattori che la realtà contemporanea sottopone alla sua attenzione.

In poche parole: i tecnici possono aiutare a governare, ma a loro non si può delegare la funzione governativa, non soltanto in ragione della tutela dei principi democratici e di rappresentanza, ma anche in virtù della natura della politica che per l’appunto non è mero calcolo, afferendo alla più naturale di tutte le dimensioni umane, cioè la relazionalità nella co-esistenza.

In secondo luogo: l’esperienza del Coronavirus ha insegnato e sta insegnando, inoltre, che tutte le attuali visioni, speranze, proiezioni sulla presunta infallibilità della scienza non soltanto contraddicono la realtà, come dimostra il dissenso che anima virologi ed epidemiologi per esempio sulla mortalità del Coronavirus, ma la natura della stessa scienza che è davvero tale soltanto quando si percepisce e viene percepita per ciò che realmente è, cioè fallibile.

Il fideismo assoluto nei confronti della scienza, residuo totemico di una spiritualità orfana di padre celeste in una cultura forzosamente secolarizzata quale è quella dell’occidente contemporaneo, mostra il basilare fraintendimento di fondo oggi così ampiamente diffuso intorno alla natura e alla funzione della scienza alla quale non si possono attribuire i demeriti di ciò che essa non riesce a fare (non perché non voglia, ma perché strutturalmente non può), come per esempio spiegare il senso ultimo e profondo dell’esistenza, della vita e della morte che come tali non sono mai comprensibili alla luce di meri calcoli o di complesse formule, né negare i meriti che la caratterizzano per essere utile strumento ai fini della comprensione del “come” del mondo e del cosmo affidandole gravosi oneri ulteriori, che ad essa non spettano, come l’organizzazione della vita sociale e politica.

L’impotenza cronica della politica e l’onnipotenza presunta della scienza, insomma, sembrano essere state messe in discussione dal Coronavirus il quale, come gli istanti, i millimetri e le piccole cose di Pessoa si spera – alla fine di tutto e nonostante tutto – che possa essere benedetto se, oltre ad aumentare la quantità e la qualità dell’igiene personale e collettiva, riuscirà altresì a ricondurre tutta la realtà, comprese la politica e la scienza, alle sue vere dimensioni ed effettive proporzioni.

Fonte: l’Occidentale

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