CIVILTÀ CRISTIANA E DISSOLUZIONI RIVOLUZIONARIE

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Oggi, 21 giugno, giorno dedicato al ricordo di San Luigi Gonzaga, inizio la trascrizione della stupenda lezione di storia – una vera Lectio magistralis -, che il prof Andrea Arnaldi ha tenuto sabato 16 giugno 2018 dai microfoni di Radio Maria. Possiamo considerare Radio Maria, assieme ad alcuni altri media cattolici, come Università popolari, in grado di dare ai loro ascoltatori o lettori una visione completa e illuminante dei fatti e della storia, rendendoli capaci di comprendere la complessità e gravità della crisi del nostro tempo. Ndt.

Buona sera e ben trovati, cari amici ascoltatori! In occasione della nostra ultima conversazione abbiamo affrontato il tema del 68, questo movimento politico-ideologico e culturale, che ha caratterizzato, connotato in modo forte, pregnante, non solo l’anno 1968 – di cui si celebra il cinquantenario -, ma anche gli anni e i decenni successivi. Ci siamo soffermati in modo particolare su quella che abbiamo definito come la connotazione principale, cruciale, che ci aiuta a comprendere il 68 come fenomeno. E cioè, ci siamo fermati a parlare del 68 come rivoluzione culturale.

Per affrontare questa tematica, ho avuto modo di accennare al concetto di rivoluzione, cioè in che senso il 68 può essere definita una rivoluzione culturale? E che cosa significa il concetto di rivoluzione? Come collocare questo concetto all’interno della storia?

Poiché questa tematica è cruciale e può aiutarci a leggere con più attenzione e maggior cognizione di causa anche altri importanti eventi della storia umana, mi sembra opportuno dedicare la conversazione di oggi proprio al concetto di rivoluzione, anche riprendendo alcune cose che ci siamo già detti, e un po’ approfondendo queste suggestioni, queste idee e questi spunti di riflessione.

Lo scrittore cattolico contemporaneo, un grande scrittore del Novecento, Eugenio Corti (1921 – 2014), ha descritto il suo secolo, il secolo XX, «come quello in cui abbiamo visto in atto per la prima volta nella storia in dimensioni così gigantesche, il tentativo di costruire delle società umane facendo a meno di Dio e della sua legge. Anzi, in opposizione esplicita alla sua legge!». Ecco, in questo modo Eugenio Corti dà una definizione molto forte, molto dura, del Novecento, nel suo tratto fondante del pensiero ideologico.

E poi, parlando dei milioni di vittime delle ideologie del XX secolo, Corti affronta il tema cruciale dell’allontanamento dell’uomo da Dio con queste parole: «Un numero così inconcepibile di morti, come è quello delle due guerre mondiali e delle ideologie devastatrici che hanno insanguinato il Novecento, i non cristiani non riescono a spiegarselo, come non riescono a spiegarsi un secolo XX improvvisamente tornato alle caverne, dopo un XIX secolo tutto sommato civile. Ai cristiani, invece – e questa è l’osservazione di Corti che vorrei trasmettere e sulla quale vi invito a riflettere -, ai cristiani, invece, non è difficile individuare in quel terribile processo storico, l’alterno sovrapporsi delle “due città”, che stanno nella visione cristiana della storia formulata e trasmessaci dal filosofo (e santo. Ndt) Agostino. La città, o società, terrena, che esclude Dio dal proprio ambito; e la città o società, celeste, che invece gli fa spazio, e cerca di costruirsi secondo i suoi insegnamenti. “di solito – dice il filosofo – le due società si presentano mescolate tra loro, secondo proporzioni che variano. Ed è appunto la prevalenza alterna dell’una o dell’altra, a costituire il filo conduttore di tutta la storia degli uomini”. Avverte ancora Agostino: “I costruttori della città terrena, indipendentemente dalle loro intenzioni, finiscono sempre col comportarsi alla maniera del “Principe di questo mondo”, di cui parla il Vangelo”, cioè, piaccia o non piaccia, il Demonio. Ora noi sappiamo, perché ce lo dice il Vangelo, che gli attributi specifici del Demonio sono quello di essere omicida, menzognero e scimmia di Dio».

Ecco, questa descrizione di Eugenio Corti, così drammatica, è importante perché ci aiuta a recuperare questa concezione di teologia della storia che Sant’ Agostino ci ha trasmesso con la sua vita e con la sua opera più importante, da questo punto di vista, La città di Dio. Sant’Agostino sintetizza la propria teologia e filosofia della storia in questi termini, quando scrive: «Due amori hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio, ha costruito la città terrena. L’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé, la città celeste».

Ed ecco che, dunque, le considerazioni di Eugenio Corti ci aiutano ad entrare nel tema di questa conversazione. «L’uomo – ricorda Corti citando l’insuperabile capolavoro di teologia della storia di Sant’Agostino -, vive nella storia il dramma causato dal PECCATO ORIGINALE, che lo spinge verso l’edificazione di una città terrena incapace di trovare il proprio equilibrio nel riconoscimento dei diritti di Dio, in quanto, egoisticamente sbilanciata verso l’esaltazione dell’AUTONOMIA DELL’UOMO DA DIO CREATORE». È questa costante, continua tensione tra queste due forze, che si fronteggiano nel corso del tempo e della storia. E questa tensione continua, che si sposta ora verso l’uno, ora verso l’altro polo, è quella che determina le grandi mutazioni storiche, le grandi epoche; la nascita e la morte delle civiltà umane.

Possiamo dire che il processo di distacco dell’uomo da Dio, che si manifesta con inusitata chiarezza soprattutto a partire dal XV secolo, e che prosegue con caratterizzazioni differenti fino ai nostri giorni, può essere definito, secondo alcune autorevoli scuole di pensiero, come RIVOLUZIONE, intendendo con questo termine il rovesciamento dell’ordine naturale creato da dio, e del disegno salvifico, anche storico e temporale, perseguito dal Signore Gesù in riparazione del peccato. In questo senso, noi parleremo e parliamo di rivoluzione. E a ben vedere, queste radici del processo rivoluzionario che si dipana nel corso della storia, non possono essere individuate solo a partire dalla metà del secondo millennio cristiano. Quindi è vero che, soprattutto una filosofia della storia più recente si è soffermata sulle fasi di questo processo di distacco, a partire, grosso modo, dalla ribellione luterana, però è chiaro che. In senso lato, evidenti episodi di questa tensione continua tra l’egoismo umano e la tensione verso Dio Creatore, si riscontrano in tutte le epoche.

La prima vera radice di questo processo, infatti, è anzitutto di ordine soprannaturale. Soprannaturale e metastorico. E la radice va individuata nella ribellione di Lucifero, che era la più importante e gloriosa creatura angelica. Ribellione che Lucifero compie nei confronti del disegno provvidente di Dio. Ribellione che apre le porte alla guerra celeste, cui farà seguito la creazione dell’inferno. Una pena infinita per una colpa di gravità infinita.

Ce ne parla il capitolo XII dell’Apocalisse, dove si legge: «Scoppiò quindi una guerra nel cielo. Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, ma non prevalsero, e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e Satana, e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla Terra, e con lui furono precipitati anche i suoi angeli». Ecco, questo è un brano di altissima drammaticità, ma che descrive una situazione, un fatto, che accadde prima del tempo e della storia. Ed è da questo momento, che si situa, appunto, al di fuori del tempo e della storia, che il Demonio sarà votato alla distruzione dell’opera creatrice di Dio. Prima di tutto istigando l’uomo al peccato, e successivamente inducendolo a rifiutare il progetto salvifico di Dio.

(Visto che siamo in un tempo in cui si parla di “fake news”, di false notizie, molti “benpensanti” e “sapienti” di questo mondo – si tratti di persone importanti o semplici cittadini -, molti sorrideranno pensando che si tratti della notizia più falsa, alla quale credono solo i bambini e le donnicciole! Si tratta invece di una terribile e sempre attuale realtà e verità, di cui la storia ci fornisce continui sanguinosi esempi! Ndt).

Come scrive molto acutamente il pensatore cattolico spagnolo Juán Donoso Cortés: «Quando l’angelo caduto, spoglio ormai di bellezza e di luce, vide nel Paradiso l’uomo e la donna così puri, così luminosi e così belli, nello splendore della grazia, colpito da profonda tristezza per il bene di cui essi godevano, si propose di trascinarli nella sua stessa dannazione, essendogli ormai impossibile uguagliarli nella gloria».

E, come sappiamo, il peccato degli angeli è la causa prima del peccato dei progenitori: di Adamo ed Eva. Ce ne parla il Catechismo della Chiesa cattolica al numero 398, dove leggiamo così: «Con questo peccato l’uomo ha preferito sé stesso a Dio. E perciò ha disprezzato Dio. Ha fatto la scelta di sé stesso, contro Dio; contro le esigenze della propria condizione di creatura, e conseguentemente, contro il suo proprio bene. Costituito in uno stato di santità, l’uomo era destinato ad essere pienamente divinizzato da Dio nella gloria. Sedotto dal Diavolo, HA VOLUTO DIVENTARE COME DIO, ma senza Dio e anteponendosi a Dio, non secondo Dio».

Dunque, il peccato entra sulla scena della storia, e le imprime una dinamica avvelenata, cioè proprio quella dinamica centrifuga di allontanamento della creatura dal Creatore. Possiamo quindi affermare che il peccato di Lucifero, nell’ordine metastorico, determina poi il peccato originale, che introduce il male nel tempo storico. E da qui deriva infatti il peccato individuale, e in sua diretta conseguenza, il peccato sociale. Quindi il peccato che si riverbera all’interno della vita sociale dell’uomo in comunità.

Il peccato individuale ha il suo modello nel peccato dei progenitori. E questo si riverbera immediatamente nel peccato di Caino, di cui parla l’inizio del libro della Genesi. Il peccato di Caino che si può in qualche modo sintetizzare così. Una incapacità di relazione con Dio e con gli altri, nell’egoismo, nell’invidia e in fine nell’omicidio.

Ora dobbiamo anche riflettere che l’intera umanità – noi compresi -, è discendente di Caino. Quindi l’intera umanità porta con sé le medesime debolezze e deve fare i conti quotidianamente, in ogni tempo, in ogni condizione, in ogni cultura, con le stesse tensioni, le stesse tentazioni; la stessa forza centrifuga che lo induce ad allontanarsi da Dio Creatore.

E, se il peccato si caratterizza per il distacco, quindi per questo concetto di allontanamento, potremmo dire meglio: di fuga, la vera autentica missione della Chiesa, nel tempo e nella storia, è quella della riconciliazione, cioè della possibilità di favorire, per quanto possibile, il ripristino delle condizioni di sintonia, di accordo, tra Dio provvidente e l’uomo. Perché questa era la volontà originaria di Dio Creatore!

Ne parla in modo mirabile – e non finiremo mai di consigliarne la lettura, lo studio e la meditazione -, l’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Reconciliatio et penitentia, che spiega come: «In intima connessione con la missione di Cristo, la missione della Chiesa è quella di riconciliare l’uomo, ristabilendo in modo corretto le quattro relazioni fondamentali». E quali sono le quattro relazioni fondamentali che l’uomo intrattiene o deve intrattenere?

Prima di tutto la relazione con Dio, la relazione con sé stesso, la relazione con i fratelli, e ultima e non meno importante, la relazione con tutto il creato. Ecco queste sono le quattro dimensioni di relazione che l’uomo è chiamato a sviluppare, a custodire e a coltivare. E la riconciliazione dell’uomo in tutte queste relazioni rappresenta la missione fondamentale della Chiesa. Rappresenta lo strumento attraverso il quale superare le laceranti fratture prodotte dal peccato. Io farei ora una piccola pausa musicale, perché questi sono concetti così importanti, che meritano una riflessione, una riflessione individuale, personale.

Ora, tutto quello che abbiamo detto sul peccato, in rapporto al peccato sul piano soprannaturale, può, per relazione, essere riferito alla rivoluzione, sul piano storico. Questo è un passaggio molto importante perché ci aiuta a capire il concetto di rivoluzione sul piano storico come processo di progressivo allontanamento dell’uomo, nel tempo e nella storia, sul piano delle idee e dei fatti, di allontanamento da Dio, dall’ordine naturale e cristiano.

Ne parla in un saggio pubblicato recentemente Ignazio Cantoni, quando scrive così: «Quando gli uomini prendono sul serio il messaggio di Gesù, cioè si sforzano di vivere le quattro relazioni fondamentali quelle di cui abbiamo appena parlato -, alla luce del Vangelo, si ottengono dei cristiani. Quando questi cristiani divengono sociologicamente rilevanti, cioè capaci di dare il tono caratteristico alle società dove nascono, vivono e muoiono, SI CREANO SOCIETÀ CRISTIANE. E la loro storia è qualificabile come una CIVILTÀ CRISTIANA.

Con riferimento all’Europa, la sintesi di cristianesimo con gli elementi romano-germanico, ha dato origine alla straordinaria avventura della cristianità occidentale, che i suoi detrattori chiamano Medio Evo, o “secoli bui”. Ma tale sintesi è sempre precaria, cioè vive costantemente in un equilibrio dinamico. Analogamente all’uomo, nessuna società può dire: “non ho più bisogno di pregare e di fare penitenza; di convertire tutte le mie azioni continuamente a Cristo, perché sono un cristiano arrivato. L’Europa, a un certo punto, ha smesso di pensare e di agire alla luce del Vangelo, e attraverso quattro fasi principali: Riforma protestante, del 1417, Rivoluzione Francese, del 1789, Rivoluzione d’Ottobre, del 1917 e maggio francese, del 1968, ha rivisto giudizi che stavano alla base delle sue quattro relazioni fondamentali, estromettendo ogni relazione e finalità religiosa da tutti gli ambiti della vita umana». Ecco, quest’ultima frase di Cantoni è in realtà una citazione di San Giovanni Paolo II, che, in un suo documento definisce la secolarizzazione esattamente come estromissione di ogni motivazione e finalità religiosa da tutti gli ambiti della vita umana. Si ha cioè secolarizzazione – secondo il magistero di quel papa -, quando l’uomo scaccia dalla propria vita personale e sociale qualunque riferimento soprannaturale.

E Cantoni prosegue, dopo aver fatto riferimento a questo processo storico di progressivo allontanamento dell’uomo da Dio, dicendo. «È l’apostasia dell’Occidente, versione odierna della possibilità, sempre alla portata dell’uomo, di allontanamento da Dio. Abbiamo così avuto, con una logica e una coerenza radicale, il rifiuto, prima dell’autorità religiosa, poi dell’autorità politica, quindi di quella economica, infine di quella genitoriale. Una estromissione da ogni ambito della vita di coloro che, per il loro ruolo, rappresentano per ciascuno di noi l’ombra provvidente di Dio nella nostra esistenza». Dunque, questa può essere in qualche modo una descrizione efficace e sintetica della rivoluzione sul piano storico e del suo svolgersi con carattere di processo.

(Da questi esempi negativi, che vediamo avverarsi in maniera eclatante nelle nostre società liquide, relativiste e individualiste, possiamo vedere il perpetuarsi della tentazione dei nostri progenitori: quella di essere come Dio, al posto di Dio, per decidere autonomamente il bene e il male, il naturale e innaturale, il lecito e illecito, eccetera, che sono stati messi in atto anche nei totalitarismi del passato. Ma possiamo comprendere anche qual è la strada per la vera liberazione dal giogo del tentatore, che ci uccide con quello che ci offre, come abbiamo visto nelle ideologie assassine del secolo scorso e di quello attuale. Ndt).

L’elemento che caratterizza i mille anni di storia occidentale, che vanno orientativamente dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente alla scoperta dell’America, è la sua ispirazione unitaria di fondo, cioè il suo riferimento spirituale, sociale e politico, alla Verità cristiana. È quella ispirazione di fondo di cui parlava Cantoni nel brano appena citato precedentemente. Ecco, questa idea forza, di unità attorno alla ispirazione cristiana, è quella che connota i mille anni che hanno dato vita alla civiltà cristiana occidentale.

Lo scrittore svizzero Gonzague de Reynold, lo sintetizza così: «Gerusalemme poteva fornire all’Europa un principio spirituale; la Grecia, un principio intellettuale; Roma, un principio politico; ma il cristianesimo era l’unico a poter operare la sintesi di questi tre principi». Ed ecco su quali basi nasce, si sviluppa e fiorisce questa civiltà millenaria. La civiltà cristiana romano-germanica si è affermata grazie alla sua capacità di trovare, pur tra innumerevoli difficoltà, il punto di equilibrio tra i diversi valori fondanti che la costituiscono, che possiamo identificare in questi quattro: la fede, la ragione, la persona, la comunità.

Volendo schematizzare in modo estremamente semplicistico, possiamo dire che la fede è il portato del cristianesimo, e prima ancora, dell’ebraismo: la ragione è il portato della cultura greca (portata all’introspezione, al ragionamento sulle cose, alla speculazione filosofica; la persona è il portato della cultura romana, e la comunità è il portato della cultura germanica (fondata proprio sull’idea di gruppo, di clan). Quando questi quattro elementi si trovano in rapporto di equilibrio reciproco, la società umana si sviluppa in modo armonico e costruttivo. Viceversa, quando uno di questi elementi tende a prevaricare gli altri, si generano guasti sociali di maggiore o minore gravità.

Così, sempre volendo semplificare ed esemplificare, possiamo dire che l’ipertrofia della componente fede è all’origine dello sviluppo della rivoluzione protestante; il predominio della componente ragione connota invece l’illuminismo razionalista della Rivoluzione Francese – che sappiamo arriva poi a deificare la ragione, con il culto della “dea Ragione”. Il predominio della componente comunitaria è invece ciò che connota il collettivismo social-comunista, che ha devastato il XX secolo. E il predominio dell’elemento personale è invece alla base della nascita e dello sviluppo dell’individualismo nichilista, che è quello che connota i nostri tempi, partendo dalla rivoluzione culturale del 68.

E allora possiamo dire che la omogeneità che ha caratterizzato la civiltà cristiana romano-germanica medievale è stata inizialmente scalfita e poi distrutta da questo processo rivoluzionario che ha minato alla radice la stessa possibilità di pensare ad una società omogenea, attaccando prima di tutto l’unità morale e religiosa dell’Europa cristiana. Questo ci consente di affermare che il morbo rivoluzionario ha trasformato un mondo tendenzialmente omogeneo in un mondo disomogeneo. Si tratta del processo inverso a quanto è avvenuto alle origini della società cristiana. Infatti la società barbarica, che si forma dalla crisi dell’Impero Romano d’Occidente, era una società profondamente disomogenea. Era una società nella quale confluivano elementi di svariata natura; popolazioni di svariata origine e cultura. Perciò, l’implosione dell’Impero Romano d’Occidente apre le porte al confronto e al mescolarsi del massimo della disomogeneità sotto il profilo etnico, culturale, morale, organizzativo.

Quindi possiamo dire che è proprio la conversione al cristianesimo, l’incontro di tutte queste forze eterogenee con l’elemento rappresentato dal cristianesimo, come elemento morale, spirituale e cristiano -, che porta a compimento un difficilissimo processo di omogeneizzazione culturale, sociale, politica e spirituale, che è quella sulla quale si sviluppa l’Europa cristiana.

Benedetto XV (1854 – 1922), nell’enciclica Pacem Dei munus, del 23 maggio del 1920, scrive: «Dalla testimonianza della storia abbiamo saputo che i vecchi popoli barbari dell’Europa, dal giorno in cui lo spirito della Chiesa li penetrò, videro colmarsi poco a poco l’abisso delle mille divergenze che li separavano, e placarsi le loro discordie. Essi si fusero in una sola società omogenea, e ne è nata l’Europa Cristiana, che sotto la guida e gli auspici della Chiesa, conservando la varietà delle nazioni, doveva però tendere a quell’unità che è operatrice di prosperità e di gloria».

Ecco con quali bellissime parole Benedetto XV ci descrive la progressiva opera di fusione di queste disomogeneità originarie nella omogeneità data dall’elemento unificante del cristianesimo. (Chi pensa il contrario è perché non ha conosciuto o non vuol conoscere questo “elemento”, che in realtà è un Fatto inaudito: Dio che, facendosi uomo, viene a liberare l’uomo e a rivelargli il senso della sua vita e della sua morte, con la Buona Notizia della Risurrezione! Ndt).

Ma allora sentiamo anche le parole, altrettanto belle e chiare di San Giovanni Paolo II, che scrive in una sua lettera del 20 maggio del 1982: «La sintesi della cultura e della fede non è solo un’esigenza della cultura, ma anche della fede. Proprio questo hanno realizzato i cristiani fedeli al Vangelo, nel corso di due millenni, nelle situazioni culturali più diverse. La Chiesa si è inserita molto spesso nella cultura dei popoli in mezzo ai quali si era stabilita, per modellarla secondo i principi del Vangelo. La fede in Cristo incarnato nella storia, non solo trasforma interiormente le persone, ma rigenera anche i popoli e le loro culture. Così, alla fine dell’antichità, i cristiani che vivevano in una cultura alla quale dovevano molto, la trasformarono dall’interno e la permearono di uno spirito nuovo. Quando questa cultura fu minacciata, la chiesa con Atanasio, Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Agostino, Gregorio Magno e molti altri, trasmise l’eredità di Gerusalemme, di Atene e di Roma, per dar vita ad una autentica civiltà cristiana. Con le imperfezioni inerenti a ogni opera umana, fu l’occasione di una riuscita sintesi tra la fede e la cultura».

Come vediamo, anche qui siamo di fronte a parole importanti, sulle quali non deve mai mancare l’attenzione e la riflessione da parte di ognuno di noi. Certamente principalmente da parte degli uomini che si occupano della cosa pubblica, delle tematiche culturali, politiche e sociali, ma ciascuno, in realtà, è chiamato in qualche modo a far sì che la fede proclamata, professata, si trasformi poi in una cultura di vita vissuta. Però sappiamo, avendolo ricordato poco fa, che, come ricordava Cantoni nella citazione che abbiamo letto poco fa: “così come la persona non può dire: “Mi sono convertito. Ormai sono convertito”, e quindi ho raggiunto una condizione di stabilità dalla quale nulla mi farà recedere. Non è così. Non è così per la persona e non lo è per i corpi sociali. Sia a livello individuale che a livello sociale non si raggiunge una condizione di perfezione stabile. Sono condizioni soggette all’infuriare dei venti, degli uragani che si abbattono sulla vita di ciascuno, come le relazioni con gli altri che si deteriorano, od altre motivazioni. Sono condizioni che possono farci vacillare nelle nostre certezze, o far emergere dei dubbi: sollecitazioni estranee esterne che vorrebbero farci approdare in un porto diverso.

Quindi, come la conversione delle persone non è una situazione di stabilità, ma dev’esser conquistata giorno dopo giorno e con perseveranza, così anche la condizione dei corpi sociali. Anche le società possono arrivare a livelli buoni, più o meno alti, di conformità alla legge naturale e cristiana. Ma se non perseverano in questo, subiscono inevitabilmente le tentazioni di idee o ideologie che cercano di far cambiare rotta, di scalzare le certezze conseguite, di cambiare i valori di riferimento.

Ne parla Gonzague de Reynold in un suo saggio, dicendo: «Un’epoca non è affatto immobile. Passa attraverso successive trasformazioni. Periodi vuoti: chiamo così le grandi crisi che vengono a inserirsi fra due epoche. I periodi vuoti spezzano il ritmo regolare, normale, delle epoche. Come depressioni scoscese spezzano lo svolgimento di una catena alpina. Nel corso di queste crisi di dissoluzione si accumulano tutti i mali: guerre, scomparsa di stati, frazionamento di imperi, rivoluzioni, nel senso comune del termine; sconvolgimenti sociali, anarchia, decadenze intellettuali e morali, confusione degli animi, decomposizione del pensiero, proliferazione di idee e di sistemi. La società diventa instabile, si disgrega, si atomizza in individui. I popoli si radicano e si rimettono in movimento; la curva della civiltà si flette e ricompaiono la barbarie, le forze primitive». Una descrizione, come possiamo vedere, non da poco! Pensate che Gonzague de Reynold scrive questo saggio agli inizi del Novecento. Siamo in un’epoca precedente alla Seconda guerra mondiale e sembra che stia parlando dei nostri giorni. Proprio perché aveva capito come si sviluppano la storia delle società umane, la storia del pensiero e queste ondate che si susseguono; queste tentazioni che si tramutano in crolli di civiltà.

Così, il processo di progressivo distacco dall’ideale unitario medievale, di cui abbiamo parlato poco fa, si compie in misura sempre più evidente – lo dicevamo prima -, soprattutto a partire dal XIV secolo, e giunge al suo esito più clamoroso nel XVI secolo, con la frantumazione politica e religiosa dell’Europa. Il tempo, appunto della ribellione luterana. Cioè, sempre più, soprattutto a partire dal 1500, la storia europea si presenta come storia delle nazioni europee, e sempre meno come lo sviluppo di un insieme organico di popoli, come era stata fino ad allora. Ciò che conta, non è più il bene comune del proprio corpus culturale, religioso e politico di appartenenza – cioè quella che veniva definita la Cristianitas, la cristianità -, ma ciò che conta diviene lentamente, ma in misura ben percettibile, la propria forza, il proprio prestigio, i propri interessi nazionali, indipendentemente, e in fine, contro gli altri stati, che un tempo costituivano parte dello stesso organismo sociale e sovrannazionale.

Quindi, si assiste a un processo di frantumazione. L’antico disordine, che era stato omogeneizzato dal fattore unificante cristiano, si scompone nuovamente, si decompone, si atomizza. Scrive ancora Gonzague de Reynold: «Si annuncia fin dalla metà del secolo XV. La sua causa immediata è lo sfinimento, dopo due secoli di sforzo, della società cristiana. Si produsse dunque una crisi di disillusione. Gli spiriti caddero nel pessimismo e nella disperazione. Ciò che caratterizza questo periodo vuoto è la rottura delle grandi unità fondamentali sulle quali si riposava l’epoca precedente. Rottura dell’unità sociale; rottura dell’unità politica; rottura della pace cristiana; rottura dell’unità intellettuale; rottura dell’unità artistica. Ma la più grave, irrimediabile rottura, che si è prodotta allora è quella dell’UNITÀ RELIGIOSA. Tutta l’epoca della cristianità era costruita su di essa».

E a questo punto, al compimento di questo processo, diviene evidente che la storia ha voltato pagina. Che il Medio Evo cristiano era tramontato in virtù di una trasformazione di mentalità, che nel corso del XV secolo diviene sempre più nitida. È un profondo mutamento di stato d’animo, nel senso dell’allontanamento da Dio. L’idea di servire Dio, di vivere per un’ideale, per la croce, va scomparendo, e viene sostituita negli strati più profondi dell’animo umano dalla preoccupazione per il piacere che scaccia il senso del dovere, e si pone come unico scopo desiderabile dell’esistenza umana.

Questo modo di pensare mina alla radice il fondamento della società cristiana europea. Si incrina il rapporto tra l’uomo e la Chiesa, cioè, si altera il modo in cui l’uomo medioevale concepisce la propria esistenza ed i propri criteri di giudizio. E proseguo utilizzando ancora questi saggi di Gonzague de Reynold, che sono veramente illuminanti e di una profondità straordinaria. In uno di questi lo studioso svizzero ad inizio Novecento scrive così: «Si constata che questa rottura di unità politica e sociale è determinata da una ROTTURA DI UNITÀ SPIRITUALE. Ogni civiltà, ogni società, ogni regime, è sospeso a una concezione filosofica e religiosa, come un lampadario a un anello. La rottura si produce quando il lampadario non crede più all’anello. Se ne stacca, cade e si sbriciola. L’uomo preferisce le idee semplici, alla complessità del pensiero. E l’idea semplice è rivoluzionaria. Inoltre l’uomo è egocentrico. Tende a ridurre, a ricondurre tutto a sé, a possedere tutto per sé solo. Lo Stato, la società, il pensiero, Dio stesso. Infine, l’uomo tende a liberarsi, ma concepisce la sua liberazione in due modi incompatibili: la LIBERTÀ, l’UGUAGLIANZA. La libertà fino all’ANARCHIA, l’uguaglianza fino al COMUNISMO. Ed ecco tutto il contenuto della rivoluzione. Infatti, vi è una sola e unica rivoluzione. Vi è la Rivoluzione tout court, e questa la possiamo scrivere con la maiuscola».

Ecco, questo, Gonzague de Reynold lo scrive negli anni Trenta del Novecento, e mi sembra che ci aiuti molto a capire il concetto di Rivoluzione, nel tempo storico del quale stiamo parlando. Dunque, abbiamo parlato di questo processo di progressiva disgregazione di una civiltà millenaria e di come la Rivoluzione si connoti proprio per la sua forza centrifuga, disgregatrice, in grado di spezzare, sminuzzare, i legami fondanti, i legami decisivi.

Quali sono i caratteri fondamentali della nuova mentalità che si diffonde a partire dal XVI secolo e che si radica sempre di più nel pensiero dell’uomo moderno e che viene a sostituire i valori fondanti del corpo sociale?

Ci sono diversi aspetti che meritano di essere menzionati, anche perché si tratta di aspetti che noi certamente riscontriamo nell’uomo del Cinquecento, ma che possiamo riscontrare facilmente nell’uomo del XXI secolo. Allora, prima di tutto si comincia a diffondere un’idea che vede nella Chiesa semplicemente un’istituzione. Non è quindi più un organismo, al tempo stesso soprannaturale e umano, di origine e di fondazione divina, alla quale il cristiano è chiamato ad appartenere e a contribuire con la propria vita di preghiera, con la santità personale. Non è più, quindi, un qualche cosa a cui si è consapevoli di appartenere, anche con orgoglio, ma anche con umiltà, ma è vista sempre di più come un organismo umano: una istituzione, una forza di potere, un qualche cosa con cui ci si confronta e ci si scontra. Questo facilita enormemente il processo di distacco, di perdita di senso di appartenenza, di perdita del senso della Chiesa.

Poi, parallelamente a questa idea sbagliata di Chiesa, che si diffonde sempre di più, vi è il passaggio dell’ideale umano dal santo al divo. L’ideale non è più la santità o una tensione verso la perfezione morale e spirituale, ma è l’autoaffermazione di sé. A questo proposito, Romano Guardini scrive: Nasce l’uomo padrone di sé, che agisce ed osa e crea, portato dall’ingegno, guidato dalla fortuna e dalla gloria».

E Don Luigi Giussani ha scritto così: «La santità, come ideale dell’uomo, lo proiettava verso qualcosa di più grande di lui. E in questa tensione ad Altro, la perfezione evidentemente era l’unità di tutti i fattori umani in Dio. Se il nesso con ciò che è il più grande dell’uomo, viene eluso, la perfezione come totalità di fattori non può esistere, non è più concepibile. Potrà allora esistere una performance particolare, nell’uno o nell’altro campo; potrà esistere una capacità particolare in un tipo di umana espressività o in un’altra. Da questo punto in poi l’assetto della cultura, che sarà influente sulla società, si è come scheggiato in parzialità di sottolineature. All’ideale della santità medievale si sostituisce, nell’umanesimo, l’ideale della riuscita umana. Non più il DIO, cui tutto deve confluire in unità armonica, ma il DIVO, l’uomo riuscito, che conta sulle sue forze. È nelle proprie forze che occorre sperare; sulle proprie energie, che si scommette!». Anche in queste parole possiamo facilmente trovare questo elemento del pensiero contemporaneo.

Poi ancora, sono questi i decenni in cui si diffonde il mito del NATURALISMO: la natura buona; la natura buona, divinizzata. D’altra parte, se si comincia a escludere Dio dalla prospettiva dell’esistenza umana, dal momento in cui l’uomo si rende conto di non essere onnipotente, di non essere il fattore determinante e dominante di tutte le cose che ci sono nel mondo, è necessario trovare qualche altra forza che in qualche modo giustifichi e venga messa all’origine del creato, dell’armonia del creato, e questa forza è la NATURA DIVINIZZATA.

Cito ancora uno scritto di don Giussani, che dice: «L’umanista aveva ancora un senso di umanità, e non poteva dimenticare che l’uomo è pieno di limiti. Dalla lettura dei maestri antichi attingeva quel velo di tristezza, quel senso del limite ultimo, che nel teatro greco faceva concludere tragicamente ogni sforzo umano. Sintomatica in questo senso l’esclamazione di Petrarca quando dice: “Chi mi darà ali di colomba, sicché mi innalzi e levimi da terra?”. L’umanista è come se si domandasse: “Da dove viene all’uomo quell’energia realizzatrice, fonte di successo e di grandezza?”. E capisce benissimo che l’uomo non può darsela da sé. L’individuo non è, evidentemente, forza fonte della sua forza! Essa proviene da qualcosa d’altro. Qualcosa di più grande! Così, di fronte a un Dio cristiano, non negato, ma eclissato in una lontananza empirea, la creatività ultima viene identificata con la natura. Una natura sostanzialmente concreta, rispetto alla divinità astratta. Una natura intesa panteisticamente sarà quella che caratterizzerà l’epoca rinascimentale. Il bene diventa distinto. Il naturalismo che definisce così l’etica rinascimentale, segnala un cambiamento sistematico avvenuto nell’intero corpo della morale». Si diffonde quindi questa idea, questo principio. Dio viene eclissato, Dio tramonta, Dio viene oscurato nella prospettiva dei singoli e dei corpi sociali, e allora nasce questo mito della natura buona.

Ma c’è un altro aspetto fondamentale di questa nuova mentalità della modernità: è L’IPERTROFIA DELLA RAGIONE. Cioè la ragione che viene divinizzata, viene ingigantita, ma che al tempo stesso – con una sorta di eterogenesi dei fini -, viene mutilata. Viene privata della possibilità di compiere appieno l’opera verso cui sarebbe portata e per la quale è stata creata. Cioè, la ragione in realtà ha la capacità di arrivare a capire l’esistenza di Dio. E la ragione, che viene identificata nel pensiero moderno come misura di tutto il reale, viene al tempo stesso confinata dentro gli stretti limiti di ciò che è toccabile, pensabile, numerabile.

Monsignor Luigi Negri scrive così: «La ragione moderna risulta segnata da due patologie: l’IMPOTENZA e la STRAPOTENZA. La ragione impotente si arrende di fronte all’imponenza del reale, affermando la propria incapacità a conoscerlo nella sua totalità. La realtà è conoscibile solo sotto la cifra dell’estensione, del peso e della misura». (Cioè – dice Arnaldi – secondo una connotazione quantitativa, esprimibile scientificamente -, quindi la ragione arriva solo fin dove le cose sono visibili, toccabili, pesabili, numerabili). E monsignor Negri continua così nel suo ragionamento: «La modernità inizia dunque con una ragione che si ritrae dalla realtà, cioè, limita il proprio campo d’interesse a una parte del reale. Ad un certo punto, però, questa stessa ragione – razionalisticamente intesa -, afferma con chiara presunzione di strapotenza, che “tutto ciò che non può essere conosciuto in modo scientifico, NON ESISTE». (Il trascrittore, invece di strapotenza, direbbe strafottenza).

«Se la conoscenza – prosegue Negri – è il luogo e il soggetto originario della verità; se l’uomo è la misura delle cose; e se la ragione è l’unico strumento della coscienza, non si può dalla ragione comunque uscire. Tutto ciò che pretendesse di farlo è considerato illecita intrusione, sopraffazione o schiavitù dello spirito. Tutto si racchiude entro i limiti della ragione, VERO DIO DEL MONDO, manipolatore e creatore. Ad essa si rimanderà di risolvere gli enigmi non ancora risolti, e quindi di rendere capace l’uomo di utilizzare tali soluzioni. In essa quindi si spera. Nulla, fuori della ragione, può essere pensato o fatto, se non squalificandolo come degno degli aspetti più inferiori dell’uomo». Quindi, vedete il paradosso di questo pensiero della modernità?

Il secondo passaggio è: “siccome io non posso andare oltre questo limite che mi sono dato, tutto ciò che è al di là di questo limite, semplicemente non esiste. Dichiaro che non esiste! Eppure ognuno di noi ha esperienza quotidiana dell’esistenza di elementi importantissimi, che non si toccano, non si pesano e non si numerano. Tutto ciò che è frutto del nostro spirito, come la forza interiore che riusciamo ad esprimere, ad esempio se pensiamo alla dimensione straordinaria dell’amore. Il credente sa che la dimensione propria del Creatore è l’amore, eppure credo che nessuno possa negare che l’amore sia una realtà! Al tempo stesso nessuno può affermare che l’amore (Come il suo contrario, l’odio. Ndt), sia una realtà quantificabile, pesabile, misurabile, o che possa essere contenuta dalla ragione umana. quindi vedete le profonde contraddizioni in cui cade il pensiero della modernità.

La modernità rivoluzionaria si connota anche per il senso di autosufficienza dell’uomo. Soprattutto nel Settecento, ma principalmente nell’Ottocento per le grandi scoperte scientifiche, geografiche, eccetera. L’uomo si impossessa di conoscenze, di dati e scoperte. Si impossessa della capacità di fare cose che prima non avrebbe neanche lontanamente immaginato. Si genera così un senso di onnipotenza. L’uomo dice: “Ho scoperto tante cose. Col mio ingegno, con la mia capacità, con le mie conquiste, con la scoperta delle leggi della chimica e della fisica, non ho bisogno di Dio! Se so come manipolare gli elementi per ottenere qualche cosa di vantaggioso per l’uomo, in realtà sono io a bastare a me stesso. Sono io l’artefice del mio bene. Sono io l’artefice della mia salvezza!”. (Un giorno la scienza mi darà tutte le risposte. Ndt).

Come logica conseguenza di un pensiero che si avvita attorno a questi concetti, nascono poi delle contrapposizioni che per l’uomo cristiano non hanno nessun senso. La contrapposizione tra FEDE E RAGIONE, ad esempio, che in realtà non sono fattori che si contrappongono, ma si legano profondamente. Infatti, la fede non può prescindere dalla retta ragione. La retta ragione è la porta di accesso alla fede, alla capacità di capire che C’È UNA DIMENSIONE CHE CI TRASCENDE. E invece, nel pensiero della modernità – e lo constatiamo quotidianamente -, fede e ragione sono viste come antitesi. L’uomo di fede è visto come un uomo non ragionevole, e l’uomo di ragione è un uomo che non ha bisogno della fede e della dimensione soprannaturale.

Un’altra contrapposizione è tra il piano della natura e quello della sopra-natura. Naturale e soprannaturale per l’uomo cristiano, o medievale, ad esempio, coesistono tranquillamente, perché appartengono a dimensioni diverse della stessa realtà. Oppure ancora certe contrapposizioni che sono incomprensibili per l’uomo medievale. E sono tutte le fratture che spezzettano l’agire, il pensare e l’essere dell’uomo, nelle sue diverse dimensioni, fino alla estromissione del divino, arrivando ad affermare che Dio non c’è. Dio non esiste, non serve, è inutile, non c’entra!

L’individualismo prende il posto di una visione universalistica. Nel modo di concepire la vita e la morte; nel diritto, nella filosofia, nella politica, nel rapporto con Dio. Come ha scritto il grande, compianto storico, Marco Tangheroni (Pisa, 1946 – 2004), quando dice che: «I cambiamenti della mentalità del tardo Medioevo possono essere sintetizzati come spinte verso un crescente individualismo. Cioè la tendenza a vedere nell’uomo singolo la misura di tutti i valori. È questo che connota realmente il pensiero della modernità».

E sentiamo cosa ha ancora da dirci il nostro Gonzague de Reynold: «A partire dal secolo XV NON ESISTE PIÙ L’EUROPA. Rimangono nazioni, i cui interessi particolari prevalgono sul bene comune. E governi, per i quali la ragione di Stato prende il posto di Dio. Nel secolo XVII i principi riconoscevano ancora la legge divina, e il loro assolutismo era ancora cristiano. Nel XVIII, il dispotismo illuminato sostituisce l’assolutismo cristiano. Il monarca o l’uomo di Stato dev’essere un filosofo, e lasciarsi guidare soltanto dai lumi. È responsabile di fronte allo Stato, non più di fronte a Dio! Lo Stato, che già si annuncia totalitario, domina il monarca, e presto farà a meno di lui. Infine, nel secolo XVIII, dall’ancien regime, che era iniziato, come tutti i regimi, per essere nuovo e anche rivoluzionario, come il suo regime precedente, il feudalesimo, questo Ancien regime entra nel suo periodo di dissoluzione. Non crede più in sé; non ha più un’anima; è già morto».

E nel 1952, in un celeberrimo discorso di Pio XII agli uomini di Azione Cattolica, il Santo padre usa una delle immagini chiarissime e di grandissima efficacia, quando parla del nemico dell’uomo. Dice che il nemico dell’uomo rappresenta un pericolo costante e incombente per l’uomo e per le società umane”, dice queste parole che sono da scolpire a caratteri d’oro: «Esso si trova dappertutto e in mezzo a tutti. Sa essere violento e subdolo. In questi ultimi secoli ha tentato di operare la disgregazione intellettuale, morale, sociale dell’unità nell’Organismo misterioso di Cristo. Ha voluto la natura senza la grazia, la ragione senza la fede, la libertà senza l’autorità. Talvolta l’autorità senza la libertà. (E io aggiungerei, con Giovanni Paolo II, senza la verità. Ndt). «In nemico è divenuto sempre più concreto, con una spregiudicatezza che lascia ancora attoniti. (Si erano già visti i lager e i gulag, le deportazioni e gli stermini di massa. Ndt). «Fino al Cristo si, Chiesa no. Poi: Dio si, Cristo no. Finalmente il grido empio DIO È MORTO, anzi, Dio non è mai stato. Ed ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo sopra fondamenti che noi non esitiamo ad additare come principali responsabili della minaccia che incombe sull’umanità. Un’economia senza Dio. Un diritto senza Dio. Una politica senza Dio». È davvero una descrizione lucidissima e straordinaria del processo rivoluzionario, che merita di essere studiata, meditata, interiorizzata, con l’obiettivo di agire con consapevolezza e determinazione per arrestare questo processo di autodistruzione dell’uomo.

Ecco ora una pagina molto bella, profonda e utile di Giovanni Paolo II, tratta dal suo libro Varcare la soglia della speranza, che parte dalla filosofia di Cartesio, dicendo: «Se non è certo possibile addebitare al padre del razionalismo moderno l’allontanamento dal cristianesimo, è difficile non riconoscere che egli creò il clima in cui, nell’epoca moderna, tale allontanamento potette realizzarsi. Non si attuò subito, ma gradualmente. In effetti, circa 150 anni dopo Cartesio constatiamo come tutto ciò che era essenzialmente cristiano nella tradizione e nel pensiero europeo, sia già stato messo tra parentesi. Siamo nel tempo in cui in Francia è protagonista l’illuminismo, una dottrina con la quale si ha la definitiva affermazione del puro razionalismo. La Rivoluzione Francese, durante il terrore ha abbattuto gli altari dedicati a Cristo, ha gettato i crocifissi nelle strade, e ha invece introdotto il culto della dea ragione, in base alla quale venivano proclamate la libertà, l’uguaglianza e la fraternità. In questo modo il patrimonio spirituale, in particolare quello morale del cristianesimo era strappato dal suo fondamento evangelico, al quale è necessario riportarlo perché trovi la sua piena vitalità. Tuttavia il processo di allontanamento dal Dio dei padri, dal Dio di Gesù Cristo, dal Vangelo, dall’Eucaristia, non comportava la rottura con un Dio esistente al di sopra del mondo. Di fatto il dio dei deisti fu sempre presente. Forse fu anche presente fra gli enciclopedisti francesi e nelle opere di Voltaire, di Jean Jacq Rousseau. Ancor più nei Principi matematici di Isac Newton, che segnano l’inizio della fisica moderna. Questo dio, però, è decisamente un dio al di fuori del mondo. Un Dio presente nel mondo appariva inutile a una mentalità formata sulla conoscenza naturalistica del mondo. Ugualmente un Dio operante nell’uomo, risultava inutile per la consapevolezza moderna, per la moderna scienza dell’uomo che ne esamina i meccanismi coscienti e subcoscienti. Il razionalismo illuministico ha posto tra parentesi il Dio vero, e in particolare il Dio Redentore. Che cosa comportava ciò? Che l’uomo doveva vivere lasciandosi guidare esclusivamente dalla propria ragione, così come se Dio non esistesse. Non soltanto bisognava prescindere da Dio nella conoscenza oggettiva del mondo, poiché la premessa dell’esistenza del Creatore o della Provvidenza non serviva a nulla, per la scienza, ma bisognava anche agire come se Dio non esistesse, cioè come se Dio non si interessasse del mondo. Il razionalismo illuministico poteva accettare un dio al di fuori del mondo, soprattutto perché questa era un’ipotesi inverificabile. Imprescindibile comunque, era che tale Dio fosse estromesso dal mondo».

Ecco, queste sono le parole di Giovanni Paolo II, che ci danno una descrizione drammaticissima della deriva del pensiero moderno, che mette alla porta il Dio Creatore e provvidente. (E lo vediamo purtroppo dal caos in cui si sta cacciando quella che un tempo fu l’Europa cristiana, ancora una volta preda della dissoluzione e decostruzione dell’uomo e della famiglia, causato da quella che io chiamerei “demenza senile del vecchio continente”, ultima conseguenza di una “ragione pervertita”. Se la reazione alla dittatura del pensiero unico, che le élite politico-culturali e finanziarie definiscono spregiativamente “populismo”, fosse rivolta al recupero dei valori immortali, sarebbe una vera benedizione. Ndt).

Dunque, abbiamo tratteggiato in qualche modo il concetto di rivoluzione nel tempo storico, con riferimento al pensiero della modernità e alle conseguenze che questo ha determinato e continua a determinare. Certamente, possiamo anche farci prendere un po’ dallo sconforto e da un senso di impotenza, di fronte ad una deriva del pensiero e quindi dei fatti storici ai quali stiamo assistendo e dei quali siamo, in qualche modo, protagonisti. C’è come una frustrazione che deriva dall’impossibilità di intervenire, di fare qualcosa almeno per rallentare, se non fermare questa china e corruzione del pensiero umano. Ma siamo proprio partiti, introducendo il concetto di Rivoluzione, dal concetto di peccato. Abbiamo situato quindi l’origine della rivoluzione umana nella ribellione di Lucifero e nel peccato dei progenitori. Quindi abbiamo situato l’origine della Rivoluzione in una dimensione metastorica e sovrannaturale.

Forse è questa la chiave che ci consente di dire che possiamo fare qualcosa. Nel Catechismo della Chiesa cattolica, numero 1886, si legge così: «La società è indispensabile alla realizzazione della vocazione umana. per raggiungere questo fine è indispensabile che sia rispettata la giusta gerarchia dei valori, che subordini le dimensioni materiali e istintive a quelle interiori e spirituali». E ancora al 1888 del Catechismo, leggiamo così: «Occorre dunque far leva sulle capacità spirituali e morali della persona, e sull’esigenza della sua CONVERSIONE INTERIORE, per ottenere cambiamenti sociali che siano realmente al suo servizio. La priorità riconosciuta alla conversione del cuore non elimina affatto, anzi, impone l’obbligo di apportare alle istituzioni e alle condizioni di vita – quando esse provochino il peccato -, i risanamenti opportuni, perché si conformino alle norme della giustizia che favoriscano il bene, anziché ostacolarlo».

E dunque, partendo dalla consapevolezza di questo scenario che caratterizza la storia umana, la storia di ciascuno di noi, non meno di quella di coloro che ci hanno preceduto nei secoli, sarà possibile al cristiano consapevole comprendere il senso degli eventi storici; darne una valutazione in termini di valore morale; trarne insegnamento indispensabile per conoscere la propria natura e le dinamiche storiche e sociali tipiche dell’uomo. E in fine, per orientare le proprie facoltà: memoria, intelligenza, volontà, verso il raddrizzamento di un quadro ormai drammaticamente capovolto.

Se la radice prima dell’allontanamento storico dell’uomo da Dio, è il peccato – cioè una radice soprannaturale -, il raddrizzamento del quadro potrà avere inizio analogamente con un azione di conversione personale, che una volta consolidata, non potrà non produrre frutti di bene anche in ambito sociale. Se la Rivoluzione ha una sua dinamica perversa, infatti, anche il bene ha una sua dinamica virtuosa, in grado di passare dal piano puramente soprannaturale della singola anima a quello dei contesti sociali di ogni genere e dimensione. Dalla famiglia, alla società internazionale.

E allora, per chiudere questa conversazione, vi propongo una vibrante esortazione di San Giovanni Paolo II: «La fede in Cristo dona alle culture una dimensione nuova: quella della SPERANZA DEL REGNO DI DIO. I cristiani hanno la vocazione di inserire al centro delle culture la speranza di una TERRA NUOVA E DI CIELI NUOVI. Infatti, quando la speranza svanisce LE CULTURE MUOIONO. Ben lungi dal minacciarle o dall’impoverirle IL VANGELO APPORTA A LORO UN SUPPLEMENTO DI GIOIA E DI BELLEZZA, DI LIBERTÀ E SIGNIFICATO, DI VERITÀ E DI BONTÀ. Siamo tutti chiamati a trasmettere questo messaggio con un discorso che l’annunci, un’esistenza che lo testimoni, una cultura che lo faccia irraggiare. Infatti, il Vangelo porta la cultura alla perfezione. E la cultura autentica è aperta al Vangelo. Il lavoro consistente nel donarli l’uno all’altro, dovrà essere costantemente ripreso».

Ecco, mi sembra che questa esortazione di Giovanni Paolo II possa essere fatta propria da ciascuno di noi, e che quindi ciascuno di noi possa combattere la buona battaglia, che passa dalla propria conversione personale, fino alla conversione dei corpi sociali.

(Non possiamo nasconderci che – come in altre epoche -, la Chiesa stessa è messa alla prova e viene spesso “portata qua e là dai venti di dottrina” del mondo, come accade anche nel nostro tempo. Ma sappiamo che su di Essa veglia il Dio Creatore, il Figlio Redentore e lo Spirito Santo, Amore, che ci hanno promesso che le porte degli inferi non prevarranno! Anche Maria, Madre di Dio e Regina della Pace, ha promesso che il Suo Cuore Immacolato trionferà! Ndt)

Sarebbero molto interessanti anche le domande degli ascoltatori e le risposte del prof Arnaldi, ma lo scritto diverrebbe troppo lungo. Rimando coloro che vogliono ascoltare la trasmissione al linK qui sotto

http://www.radiomaria.it/archivio.aspx

Trascrizione di Claudio Forti

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