La fede non è mai cieca

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di Silvio Brachetta.

L’adesione a Cristo, dunque, coinvolge soprattutto la mente, che riconosce nella dottrina e nei fatti legati alla Rivelazione una verità suprema. La fede, poi, richiede l’ossequio della volontà umana, che può rigettare o accogliere liberamente l’azione oblativa dello Spirito Santo.

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L’atto di fede ha molto a che fare con la ragione. L’atto di fede è propriamente – come insegna San Tommaso d’Aquino – l’«actus intellectum», l’«atto dell’intelletto», che «dà il proprio assenso alle verità divine per comando della volontà, messo in moto da Dio per mezzo della Grazia» (Summa Theologiae, II-II, q. 2, a. 9). È dunque un’operazione umana, che prevede contenuti, asserzioni, convincimenti.

Molto diversa, invece, è la «riduzione della fede ad atto di fede», da parte di Martin Lutero, nel senso che la fede luterana è unicamente «atto senza dogmi» – secondo quanto scrive Stefano Fontana, nell’editoriale del 21 ottobre scorso, su La Nuova Bussola Quotidiana. La sintesi di Fontana è applicabile anche al tratto peculiare della modernità, che generalmente separa volontà e ragione, non soltanto nella persona umana, ma principalmente in Dio – almeno nel caso che ne contempli l’esistenza. Il protestantesimo nega quindi che la fede coinvolga primariamente l’intelligenza umana, seppure nell’esperienza di fede vi debba pure essere molto spazio per il sentimento e per l’affidamento fiduciale a Dio.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta la fede come un coinvolgimento completo delle facoltà umane, sorrette dalla grazia. Al n. 150, la fede è definita come «un’adesione personale dell’uomo a Dio». Ma è specificato, subito dopo, che la fede è propriamente «l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato». La questione veritativa, allora, è primaria. Non deve stupire che il magistero sia del tutto conforme all’esortazione di Gesù Cristo, che dice «convertitevi» (Mc 1, 15): e non tanto nel senso affettivo, quanto alla radice greca del verbo. Il «convertitevi» di Cristo è un «metanoein» – un andare oltre il «nous», la «mente», la «mentalità» carnale e mondana.

L’adesione a Cristo, dunque, coinvolge soprattutto la mente, che riconosce nella dottrina e nei fatti legati alla Rivelazione una verità suprema. La fede, poi, richiede l’ossequio della volontà umana, che può rigettare o accogliere liberamente l’azione oblativa dello Spirito Santo. La fede, insomma, «è un atto personale»: è cioè «la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio che si rivela» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 166).

Che la fede abbia un aspetto prevalentemente legato alla ragione, lo dichiara San Paolo: «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Eb 11, 1). I due sostantivi – «fondamento», «prova» – richiamano principalmente l’ambito della ragione. E, tuttavia, la fede non può ridursi a puro intellettualismo, come ricorda Benedetto XVI all’Udienza generale del 24/10/2012: «La fede non è un semplice assenso intellettuale dell’uomo a delle verità particolari su Dio», ma è anche «dono soprannaturale» e «assenso con cui la nostra mente e il nostro cuore dicono il loro “sì” a Dio, confessando che Gesù è il Signore».

È però evidente in Lutero una fede fondata sull’impulso del cuore: «La fede è, e, di fatto, deve essere una fermezza del cuore, che non vacilla» (Commentario a II Samuele 23:1). Quanto più Lutero si avvicinò all’anzianità, tanto più insistette nel presentare la fede come «certezza». Perché? Forse perché la vita di Lutero fu, di fatto, un profondo dramma esistenziale, come scrive ad esempio il pastore riformato David J. Engelsma (da: The Standard Bearer, Volume 80, n. 15): Lutero «combatté tutta la sua vita da credente con tentazioni infernali di dubitare la bontà e grazia di Dio». Engelsma cita inoltre Richard Marius, che nel suo Martin Lutero: Il Cristiano tra Dio e la Morte afferma: «[…] come Lutero la presenta, la fede sembra sempre avere un contenuto caloroso, esistenziale», nel senso che «la vera fede non è meramente credere che le storie raccontate nei Vangeli sono vere». Del resto – osserva Lutero stesso – «tutti i peccatori e perfino i dannati credono questo».

Marius scrive che la fede, in Lutero, «include un vincolo personale, emozionale con Cristo». È una fede «piena di grazia». Il che non sarebbe un male. Ma è un male il ritenere che la fede sia «sola grazia», secondo la terminologia luterana. La questione non è di valutare la fede come «certezza», che scaturisce dal «fondamento» e dalla «prova» paoline, ma dal considerare l’intelletto umano come un elemento secondario al conseguimento di tale certezza. L’errore, sulla base di quanto scrive Fontana, sta nell’esclusione del dogma dal cammino di conversione. L’annichilimento della dimensione veritativa, dunque, non solo non supporta le spinte del cuore e della grazia, ma le avvilisce e – col passare del tempo – le annulla.

Fonte: Vita Nuova Trieste

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