Stanto al quesito renziano, chi vota No è deficiente. E’ davvero così? Eutanasia della sussidierietà e altro ancora

Renzi crede talmente nei vantaggi economici della riforma, che il quesito referendario è stato posto in questi termini: “Approvate il testo della legge costituzionale per… la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni…?”.

Come dire: se voti per il No, sei un deficiente.

Sorge così spontaneo chiedersi quale senso delle istituzioni possa avere chi imposta in questi termini un referendum di portata storica: non è infatti grave la reclame, in sé e per sé; è gravissimo che la si stampi su carta ufficiale dello Stato.

Un altro brevissimo spunto sul filone delle reclame: sono cose arcinote, ma repetita iuvant.

Renzi nel 2015 promise risparmi consistentissimi grazie al suo sistema (quasi) monocamerale: un miliardo di euro.

La sparata era eccessiva e così il Nostro ha dovuto abbassare la posta: risparmieremo 500 milioni di euro, ha detto nell’agosto del 2016, e li daremo al fondo povertà… anima bella.

Ma la storia finisce qui, perché la Ragioneria generale dello Stato ha ufficialmente fatto presente che i risparmi, col nuovo Senato, si aggireranno attorno ai 50 milioni di euro annui.

Questa è la carota, diciamo, sia pur con qualche bastonata sottointesa (per i deficienti).

Per chi non condivide la pubblicità, comunque, c’è anche il bastone nudo e crudo.

Lo spazio è tiranno, e un esempio varrà per tutti: Renzi gratifica dell’epiteto di “accozzaglia”, l’eterogeneo schieramento che si oppone al Sì.

Bastonata gratuita, questa, se è vero – come lo è – che un’opposizione così trasversale alla riforma, anziché far pensare ad un’accozzaglia suffraga piuttosto la tesi per cui la riforma è – per l’appunto – quella grande sconcezza che il fronte del No denuncia.

Talmente pericolosa che una volta nella vita persino Grillo, Berlusconi e Bersani si sono trovati concordi.

Facendola breve: un terzo della Costituzione viene sovvertito, a suon di reclame, battute e sberle.

Eppure questa riforma non è banalmente foriera di magnifiche sorte e progressive ed assomiglia piuttosto ad un azzardo fideistico: gli italiani saranno chiamati infatti a decidere questioni di enorme complicazione e portata.

Persino il cardine della riforma, che vorrebbe un Senato defedato – speculare alla Camera solo su pochissime e tassative materie – attribuendo in via prioritaria al Senato stesso la materia degli enti locali, contiene novità mimetiche, ma dall’impatto devastante sull’ordinamento.

Eutanasia della sussidiarietà

Si deve anzitutto premettere che nella nuova costituzione troviamo il solito atto di ossequio – cloroformizzante – al principio di sussidiarietà: lo stesso principio nel cui nome l’UE misura le dimensioni e la curvatura delle banane.

Ebbene, che la sussidiarietà sia una delle più grandi mistificazioni su cui si muove la riforma, è evidente.

Basti confrontare il vecchio art. 117 della Costituzione ed poteri che attualmente hanno gli enti locali, con il nuovo art. 117 renziboschiano: in tutta evidenza le competenze delle Regioni vengono drammaticamente falcidiate.

Lo Stato centrale (o meglio, il Governo), col Sì, si giocherebbe in effetti la parte del leone.

La sussidiarietà renziana va pertanto intesa in senso sardonico: questa parte della preda è mia – dice il leone (renziano) della favola di Fedro – perché mi spetta; quest’altra, che non sarebbe mia, è comunque mia quia nominor leo, è mia perché mi chiamo leone…

La recentissima declaratoria di incostituzionalità della legge Madia, che pretendeva di imporsi sulle Regioni sostituendo un banale (e facilmente cestinabile) parere al previsto sistema collaborativo (di accordi/contrattazioni) fra Stato e Regioni, è un irrisorio anticipo della prepotenza di cui il Governo potrà istituzionalmente avvalersi ai danni delle Regioni, se passerà il Sì.

Un altro esempio aiuta a comprendere: l’art. 120 della costituzione renziana costituzionalizza la regola per cui l’“esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dall’esercizio delle rispettive funzioni” (e cioè di coloro che al contempo possono essere anche senatori), in caso di grave dissesto finanziario, spetta al Governo, previo parere (un mero parere) del Senato.

Sappiamo cosa significhi grave dissesto finanziario – questo, oltretutto, è potenzialmente il problema dei prossimi cent’anni – e sappiamo quanti enti locali si trovino sull’orlo di questo baratro.

Chiunque può dunque comprendere quanto facilmente un simile mezzo possa essere impiegato in maniera distorta ed arbitraria: se anche solo ci si limitasse ad utilizzarlo come una berlina mediatica, sarebbe uno strumento politicamente devastante.

Mettere un simile anello al naso delle autonomie locali e del Senato, non è una buona scelta.

La norma in questione, nella sua oggettività, rappresenta un ottimo appiglio per i malintenzionati ed i faziosi: categorie, queste, che esistono da sempre; da che il mondo è mondo.

Nell’art. 120 della costituzione renziana, il sistema degli enti locali – vitalmente connesso al Senato “federale” – è così esposto a facilissimi ricatti del Governo, cui pertanto competono nuovi e delicatissimi poteri di interferenza sugli attori secondari (Senato compreso) dell’ordinamento costituzionale.

Poteri, oltretutto, la cui portata oppressiva verrebbe potenziata da un contesto costituzionale che sarebbe molto diverso da quello attuale.

Votare No ad una riforma non condivisa, in parte eversiva ed in parte incognita

Giunge il momento di concludere.

Facendola breve, basta un minimo approfondimento del sistema renziboschiano per capire anzitutto che avremo un Senato da burla, con ben poche competenze effettive – di questo tema hanno già lungamente trattato i fautori del No – e per giunta ulteriormente limitato da vari paletti.

Il Sì, in definitiva, stravolgerebbe l’ordinamento costituzionale, demolendo, fra l’altro, la centralità del Parlamento.

Oggi, oltretutto, non si verifica ciò che avvenne nel ‘48, quando entrò in vigore una costituzione condivisa dagli attori dell’ordinamento: condivisione che rappresenta un notevole esempio di responsabilità politica, in contrapposizione con l’oscura irresponsabilità di chi oggi vorrebbe cambiare la Carta costituzionale imponendosi a forza sull’altra metà circa del Paese e persino su una parte non irrilevante della stessa maggioranza.

Basterebbero queste considerazioni per votare un No rotondo e pieno: non si accetta che vengano cambiate a forza regole del gioco di importanza vitale, spostando drammaticamente il baricentro istituzionale del Paese con l’accentuare fuor di misura il potere centrale, in particolare del Governo.

Il dibattito politico, inoltre, ha mostrato l’inquietante vastità delle incognite – congiunte alle preoccupanti certezze – della riforma renziana.

Incognite…

Nel dubbio, la scelta più saggia è quella di non approvare ciò che non conosce.

Non si cambiano con leggerezza, fra reclame, risse, mistificazioni e profonde spaccature del Paese, regole che – con i loro difetti – hanno assicurato un ragionevole equilibrio istituzionale nel corso di quasi 70 anni.

Quel che manca, oggi, sono anzitutto gli uomini, non le nuove regole.

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