LE SCHIAVE DEI “NUOVI DIRITTI” PROCREATIVI: racconti e testimonianze

 

01 - Schiave diritti procreativi collage

Dall’Asia all’America, dall’Europa orientale all’Inghilterra e alla Spagna, i “nuovi diritti” in ambito procreativo si consumano tutti sulla pelle delle donne: le fornitrici di ovuli e le locatrici di utero.

Il mercato riproduttivo ha coniato per queste donne espressioni positive e rassicuranti come “donatrici, “portatrici”, “benefattrici”. In realtà gli appellativi che meglio le definiscono sono “venditrici per necessità”, “donne sfruttate”, “nuove schiave”, visto che le pratiche di cui sono protagoniste imprescindibili del dono non hanno la benché minima sembianza e la caratteristica che tutte le accomuna è la povertà o lo stato di bisogno. 

INDICE:

  • Introduzione

AMERICA

  • “Eggsploitation”: le testimonianze di Sindy, Alexandra, Calla e Jessica
  • “Weareeggdonors.com”: Raquel e le altre
  • Sarah Jean Alexander: “Ho venduto i miei ovuli per soldi”
  • Elisa Anna Gomez: con l’utero in affitto “ho firmato la mia riduzione in schiavitù”
  • Tanya Prashad: “Mi sento come se avessi venduto mia figlia”
  • Brooke Lee Brown: tre gravidanze conto terzi, poi la morte improvvisa
  • “Channel 4” racconta le vicende di Alejandra Mendiola e Diana Gisel Islas

EUROPA

  • Le venditrici di ovuli dell’Europa dell’Est raccontate dall’Observer
  • Marina e Natasha: locatrici di utero per una casa più grande
  • Madre surrogata inglese: “È il mio bambino: l’ho partorito, l’ho sentito scalciare nella pancia, l’ho allattato”
  • Italia, le donatrici di ovuli reclutate da Antinori: giovani, belle e… bisognose. Le testimonianze di Maria e Lucia, e la denuncia di un’infermiera spagnola

THAILANDIA, NEPAL, CINA

  • La tratta delle surrogate vietnamite segregate a Bangkok
  • Pattharamon Janbua: “Non entrate nel business della maternità surrogata”
  • Patidta Kusolsang: “Mi manca ogni giorno. Vedete com’è crudele oggi il mondo”
  • Nepal, il terremoto del 2015 svela il business delle madri conto terzi
  • Cina: la tratta degli ovuli “giovani” e di “bella presenza”

INDIA

  • “Questo non è lavoro, ma una costrizione”
  • Sushma Pandey e Yuma Sherpa: morire per ovodonazione
  • Premila Vaghela: morire per una gravidanza conto terzi
  • Manisha, Bina e Disha: “per le persone che ci ingaggiano siamo solo uteri”
  • Phulmani e la tratta delle madri “in affitto”
  • Affittare l’utero per far fronte alle esigenze primarie della vita (cure mediche, casa, istruzione dei figli, dote…)

INTRODUZIONE

Dall’Asia all’America, dall’Europa orientale all’Inghilterra e alla Spagna, i “nuovi diritti” in ambito procreativo si consumano tutti sulla pelle delle donne: le fornitrici di ovuli e le locatrici di uteri.

Il mercato riproduttivo ha coniato per queste donne espressioni positive e rassicuranti come “donatrici, “portatrici”, “benefattrici”. In realtà gli appellativi che meglio le definiscono sono “venditrici per necessità”, “donne sfruttate”, “nuove schiave”, visto che le pratiche di cui sono protagoniste imprescindibili del dono non hanno la benché minima sembianza e la caratteristica che tutte le accomuna è la povertà o lo stato di bisogno.

Ci riferiamo alle studentesse americane, spagnole e cinesi che vendono i propri ovuli per far fronte ai costi degli studi universitari. Alle mogli dei militari statunitensi scelte come madri surrogate perché – spiega la femminista americana Kathy Sloan – “si sposano e hanno figli da giovani, non sono molto istruite, vivono lontane dalla loro famiglia d’origine e hanno bisogno di soldi[1]. Alle donne dell’Est Europa che si sottopongono a stimolazioni ormonali ripetute per riuscire a pagare le bollette e l’affitto di casa. Alle poverissime donne indiane, pakistane, vietnamite, tailandesi, nepalesi che incubano i bambini dei Paesi benestanti e progrediti costellati di “nuovi diritti”, per far sì che i propri figli e familiari non soffrano la fame e abbiano una vita più dignitosa.

L’attivista americana Jennifer Lahl, presidente del “Center for Bioethics and Culture Network” (Cbcn) e autrice del documentario “Breeders: a Subclass of Women?” in cui denuncia il mercato riproduttivo, puntualizza che quest’ultimo altro non è che “un grande business in cui i ricchi comprano e i poveri vendono”.

“Nuove schiave”, dunque, donne sfruttate e senza diritti che per necessità impellenti ed estrema povertà mettono a repentaglio la propria salute fisica e psichica, non di rado con esiti fatali. Bisogna innanzitutto ricordare che ogni ciclo di stimolazione ovarica vincola la donna per quasi un mese in un percorso stressante e faticoso, costituito da iniezioni sottocutanee di ormoni da fare nell’addome due volte al giorno, visite ecografiche frequenti per controllare se le ovaie rispondono al trattamento, analisi del sangue, un intervento chirurgico finale per l’aspirazione degli ovuli che, a propria volta, comporta: un ricovero in ospedale, l’anestesia e un decorso post-operatorio. Inoltre, come abbiamo visto qui, vi sono da aggiungere i gravi e pericolosi problemi per la salute che l’iter di stimolazione può provocare alla donna che vi si sottopone. Problemi che le venditrici di ovuli per l’eterologa subiscono in maniera accresciuta e frequente, visto che per loro l’iperstimolazione è ancora più pesante in quanto chiamate a produrre il maggior numero di ovociti possibili. Non è un caso se essa sia definita anche con il termine di “bomba ormonale”.

Studi autorevoli recenti hanno riconfermato tale pericolosità. Uno di questi è stato condotto negli Usa e pubblicato nel 2014 su “Fertility and Sterility”: i ricercatori hanno rilevato un aumento di ipertensione (dal 13 al 32%) e di gestosi (dal 13 al 28%) nelle donne che hanno effettuato l’ovodonazione. Un altro studio – pubblicato nel 2015 e realizzato in Norvegia in un arco temporale di 15 anni – ha scoperto che le donatrici di ovuli hanno un rischio 1,3 volte più alto di sviluppare un tumore alla mammella. E ancora, una ricerca pubblicata a gennaio 2016 sull’“Oxford Journal” ha dimostrato che, dopo la stimolazione delle ovaie, il 7,2% delle donne ha complicazioni immediate, il 5% finisce in iperstimolazione e l’11% delle donatrici diventa sterile[2].

Il professor Giuseppe Noia, docente di medicina perinatale al Policlinico Gemelli, spiega che nell’eterologa non rischiano solo le donatrici, per le quali è provato “l’aumento della possibilità di tumore alla mammella, la perdita della fertilità nell’11,5% dei casi e persino la morte”, ma anche le riceventi con un “aumento del rischio di disordini vascolari ipertensivi fino alla placenta accreta e alla perdita dell’utero[3]. Questo è stato anche dimostrato da un’analisi svolta in Svezia su 200 donne in gravidanza delle quali un terzo con ovodonazione. La ricerca ha rilevato nei confronti delle riceventi un aumento considerevole del rischio di placenta ritenuta, emorragie post partum e ipertensione anche nel caso di donne giovani e con ottima salute.

“Nuove schiave” sono anche le locatrici di utero, soggette in determinati Paesi a visite quotidiane da parte delle agenzie che sorvegliano il contratto per verificare il rispetto delle regole (alimentari, mediche, comportamentali…) pattuite, che la surrogata deve tenere per tutta la durata della gravidanza. Regole che possono prevedere persino la separazione di costei dalla propria famiglia e la sua segregazione in un luogo ad hoc fino al parto, affinché i comportamenti salutistici indicati nel contratto siano scrupolosamente rispettati. Nel contratto nulla viene lasciato al caso per cui se, per esempio, in corso di gravidanza dovesse emergere che la “merce commissionata” presenta dei difetti, una clausola specifica salvaguarderà i committenti dal ricevere un prodotto difettoso con l’obbligo per la madre surrogata di abortire. Le nuove schiave dell’utero in affitto non hanno voce in capitolo nemmeno sulla modalità del parto (naturale, in acqua, con taglio cesareo), anch’essa stabilita dai committenti e messa chiaramente nero su bianco.

Insomma, come ha rivelato a luglio 2016 il Corriere della Sera in una video-inchiesta esclusiva[4], i richiedenti possono inserire nel contratto “qualunque cosa vi faccia sentire bene. I cinesi chiedono, ad esempio, che la madre surrogata non abbia contatti con i gatti, perché credono portino sfortuna e che faccia l’agopuntura tutti i giorni”, mentre “i tedeschi chiedono che il parto avvenga in una vasca nell’acqua”.

La dottoressa Carmel Shalev, insegnante di bioetica all’Università israeliana di Haifa, in un’intervista su Bioedge ha osservato che “il mercato riproduttivo è affidato a imprese mediche a volte senza scrupoli e ad agenti intermediari, che per i loro profitti si basano sull’ignoranza e sulla vulnerabilità di tutti i soggetti coinvolti”. Un mercato dove “le donne sono usate come mezzo di produzione, e rese oggetti nel processo” in cui si sono verificati “troppi casi di danni ai bambini e alle donne che accettano di partecipare” a queste “collaborazioni riproduttive per conto terzi”.

Le più gravi violazioni dei diritti delle donne e dei bambini – prosegue Shalev – vanno “dall’uso fraudolento della maternità surrogata per creare e vendere i neonati al fatto che i neonati possono rimanere senza genitori e privi di stato civile”. Per quanto riguarda le donne, c’è il problema del “doppio standard delle cure per interventi medici invasivi che arrecano danni alla salute, compresa l’infertilità come effetto collaterale. Le procedure mediche spesso comportano violazione dell’integrità fisica e dell’autonomia della paziente”. In alcuni casi – denuncia Shalev – “gli intermediari offrono la possibilità di più gravidanze parallele”. In queste situazioni, “se si avviano più gravidanze rispetto al numero desiderato di figli, quelli in eccesso sono abortiti, e alle ‘portatrici’ si fa credere falsamente che nel feto c’era qualcosa che non andava. In altri casi, le donne sono state private della loro libertà e confinate per tutta la durata della gravidanza in situazione di custodia controllata ventiquattro ore su ventiquattro[5].

Il quotidiano Avvenire è riuscito a entrare in possesso di uno di questo genere di contratti, stipulato in una clinica dell’Est Europa. Nelle tre pagine dedicate agli obblighi della madre surrogata si legge che costei deve consegnare ai committenti tutta l’informazione medica che la riguarda che “può influire sul figlio in gestazione”: si va dagli esami del sangue e delle urine all’elettrocardiogramma fino “al referto dello psichiatra” e a quello del “dentista”. La vita della surrogata, poi, dove adeguarsi alle esigenze dei genitori committenti, in particolare: dovrà “tenere il cellulare sempre acceso e caricato”, “rimanere nel luogo di residenza specificato dai Genitori”, “essere sempre disponibile all’incontro con i Genitori” (che hanno la facoltà di recarsi “nel luogo suddetto anche senza avvisarla in anticipo”), “seguire rigorosamente il regime di alimentazione prescritto dal medico curante in accordo coi genitori” (tra cui rientra il divieto di alcol, fumo, medicinali, integratori e rapporti sessuali). In caso di malessere dovrà “avvertire immediatamente Genitori e medico curante” perché potrà assumere soltanto i medicinali concordati con loro e “nel caso in cui si evidenzino patologie o malformazioni fetali i genitori hanno facoltà di consentire a far abortire la Madre”. Infine dovrà “consegnare il figlio (senza allattarlo) ai genitori immediatamente alla nascita di esso”.

Nel contratto c’è anche una parte dedicata agli “inadempimenti” in cui si legge che “nel caso in cui il bambino nasca con malformazioni fisiche o mentali causate da un comportamento colpevole della madre, quest’ultima decade dal proprio diritto di compensazione”, cioè non riceve il compenso in denaro previsto. Nel contratto si specifica inoltre che “le sorti del figlio sono esclusivamente a discrezione dei Genitori” i quali hanno “la facoltà di rifiutare i doveri genitoriali nel caso [il Figlio] abbia malformazioni fisiche e aberrazioni mentali[6]. Insomma, come si è detto, se il “prodotto ordinato” si rivela fallato lo si può giustamente rifiutare come previsto dalle comuni leggi di mercato.

Per quanto riguarda i problemi di salute associati alla maternità surrogata, il ginecologo e professore Salvatore Mancuso, del Policlinico Gemelli di Roma, osserva che le madri surrogate potrebbero andare incontro a problematiche a livello della “tolleranza immunitaria”, cioè a proposito della capacità dell’organismo della madre di accogliere in sé la nuova vita, senza che il suo corpo la intercetti e la rigetti (come avviene nei casi di trapianto di organo) per il fatto di recare in sé un 50% di patrimonio genetico estraneo, quello paterno portato dallo spermatozoo. Mancuso fa notare che, nel caso delle madri surrogate, il patrimonio genetico dell’embrione impiantato in utero è estraneo alla madre al cento per cento perché, non solo lo spermatozoo, ma anche l’ovulo proviene da un soggetto diverso. Il fatto di avere in pancia un bimbo con ben due patrimoni genetici estranei – afferma Mancuso – potrebbe essere foriero di alterazioni nel meccanismo della “tolleranza immunitaria”[7].

Restando in ambito medico, lo psicanalista Luciano Casolari osserva che “in base alle attuali conoscenze in campo psicoanalitico e psichiatrico” esiste anche un “altissimo rischio per l’insorgenza di gravi patologie psichiatriche sia per la madre surrogata che per il bambino”. In particolare, scrive Casolari: “Un problema che viene spesso misconosciuto, con una punta di razzismo verso i poveri e gli emarginati, è relativo alle conseguenze sulla madre. Forse perché si fa pagare per questa pratica sembra ininfluente la sua vita psichica. Anche per lei il rischio collegato alla cessione del bambino è molto elevato per gravi patologie psichiatriche soprattutto di natura depressiva e per il suicidio. Fantasmi ancestrali, che certi miti greci mostrano in tutta la loro forza, si agitano dentro questa povera madre che ha voluto o dovuto cedere ad altri il figlio”.

Per quanto riguarda “il bimbo allevato da coppie, sia omo che etero, che lo hanno desiderato ma anche ‘comperato’”, scrive Casolari: “Avrà problemi psicologici da affrontare nel momento in cui verrà a sapere che i genitori, che ora ama, sono gli aguzzini, anche se a volte non del tutto consapevoli, della madre[8].

Entriamo ora nel dettaglio del nostro argomento esaminando i problemi di salute e i drammi personali che hanno colpito le “nuove schiave” del mercato procreativo. La nostra analisi spazierà tra articoli di giornale, documentari e testimonianze dirette di chi ha vissuto sulla propria pelle le nefaste conseguenze della compravendita dei corpi e della vita e ha trovato il coraggio di denunciarle.

AMERICA

“Eggsploitation”: le testimonianze di Sindy, Alexandra, Calla e Jessica

02 - eggsploitation - manifesto

Le testimonianze delle studentesse statunitensi Sindy, Alexandra, Calla e Jessica, sono raccontate nel cortometraggio “Eggsploitation” (www.eggsploitation.com), vincitore del premio come miglior documentario al California Independent Film Festival del 2011, realizzato da Jennifer Lahl.

Le giovani intervistate raccontano di essere state invogliate a donare gli ovuli da pubblicità e inserzioni accattivanti inserite opportunamente nei giornalini dell’università. Inserzioni concepite per attirare l’attenzione con la promessa di generose somme di denaro a chi si offre per l’ovodonazione, ma che nulla dicono sulle modalità e i pericoli di tale pratica: “Ci cercano, ci offrono soldi, ma non ci parlano degli effetti della pratica. Fanno leva sul fatto che molte di noi si indebitano per studiare”, racconta una studentessa. “Centomila dollari se hai caratteristiche particolari? Sono tantissimi soldi!” è l’esclamazione di alcune dopo aver letto l’annuncio di reclutamento. Ma, se i soldi non dovessero essere abbastanza convincenti, le cliniche per la fecondazione artificiale tirano in ballo anche i motivi filantropici: le giovani vengono così persuase alla “donazione” facendo leva sull’altruismo, sul loro ruolo di “benefattrici dell’umanità”, sul fatto che con il loro “dono” generoso permetteranno a una coppia sterile, infelice e sfortunata, di coronare il proprio sogno di genitorialità: “Non ti convincono solo con i soldi, ma anche con ragioni umanitarie” spiega una ragazza. “Mentre soffrivo per i trattamenti di stimolazione ovarica, per riuscire ad andare avanti mi ripetevo: questo è un mio dovere, questo è un mio dovere”, dice un’altra giovane nel filmato.

03 - eggsploitation - SindyNel 2001, la studentessa Sindy, con il dottorato in Medicina appena iniziato, il debito universitario ancora da saldare e l’affitto arretrato da mesi, risponde a uno di questi annunci per la selezione di “donatrici d’élite”: “Una coppia cercava una donatrice che aveva le mie caratteristiche e un quoziente intellettivo elevato” – racconta -, e inizia l’auto-somministrazione dei farmaci per la stimolazione delle ovaie dopo che la clinica contattata gliel’ha inviati per posta. “Dopo la stimolazione – prosegue Sindy – mi hanno fatto la risonanza. Avevo circa 50 follicoli [ovuli non ancora maturi]. Mi scrissero una email che diceva che qualcosa non aveva funzionato. Chiesi se potevo fermarmi lì. Non era possibile, il contratto non lo prevedeva”. Evidentemente, cinquanta ovuli in un colpo solo rappresentavano un bottino troppo ghiotto per rinunciarvi da parte di chi è alla continua ricerca del prezioso e remunerativo “materiale biologico”. La salute delle “donatrici” non rientra tra le priorità del mercato riproduttivo: di lì a poco Sindy lo scoprirà a proprie spese.

La giovane viene sottoposta al recupero transvaginale degli ovociti, poi viene dimessa, ma lei si rifiuta di tornare a casa perché non si sente bene: ha un forte dolore addominale, vertigini, non riesce a stare in piedi e fa fatica a respirare. Solo dopo molta insistenza da parte della studentessa, i medici decidono di ricoverarla in ospedale, dove scoprono che sta avendo una grave emorragia interna causata dalla perforazione di un’arteria avvenuta durante la fase del prelievo ovocitario. Sindy viene immediatamente sottoposta a un intervento chirurgico per fermare l’emorragia e a numerose trasfusioni di sangue, poi viene ricoverata in terapia intensiva. Ma i guai non sono finiti, altri problemi di salute, alcuni dei quali permanenti, attendono la studentessa. Questa è la sua testimonianza:

“I 6.500 dollari che mi hanno dato sono svaniti da tempo a causa delle cure mediche e delle complicazioni tardive causate dall’incidente. Ho sviluppato un’infezione nella zona d’incisione che ha richiesto iniezioni multiple di steroidi per bloccarne la crescita fuori controllo. Ho sofferto di stress post traumatico per mesi a causa dell’incidente in cui ho rischiato la vita, e per due mesi non sono riuscita a lavorare a causa del crollo fisico e mentale. Qualche anno più tardi ho scoperto che il ciclo mestruale e i livelli ormonali, prima normali, erano diventati irregolari. E che le ovaie, anch’esse in precedenza normali, avevano assunto un aspetto policistico con più di 25 piccoli follicoli in ciascun ovaio. Ho sviluppato incontinenza occasionale e dolore pelvico a causa delle aderenze interne provocate dall’intervento chirurgico d’emergenza. Ma la cosa peggiore in tutto questo, è la mia lotta tuttora in corso contro l’infertilità”.

04 - eggsploitation - AlexandraNel 2002, la 29enne Alexandra, ricercatrice all’Università del Kansas, decide di sottoporsi all’ovodonazione per finanziarsi gli studi: “Volevo finire il dottorato e mi mancavano i soldi. Mi avrebbero dato 3mila dollari. Giusto quello che serviva a me. E, in più, mi dicevo: avrei aiutato una coppia sterile”. Così, dopo aver ricevuto dalla clinica i farmaci per la stimolazione, inizia ad auto-somministrarsi le iniezioni, ogni sera sulla coscia per due settimane. I primi malesseri compaiono già durante questa fase con la presenza di un gonfiore anomalo nell’addome, ma il medico la rassicura spiegandole che si tratta solo di una leggera iperstimolazione delle ovaie. La giovane prosegue con il trattamento fino al giorno del prelievo in cui le estraggono 28 ovociti, ma nove giorni dopo Alexandra inizia a stare male: ha un fortissimo dolore addominale a tal punto che perde conoscenza. Accompagnata in ospedale viene rimandata a casa con dei semplici antidolorifici, ma tre giorni dopo l’addome torna a gonfiarsi costringendo la giovane a ripresentarsi in clinica. Ancora una volta il personale medico minimizza il suo malessere, le ripete le solite rassicurazioni e la invita a tornare a casa. Una volta a casa, il calvario di Alexandra non solo non accenna a passare, ma addirittura peggiora: ogni volta che mangia qualcosa inizia a vomitare, così per cinque giorni consecutivi, finché non inizia a rimettere feci. Distrutta fisicamente e psicologicamente la giovane viene riaccompagnata per la terza volta in clinica dove, finalmente, qualcuno si accorge della gravità del suo problema:

“Quando il medico vide il mio addome dilatato, sbiancò. Trenta minuti dopo ero in sala operatoria per l’espianto dell’ovaio destro che si era ingrossato quanto un pompelmo e si era attorcigliato alla tuba di Falloppio. Ho avuto un’infezione che stava andando in peritonite e ho perso molto sangue. Sono dovuta rimanere in ospedale per due settimane a causa di un’ostruzione intestinale… Quello che mi lascia senza parole è il fatto che se non avessi insistito per farmi visitare, sarei morta. Hanno riconosciuto il problema solo dopo tre visite e venti giorni di dolori consecutivi. Ma non è finita qui. In seguito ho avuto gravi problemi all’intestino. Ho perso dodici chili e ci sono voluti mesi affinché mi ristabilissi”.

Alexandra ancora non sa del nuovo grave problema di salute che scoprirà solo cinque anni più tardi, un problema legato agli ormoni assunti per la superovulazione, ben noto in letteratura scientifica, ma che le cliniche per la fertilità si guardano bene dal comunicare alle aspiranti donatrici: il cancro al seno.

“Avevo solo 34 anni… Ho subìto una mastectomia, quattro mesi di chemioterapia, seguiti da altri tre interventi e 28 giorni di trattamenti radioterapici. Pochi mesi dopo la radioterapia ho subìto un’altra mastectomia. Ora non ci sono più segni di cancro, tuttavia a soli 36 anni ho perso entrambi i seni… Anche se sono sopravvissuta, i medici mi hanno detto che la chemioterapia ha reso sterile l’unico ovaio che mi era rimasto e che non sarò in grado di avere figli… Sono convinta che vendere gli ovuli abbia contribuito a far sviluppare il tumore al seno… La donazione mi ha fatto molto male”.

È l’amara conclusione di questa giovane studentessa finita nel tritacarne del mercato procreativo.

05 - eggsploitation - CallaAnche Calla, come le sue coetanee, risponde a un annuncio di reclutamento di donatrici che, in questo caso, offriva un corrispettivo di 15mila dollari e, anche lei, inizia l’auto-somministrazione del trattamento di stimolazione dopo aver ricevuto i farmaci per posta: “Parlavo con l’infermiera via internet – racconta nel filmato, seduta su una sedia a rotelle, mi spedì il kit di medicine e mi disse come autogestirmi. Il contratto diceva che eri obbligato a prenderle. Non hanno mai verificato se potevano sviluppare allergie. Non mi hanno fatto alcun esame prima di iniziare. E anche quando non stavo bene dovevo continuare a seguire il protocollo”.

Anche nel suo caso i primi problemi di salute si manifestano già dalla fase preparatoria, con una reazione fisica al Lupron, un ormone sintetico usato per la superovulazione, che le provoca un mal di testa fortissimo e febbre alta. E anche lei si trova di fronte a del personale medico che minimizza i suoi sintomi invitandola a continuare tranquillamente il trattamento, ma poco tempo dopo la studentessa entra in coma profondo e vi rimane per otto settimane. Lo stato di incoscienza – si scopre – è stato provocato da un tumore benigno all’ipofisi che i trattamenti ormonali hanno fatto ingrossare a un ritmo elevato in pochissimo tempo, causando alla giovane un ictus, una paralisi e danni al cervello.

Calla è sopravvissuta per miracolo, ma nulla è più stato come prima. Nonostante abbia speso almeno 100mila dollari in cure mediche successive per rimediare ai danni subiti, si ritrova comunque con dei problemi di salute permanenti: “L’ictus mi ha paralizzato la parte destra del corpo”; con la capacità procreativa definitivamente compromessa: “Cosa dire, se non che non potrò mai più avere un figlio?” e con l’affronto finale da parte della clinica che le ha riconosciuto “un assegno di appena 750 dollari come compenso per ‘ciclo interrotto’, perché non avevo portato a termine il mio compito”.

Nel documentario viene riportata anche l’esperienza di Jessica, non è lei direttamente a raccontarla, ma sua madre, Jessica infatti non c’è più: dopo aver donato gli ovuli tre volte ha sviluppato un cancro al colon che l’ha uccisa. “È morta a 34 anni – racconta la madre -, era una compositrice di musica classica, avrebbe potuto fare tanto. Ma ora non c’è più”.

“Weareeggdonors.com”: Raquel e le altre

06 - Raquel CoolA controbilanciare l’omertà delle cliniche per la fecondazione artificiale, sui problemi legati all’ovodonazione, ci stanno sempre di più pensando le ex “donatrici” di ovuli rimaste scottate da quell’esperienza, per esempio tramite la creazione di portali web in cui si possono trovare sia testimonianze personali che una corretta informazione circa i pericoli per la salute e la vita che tale pratica comporta.

Uno di questi portali è Weareeggdonors.com, fondato da Raquel Cool, Sierra Falter e Claire Burns, tre giovani donne reduci da percorsi difficili con l’ovodonazione. La studentessa universitaria Raquel “dona” i suoi ovuli nel 2011, a 26 anni, dietro un compenso di 7mila dollari, ma dopo il bombardamento ormonale e il prelievo degli ovuli inizia a stare male con crampi e forti dolori al basso ventre. Si tratta di una sindrome da iperstimolazione ovarica piuttosto grave, che la costringe a un ricovero in ospedale. Raquel è sola, senza alcun supporto psicologico e nessuno che le spieghi bene cosa stia accadendo al suo corpo. Fortunatamente per lei il problema di salute si risolve senza conseguenze immediate, ma l’accaduto la spinge a intraprendere un’iniziativa: “Avevo sottovalutato la donazione di ovuli e quell’esperienza aveva cambiato la mia vita. Pensai di raccontare la mia storia in Rete e di cercare altre ragazze come me, per condividere sensazioni e pensieri[9].

Il proposito di Raquel non deve attendere molto: nel giro di qualche giorno incontra sul web Sierra e Claire, anche loro reduci da esperienze traumatiche simili e, come lei, convinte che la scelta di donare gli ovuli da parte delle donne sia fatta senza la giusta consapevolezza e senza le informazioni (sanitarie e psicologiche) circa i rischi anche gravi che essa comporta. Nasce così il portale web che in tre anni ha già raccolto centinaia di testimonianze di ragazze e donne di ogni nazionalità. Oggi le giovani partecipano anche a incontri nelle università e nei più importanti talk show per raccontare la loro esperienza di modo che le donne “non siano più lasciate sole”, spiega Raquel.

Sarah Jean Alexander: “Ho venduto i miei ovuli per soldi”

07 - Sarah Jean AlexanderSarah Jean Alexander è una scrittrice americana che ha raccontato la sua storia di donatrice di ovuli su “Lennie”, la newsletter femminista più liberal d’America. In soli sei mesi l’ovodonazione le ha stravolto la vita, con conseguenze fisiche e psichiche che l’hanno persino portata a mollare il lavoro e il fidanzato. Subito dopo quell’esperienza, Sarah Jean ha ammesso che non ne era valsa la pena di rovinarsi corpo, salute e vita per 8mila ridicoli dollari, ma poi ha scelto di mettersi l’anima in pace visto che, in fondo, di quei soldi aveva bisogno. Leggere la sua testimonianza minuziosa risulta comunque utile per capire quali conseguenze l’ovodonazione arreca alla vita e alla salute psicofisica della donna. Sarah Jean scrive:

All’età di 26 anni, senza pensarci troppo e con superficialità, avendo il desiderio di fare un po’ di soldi facili in più, compilai la domanda online di una nota clinica di Manhattan per offrirmi come ovodonatrice. In quel periodo ero capufficio a tempo pieno, vivevo con il mio ragazzo e mancava un mese alla pubblicazione del mio primo libro di poesie. Avevo un debito di qualche migliaio di dollari… e la domanda online di una sola pagina era così semplice che la compilai durante la mia giornata lavorativa e senza pensarci troppo: sì, ho entrambe le ovaie; no, non ho la clamidia o la gonorrea; no, attualmente non sto assumendo antidepressivi.

Una settimana dopo – continua Sarah Jean – “ho ricevuto una e-mail che mi invitava a compilare una seconda domanda: un questionario corposo di 60 pagine in cui mi chiedevano informazioni dettagliate sulla storia della mia famiglia (quanto è alto il tuo bisnonno da parte di madre? Com’era la sua carnagione? È morto, e come è successo?); i miei obiettivi personali; e cosa avrei voluto dire al mio futuro bambino… La clinica voleva anche sapere se fossi giovane e bella, anche se non era necessario che lo fossi”.

E così la scrittrice entra a far parte del programma:

Nei due mesi seguenti mi sono recata in clinica per molti altri test. Questi includevano un test della personalità con 650 domande del tipo vero/falso” che, tra le altre cose, chiedevano se “sentissi delle voci in testa prima di addormentarmi, mi insospettissi se i miei amici si mostravano troppo gentili con me, pensassi che mio padre fosse una brava persona”. “Ho terminato con esami multipli del sangue e delle urine, e test per verificare il consumo di droghe e l’eventuale presenza di malattie fisiche e genetiche. Ho incontrato uno psicologo che mi ha spiegato chiaramente e ripetutamente che, anche se stavo fornendo i miei ovuli per creare un essere umano, questo non era il mio bambino. Ho annuito a lungo, firmato alcune carte e, due settimane più tardi, sono stata abbinata a una mamma. Siamo state messe entrambe sotto terapia ormonale per sincronizzare i nostri cicli. Sebbene non conoscesse il mio nome e il mio aspetto, era tuttavia informata circa il fatto che fossi laureata, avessi un peso normale per la mia altezza, e fossi per metà coreana”.

È a questo punto che iniziano i primi sconvolgimenti nella vita di Sarah Jean:

In questo periodo ho notato un cambiamento nel mio equilibrio emotivo. Ho iniziato a piangere quasi ogni giorno sul posto di lavoro e ad avere scontri con il mio ragazzo. Non saprei dire se ciò fosse dovuto alla terapia ormonale o semplicemente a me stessa. Poi, dopo un mese di controllo ormonale e pianti particolarmente scomposti nel bagno delle donne, ho lasciato il mio lavoro, con mia grande sorpresa e del mio capo”.

Dopo l’assunzione di ormoni per la sincronizzazione del ciclo con l’aspirante madre, la giornalista passa allo stadio seguente del percorso:

“Dopo quasi due mesi di terapia ormonale, ero pronta per iniziare la fase successiva del processo di donazione. Mi sono stati consegnati tre differenti ormoni e antagonisti ormonali, Gonal F, Menopur e Ganirelix, che dovevano essere tutti iniettati nel grasso della mia pancia ogni giorno a un’ora precisa. Questi farmaci 08 - Sarah Jean Alexanderdovrebbero bloccare temporaneamente la mia ovulazione e stimolare le mie ovaie a produrre un numero elevato di follicoli. Il primo giorno ho sistemato sulla scrivania di casa tutti i vari fluidi, siringhe, garze e tamponi imbevuti di alcool, incredula del fatto che si fidassero che mi sarei fatta queste iniezioni ogni giorno per due settimane.

Dopo il primo giorno, le iniezioni sono diventate una specie di divertimento – un nuovo obiettivo, meccanico e masochistico, della mia vita. Osservavo come la mia pancia si riempiva di piccole costellazioni di lividi e segni di punture, vittima delle mie mani inesperte e tremolanti. Durante un normale ciclo mestruale, solo un follicolo nelle ovaie giungerà a piena maturazione nel momento dell’ovulazione. Con gli ormoni che mi stavo iniettando stavo ingannando il mio corpo inducendolo a maturare follicoli multipli affinché la ricevente potesse avere più possibilità di rimanere incinta. Le mie ovaie si sono gonfiate in modo innaturale, come ho potuto vedere in occasione del mio primo sonogramma. ‘E ci sono i tuoi ovuli, stanno crescendo in modo spettacolare’, disse il dottore mentre muoveva la sonda ecografica dentro di me per visualizzare i grumi di follicoli sullo schermo, ciascuno dei quali misurava verso la fine circa 18 millimetri di diametro. Mi sentivo come una mamma ragno orgogliosa di mostrare la sua sacca di uova.

Molte delle mie amiche mi hanno chiesto come mi stavo sentendo durante il processo, ho risposto che stavo abbastanza bene. Ero indolenzita e fiacca, ma solo lievemente. Non mi era permesso bere, assumere farmaci, fare attività fisica, o avere rapporti sessuali. Stava andando abbastanza bene, fatta salva la sensazione di pesantezza proveniente dalla parte più intima e sensibile di me stessa”.

 Durante la fase di somministrazione degli ormoni, arriva per Sarah Jean un altro cambiamento repentino di vita: la rottura con il suo ragazzo:

“A metà del percorso di iniezioni, io e il mio ragazzo, con cui stavo da quasi due anni, ci siamo lasciati. Sebbene possa sembrare troppo facile attribuire la colpa della nostra rottura agli ormoni estranei nel mio corpo, sarebbe imprudente ignorare il fatto che negli ultimi sei mesi avevo concentrato buona parte della mia attenzione nello sforzo di produrre ovuli…”.

Ma non ci sono tempo ed energie per pensare a una relazione che finisce, l’ultima fase dell’iter incombe: è giunta l’ora di sottoporsi al prelievo:                               

“Dopo 13 giorni di iniezioni di ormoni, era finalmente ora del recupero. Ciò comporta che un ago passi attraverso la parte superiore della vagina fino ai follicoli all’interno delle ovaie, dove gli ovuli sono letteralmente aspirati fuori dalla donatrice. L’anestesista mi ha spiegato che nelle ore successive avrei potuto provare un disagio simile ai crampi mestruali. Mi ha inserito una flebo sul dorso della mano e mi ha portata nel mio letto d’ospedale all’interno della camera di recupero, dove mi sono addormentata quasi subito. Dopo circa mezz’ora, mi sono svegliata in un’altra stanza, mi hanno consegnato succo di mela e dei crackers integrali, e ho mandato un sms un po’ confuso al mio ormai ex ragazzo in cui gli ho detto che non sapevo dove fossi o se la procedura fosse finita. Ho avuto la nausea da anestesia. Un’ora più tardi ero sul treno verso casa”.  

Una volta a casa, Sarah Jean deve fare subito i conti con le fitte post-prelievo e con la scoperta di altri effetti collaterali molto dolorosi:

“L’infermiera aveva ragione – ho sentito dolore nelle ore successive. Quello che però non mi ha detto è che queste fitte sarebbero evolute in una sorta di crampi interni mostruosi e costanti senza alcuna tregua, e con un gonfiore tale da farmi barcollare da una stanza all’altra e sobbalzare se facevo un passo troppo pesante, che mi mandava una scossa di dolore dal piede, attraverso la vagina, fin dentro le ovaie, ormai vuote, ma ancora molto gonfie. Se mangiavo un boccone o bevevo un poco d’acqua, lo stomaco e la vescica si riempivano immediatamente perché ora dentro me c’era meno spazio per loro. Ho fatto viaggi al bagno frequenti e dolorosi per fare pipì, ma dopo 24 ore che non andavo di corpo, ho pensato, chiediamo a Google.

Ho scoperto che il gonfiore e la stitichezza post-recupero degli ovuli che stavo sperimentando facevano parte di un gioco divertente che i medici della fecondazione in vitro pare amino fare, poiché costoro non informano di questi effetti collaterali le donatrici di ovuli e le aspiranti madri. Quasi ogni donna, in ogni forum che ho trovato, ha anche sofferto da lievi a gravi forme di sindrome da iperstimolazione ovarica, una condizione che colpisce quasi una donna su quattro che si sottopone a fecondazione artificiale, ed erano molto infuriate, ma sollevate, di scoprire che altre stavano facendo esperienza dello stesso dolore e disagio che anch’esse avevano provato.

È stato orribile per me vedere la mia pancia gonfia e dura come un pallone di mattoni. Avrei voluto forarla, sgonfiarla e gettarla via. Ho fatto subito scorta di cereali ricchi di fibre e bottiglie di succo di prugna per aiutarmi ad avere almeno una qualche parvenza di donna non gravida. Ogni passo, pasto e movimento intestinale era un’agonia, e ho potuto dormire solo sulla schiena perché i miei seni erano duri e dolenti”.    

È a questo punto che iniziano ad affiorare anche i primi ripensamenti che, però, vengono presto accantonati dal ricordo del motivo che l’ha spinta a prendere la decisione di vendere gli ovuli: il bisogno di soldi.

“Gli 8mila dollari di compenso hanno iniziato ad apparirmi ridicoli. Non mi sembrava ne fosse valsa assolutamente la pena mentre guardavo il mio corpo dopo il recupero degli ovuli e scoprivo di detestarlo per la sua debolezza. I sentimenti che ho provato a causa degli effetti collaterali degli ormoni sono stati orribili e peggiori di qualsiasi altra cosa che io ricordi rispetto a questa. Ma anche con tutti i miei piagnistei e malesseri, nei momenti di maggiore lucidità ho pensato: E allora? L’ho fatto volontariamente, giusto? Sono andata fino in fondo. Sono stata pagata.

Prima del prelievo, è stato facile raccomandare la pratica ad altre donne. Stai aiutando una coppia a ottenere qualcosa di bello che non è in grado di fare da sola. Sarai ricompensata e non è niente di grave. Subito dopo, però, mi è sembrato irresponsabile e senza senso consigliare a qualcuna di offrire volontariamente la sua stabilità di vita e salute per mesi di danni emotivi e fisici.

La donazione degli ovuli è una scienza relativamente nuova, così non ci sono ancora studi a lungo termine sui suoi effetti. Dal momento che non ho alcuna intenzione di avere figli, le voci e i rischi di cui ho sentito parlare, circa la possibilità di una futura infertilità, non mi hanno spaventata… Il compenso era l’unica cosa che mi interessava quando ho compilato la prima domanda. Il denaro è stato sempre al primo posto nella mia coscienza, il motivo trainante della mia forza di volontà”. Le remore morali che sono affiorate “sono state di breve durata, quando mi sono ricordata del debito sulla mia carta di credito e del fatto che, se non l’avessi fatto io, l’avrebbe comunque fatto qualcun’altra”[10].

Elisa Anna Gomez: con l’utero in affitto “ho firmato la mia riduzione in schiavitù”

09 - Elisa Anna GomezLa statunitense Elisa Gomez, del Minnesota, è la protagonista di una storia di utero in affitto da incubo lunga nove anni. Gomez ha raccontato il suo calvario anche in Italia, in una conferenza stampa al Senato della Repubblica, testimoniando di persona quella che lei ha definito “la mia riduzione in schiavitù” e la depressione che l’ha colpita dopo che le è stata sottratta la bimba appena partorita.

La testimonianza della Gomez parte dalle motivazioni che nel 2006 la spingono a prendere “la peggiore decisione della vita”, quella di proporsi come madre surrogata: l’abbandono del padre dei suoi bambini e la conseguente “disperazione di dover mantenere da sola i miei figli”. Infatti, quando il padre dei suoi figli se ne va, Gomez inizia ad avere “molti problemi sul posto di lavoro: essendo una madre single, ero l’unico genitore per i miei figli e insieme ero anche l’unica persona che potesse provvedere alla stabilità finanziaria della famiglia”. Questo è il fatto – dichiara la donna – che “mi fece prendere quella tremenda decisione che mi avrebbe poi perseguitato per il resto della vita”.

Gomez racconta: “Mi sono offerta come madre surrogata in un forum online. Incontrai diverse coppie committenti e, alla fine, scelsi una coppia gay. Inizialmente furono meravigliosi. Decidemmo insieme di usare i miei ovociti e il mio utero per una maternità surrogata. Mi pagarono 8 mila dollari per mettere al mondo mia figlia e consegnarla a loro. Ma a una condizione: io sarei sempre stata presente nella vita di mia figlia come la sua madre”. Gomez specifica che “non c’era alcuna consulenza legale, né erano previsti avvocati per rappresentarmi, anche perché non me li potevo permettere” e che tutto è avvenuto “senza sapere né immaginare che, in quel giorno di otto anni fa, sul tavolo di quel ristorante, avrei firmato la mia riduzione in schiavitù”. Infatti, molto presto la donna scopre che il progetto in cui si è imbarcata è esattamente una forma di schiavitù legalizzata a senso unico, dove lei non ha nessuna tutela giuridica, mentre i suoi committenti godono di un riconoscimento legale pieno visto che lo Stato del Minnesota disciplina l’istituto della maternità surrogata.

Quando arriva l’ora di portare a termine il “lavoro”, Gomez si accorge che la sicurezza avuta all’inizio inizia a lasciare il posto a dubbi e smarrimento, e che la coppia gay committente sta diventando insistente e onnipresente: “Le cose cambiarono drasticamente al momento del parto. In ospedale, la coppia non mi lasciò mai sola nemmeno un secondo, anche quando li implorai di farmi dormire. Non riuscii a riposare per quaranta ore di fila. Poi la mia bambina vide la luce e subito mi sentii legata a lei per sempre. Lei era mia figlia e io lo sapevo, me lo sentivo dentro. Sapevo anche che non potevo lasciarla andare, ma ero estremamente esausta e confusa per tutta quella situazione. La coppia iniziò a insistere per farmi dimettere dall’ospedale: io iniziai a piangere, piansi per tutto il tempo, fino a quando mi trovai letteralmente scaricata fuori dalla porta di casa mia. Da sola. Senza la mia bambina”.

Gomez è fuori di sé, sente di essere stata ingannata e inizia a stare male nella psiche e nel corpo: “Non mi lavavo più, non mangiavo più, mi sentivo come se fossi un fantasma di me stessa. Ma soprattutto mi sentivo come se la mia bimba, mia figlia fosse morta. Non avrei mai potuto immaginare lo strazio che avrei provato nel vedere mia figlia strappata dalle mie braccia. Il dolore che ho provato e che provo tuttora non si può descrivere, è come un bruciore nelle ossa, una ferita che punge ogni fibra dei miei muscoli”.

Appena entrati in possesso della bambina, i due padri tagliano ogni comunicazione con la donna e abbandonano il Minnesota facendo perdere ogni traccia di sé. Gomez è affranta, è lei la madre della piccola, ma tutti la trattano come se non lo fosse: “In quel momento nessuno dei due uomini compariva ancora sul certificato di nascita della bambina: si trattava a tutti gli effetti di un rapimento, ma le autorità mi trattavano come se la figlia non fosse mia”.

Gomez non si arrende e inizia una battaglia legale per il riconoscimento del suo status di madre della bambina, com’era stato concordato all’inizio con i committenti. Durante la lunga battaglia legale sperimenterà sulla propria pelle anche quanto sia potente ed estesa l’influenza delle lobby gay: “Nel primo processo il giudice stabilì che potevo vedere mia figlia solo quattro ore al mese per un paio di mesi e mi ordinò di pagare gli alimenti per il suo mantenimento. Solo più tardi venni a sapere che c’era stato un accordo alle mie spalle tra il giudice e il perito legale: tutti loro, insieme alla coppia di uomini, erano parte della comunità Lgbt della quale io non ero parte. Quello stesso giudice mi mandò poi da otto psicologi: voleva a tutti i costi dimostrare che ero instabile di mente. Ma tutti e otto i medici dissero che ero in perfetta salute mentale, stavo solo soffrendo le pene dell’inferno per il fatto di non poter vedere la mia bambina. I due uomini, invece, mi coprivano di minacce, molestie e insulti ed erano sempre troppo ubriachi per prendersi cura di mia figlia. Ho diversa documentazione che dimostra tutto questo. Ma il giudice, per dar ragione alla coppia di uomini, ha silenziato me e i miei avvocati, emettendo il divieto di pubblicazione degli atti del processo”.

Dopo nove anni la battaglia legale non si è ancora conclusa e, fa sapere Gomez, sono già due anni e mezzo che non vede sua figlia. La testimonianza si conclude con il ricordo straziante del pianto disperato della bimba durante le prime telefonate fatte alla coppia gay: “Non dimenticherò mai le telefonate che feci alla coppia di uomini i primi giorni dopo la nascita di mia figlia: la sentivo urlare disperata in sottofondo. Mi dissero che si addormentava sfinita solamente sul seggiolino della macchina: era l’ultimo posto dove aveva visto la sua mamma”.

Dopo quello che le è successo, Gomez ha iniziato a portare avanti un’azione di informazione con lo scopo di denunciare l’iniquità della maternità surrogata: “Voglio che si sappia che moltissime madri surrogate sono nella mia stessa situazione, vengono minacciate, costrette al silenzio, cadono in una depressione profonda. Il mondo dell’utero in affitto non ha niente a che fare con la generosità, tutto ruota intorno ai bisogni degli adulti, non ai bambini[11], [12]. Il male che ha sofferto è troppo grande e lei non può sopportare l’idea che altre donne patiscano quello che ha patito lei: “La legge deve impedire loro di rovinarsi con le loro mani per qualche migliaio di dollari[13].

Purtroppo, Elisa Gomez è stata trovata morta il 12 ottobre 2016, aveva 47 anni ed era in buona salute. La polizia ha aperto un’indagine: pare non sia morta di morte naturale. Era in procinto di partecipare ad un’ennesima udienza da cui sperava di ottenere una sorta di affidamento congiunto della figlia, visto che non aveva mai rinunciato all’idea di poterla un giorno riabbracciare. Ora non lo potrà più fare.

Tanya Prashad: “Mi sento come se avessi venduto mia figlia”

10 - Tanya PrashadUna vicenda simile a quella di Elisa Gomez è accaduta alla 33enne americana Tanya Prashad. Anche Tanya mette a disposizione sia il proprio ovocita che l’utero e anche lei sceglie una coppia gay (in questo caso dello Stato della Virginia) perché così – afferma – “non ci sarebbe stata di mezzo un’altra madre”. Infatti, benché la donna abbia rinunciato ai diritti parentali nei confronti del nascituro, ha comunque chiesto di poterlo frequentare anche dopo la nascita perché “il piano era che io avrei continuato a fare le veci della madre”. Ma, quando ad agosto 2004 partorisce una bimba, l’istinto materno irrompe con tutta la sua forza e Tanya cambia idea: “Quando la vidi lì fra le mie braccia, quei pezzi di carta che avevamo firmato è come se fossero scomparsi”, in quel momento “compresi che non avevo mai pensato neanche un secondo a quello che era giusto per lei e si meritava”. Pentita della sua scelta, Tanya decide di tenere la figlia con sé, dando il via a una battaglia legale con la coppia gay, che la porta davanti al giudice: “Finimmo in tribunale. E alla fine accettammo la decisione di una custodia congiunta”.

Oggi la bambina ha dieci anni e – spiega Tanya – “ha molte insicurezze e molte paure. Ha bisogno di molte rassicurazioni. Tutti i bambini hanno questo bisogno, ma lei molto di più. Ha bisogno di più carezze, più abbracci e più necessità di sapere che tutto andrà bene”. Questa situazione continua ad angosciare Tanya che non ha mai smesso un attimo di deplorare la sua decisione di affittare l’utero, una decisione che la fa sentire “come una che ha venduto sua figlia[14], [15].

Brooke Lee Brown: tre gravidanze conto terzi, poi la morte improvvisa

11 - Brooke Lee BrownLa storia di Brooke Lee Brown, 34 anni, dell’Idaho, è stata resa nota dall’emittente californiana “Center for Bioethics and Culture Network”. Tre gestazioni per altri per un totale di cinque bambini, gli ultimi due (commissionati da una coppia gay spagnola) Brooke non ha fatto in tempo a consegnarli: è morta a ottobre 2015, a causa di un distacco della placenta, pochi giorni prima del cesareo programmato. Brooke lascia i suoi tre figli e il marito.

Non è la prima madre surrogata a morire per aver affittato l’utero. Di molte di loro non si saprà mai nulla, rubricate sotto la dicitura: “deceduta per complicazioni” da gravidanza o parto. Di altri decessi si è venuti a conoscenza grazie ai familiari: nel 2005 fu la madre di Natasha Caltabiano – morta di infarto a Bristol (Regno Unito), novanta minuti dopo aver partorito un maschio per una coppia irlandese – a prendersela con l’industria della fertilità[16]. Di altri casi di cui si è riusciti a venire a conoscenza parleremo più avanti.

“Channel 4” racconta le vicende di Alejandra Mendiola e Diana Gisel Islas

Il programma “Unreported World”, dell’emittente televisiva pubblica britannica “Channel 4”, ha realizzato un documentario in Messico – la nuova meta low-cost del business riproduttivo americano – in cui ha messo in luce i rischi per la salute delle madri conto terzi e dei bambini loro commissionati, a causa anche di un’applicazione lassista dei contratti tra aspiranti genitori e surrogate. “Unreported World” ha parlato con alcune donne che avevano volontariamente deciso di diventare madri surrogate per una disperata necessità di denaro, che si sono ritrovate completamente trascurate durante la loro gravidanza su commissione o con ferite emotive se questa non era andata a buon fine.

12 - Alejandra MendiolaUna di queste donne è Alejandra Mendiola, di Aguascalientes (Messico), madre single di quattro figli suoi che – dice al reporter – ha accettato di fare la surrogata per conto di un uomo single degli Stati Uniti, perché bisognosa di soldi per il sostentamento della sua famiglia. Mendiola racconta di essere stata messa a rischio di contrarre l’HIV, perché l’embrione che le è stato impiantato proviene da sperma infetto. Il suo committente, infatti, ha contratto il virus, ma nessuno ha pensato o voluto metterla preventivamente al corrente di questo fatto. “Il padre, il donatore, ha l’HIV e io non lo sapevo – racconta -. L’ho scoperto solo tre settimane fa, al sesto mese di gravidanza”. Quando ha scoperto che il donatore era sieropositivo – dice Mendiola – “ho provato tanta rabbia e paura. E ho pensato: e se mi fossi infettata? Perché non me l’hanno detto? Non mi hanno detto niente quando ho firmato il contratto”.

Quando “Channel 4” ha contattato su questa vicenda la direttrice americana della clinica, con sede in California, costei si è mostrata rammaricata per l’accaduto: “Non so cos’altro dire su questo. Dico solo che c’è un rischio zero di contagio. Prendo atto che sia arrabbiata. Lo sarei anch’io”. La clinica ha comunicato a Mendiola che prima della formazione dell’embrione lo sperma era stato “lavato”, per questo motivo la direttrice parla di un “rischio di trasmissione del virus è pari a zero”. Tuttavia, secondo l’Oms, la procedura di lavaggio dello sperma riduce sì notevolmente il rischio di infezione, ma non lo esclude del tutto.

13 - Diana Gisel IslasUn’altra esperienza traumatica di maternità conto terzi, raccontata da “Channel 4”, è quella di Diana Gisel Islas, di Tabasco (Messico). La donna, che è al sesto mese di gravidanza, racconta all’emittente britannica che l’agenzia non le manda cibo sufficiente a soddisfare le esigenze nutrizionali sue e del bambino che ha in grembo: “Un giorno hanno semplicemente smesso di mandarmi denaro per il cibo. Da ieri non abbiamo niente da mangiare. Ho parlato direttamente con la titolare dell’agenzia e le ho detto: sto soffrendo la fame”. La donna, che ha anche un figlio suo, aggiunge: “È un sacrificio per me portare in grembo un bambino non mio e dover affrontare anche tutto questo. Non abbiamo mai mangiato così male”.

Contattata da “Channel 4”, la clinica ha negato di aver tagliato i costi dei viveri, specificando che non è mai stata loro intenzione di rifornirli in maniera insufficiente. Hanno ammesso che la Islas aveva sollevato lamentele riguardo al cibo, specificando che ora le stanno inviando una consegna extra alla settimana. Ma Michelle Velarde, che lavora come coordinatrice e rappresentante nella clinica messicana, ha detto che l’esperienza di Diana Gisel Islas non è un caso isolato e che, anzi, capita spesso che ci siano carenze di cibo per le madri surrogate. I contratti spesso non vengono firmati – ha aggiunto Velarde – mettendo così a rischio il futuro delle madri surrogate, degli aspiranti genitori e dei bambini[17].

EUROPA

Nel Vecchio Continente, l’industria della procreazione rivolta a coloro che non possono sborsare cifre astronomiche per procurarsi ovociti e uteri, può contare sulle donne delle vaste aree di povertà dei Paesi dell’Est Europa come Russia, Ucraina, Polonia e Romania. Per molte di queste donne vendere gli ovuli o affittare l’utero rappresenta l’unica vera fonte di reddito, un fatto che le spinge a mettere pericolosamente a repentaglio la propria salute e vita con ovodonazioni frequenti, che sottopongono il corpo a ripetuti bombardamenti ormonali, o l’affitto dell’utero per più volte nel corso della vita.

Le venditrici di ovuli dell’Europa dell’Est raccontate dall’Observer

14 - allevamento galline

Nel 2006, l’Observer, il settimanale domenicale del quotidiano inglese The Guardian, pubblica un reportage[18] sui “costi disumani del mercato di ovociti” inglese diretto verso l’Europa dell’Est e Cipro, dove le cliniche prosperano con il turismo della fertilità guardandosi bene dal comunicare alle venditrici di ovuli i rischi per la salute a cui tale pratica le espone.

L’Observer riporta la testimonianza di alcune di queste venditrici le quali, per la vergogna e il timore di essere riconosciute, compaiono nell’intervista con nomi di fantasia. La prima a raccontare la sua storia è la 27enne Svetlana, cuoca disoccupata, sposata e madre di due figli. Alla disperata ricerca di denaro dopo la nascita del secondo figlio, Svetlana si rivolge a una delle tante cliniche per la fertilità di Kiev chiedendo se hanno bisogno di personale nella cucina della mensa, ma invece di trovare qualcuno disposto ad assumerla trova chi è invece disposto a “comprarla”. Alla clinica le dicono che se ha bisogno di soldi può vendere i suoi ovociti, il procedimento è semplice e per ogni donazione riceverà un compenso di 300 dollari, di più se il suo corpo produrrà molti ovuli. Per Svetlana, come per la maggior parte delle donne dell’Est Europa, questa rappresenta una somma considerevole visto che in quel momento la sua famiglia sta sopravvivendo con meno di 15 dollari al mese. Svetlana accetta e dà il via al suo periodo di menzogne e sensi di colpa quando, ogni giorno dopo pranzo, deve sgattaiolare da casa per sottoporsi alle iniezioni di ormoni che stimolano le sue ovaie a produrre decine di ovuli. Infatti, la donna non ha mai rivelato a nessuno quello che ha fatto, né alla madre, né ai suoi figli, né al marito perché – racconta – si sarebbe certamente infuriato.

Alla quinta donazione le ovaie di Svetlana producono 40 ovuli sani che le fruttano un extra di 200 dollari oltre il normale compenso. L’inglese Adam Balen, professore di Medicina della Riproduzione, ha osservato che quell’enorme produzione di ovociti è la prova che la clinica la stava iper-stimolando mettendo in serio pericolo la sua salute.

Il settimanale britannico scrive che, per la clinica di Kiev, Svetlana non è stata altro che una vacca da mungere, una donna i cui ovociti sono venduti solo per fare profitto. Infatti, mentre le donatrici sono pagate con appena 300 dollari a donazione, le donne anziane provenienti dalla Gran Bretagna sono disposte a sborsare più di 3mila sterline per procurarsi ovociti giovani e sani. L’Observer continua denunciando che nessuno tra il personale della clinica ha mai informato la donna sul fatto che la donazione di ovuli è una procedura lunga, dolorosa e potenzialmente pericolosa, che implica l’iniezione nel corpo di ormoni e che l’1% delle donne può incorrere in gravi effetti collaterali come la sindrome da iperstimolazione ovarica, potenzialmente letale. Il personale della clinica non le ha mai spiegato nulla sul funzionamento dell’iter di ovodonazione, né l’ha mai informata sull’impatto che esso può avere anche dal punto di vista psicologico. Il bombardamento ormonale le ha provocato ritardi del ciclo mestruale e dolori allo stomaco, ma Svetlana ha saputo che le stavano iniettando ormoni solo alla quarta donazione, quando hanno dovuto metterla sotto fleboclisi. Fino a quel momento le avevano sempre detto che le iniezioni servivano unicamente “per pulirle il sangue”.

Svetlana decide di raccontare la sua storia solo un anno dopo l’ultima donazione. Lo fa in un luogo segreto lontano da casa, perché ha paura di essere vista parlare con un giornalista: “Non voglio che si sappia – ammette -, non mi fa piacere aver venduto una parte di me. Il fatto che mi sia venduta per denaro. Molte persone non lo capirebbero”. Quello che ancora oggi la fa più soffrire non sono tanto i malesseri fisici che – dice – non sono stati duraturi, ma quelli psicologici, per il fatto di “aver venduto una parte del mio corpo”. Ai figli, sangue del suo sangue, che potrebbe avere a Londra, preferisce non pensarci e si augura che non le assomiglino, come se un’eventuale somiglianza potesse rivelare al mondo ciò che ha fatto e che deplora: “Spero non assomiglino a me. I miei due figli sono uguali al padre. Spero sia così anche per quelli”.

Svetlana – continua l’Observer – è il tipico caso di decine di giovani donne ucraine alla disperata ricerca di denaro, costrette a vendere gli ovuli per sbarcare il lunario. Si tratta di un commercio portato avanti con la massima riservatezza, con le identità delle donatrici rigorosamente protette. Nonostante ciò il settimanale inglese è riuscito a rintracciare molte altre donatrici di Kiev che, come Svetlana, hanno venduto gli ovuli alle cliniche che hanno consentito alle donne inglesi di avere figli. Scrive l’Observer: “Alcune di queste giovani sono disoccupate o fanno lavori poco retribuiti, altre si sono laureate e ora guadagnano bene, alcune sono bionde, altre sono castane con gli occhi neri, ma c’è una cosa che le accomuna tutte: tutte hanno venduto i loro ovociti per soldi, tutte hanno rimpianti per quello che hanno fatto e nessuna di loro lo rifarebbe più”.

Il reportage prosegue con l’intervista a Erena, donatrice per quattro volte, che dice di conoscere più di altre venti giovani che come lei hanno donato gli ovuli in una delle cliniche della città: “L’abbiamo fatto solo per soldi” puntualizza. Erena racconta che una ragazza di sua conoscenza ha donato gli ovuli già venti volte, che nessuna delle donatrici ha mai ricevuto alcuna consulenza psicologica dal personale delle cliniche e che quest’ultime ti danno più soldi se accetti di produrre più ovuli. Erena inoltre rivela che una volta le hanno iniettato cinque fiale di FSH (un ormone per la stimolazione). Poiché ogni fiala ne contiene 75 unità, in quell’occasione ha ricevuto in totale ben 375 unità di ormone. Il professore Balen ha commentato che si tratta di una quantità potenzialmente pericolosa, tale da provocare la sindrome da iperstimolazione ovarica (OHSS): “Una giovane donna con le ovaie sane dovrebbe ricevere non più di 150 unità di FSH, altrimenti si corre il rischio di OHSS. Le complicazioni gravi sono rare, ma se si verificano possono essere estremamente pericolose, persino mortali”. Balen si è detto particolarmente preoccupato per il sistema di pagamento a cottimo attuato dalle cliniche, perché potrebbe incoraggiare le donatrici a farsi somministrare più ormoni nella speranza di riuscire a produrre più ovuli per guadagnare di più. Erena conclude dicendo che tutto il processo che coinvolge le donatrici “sembra più un allevamento di galline ovaiole che una donazione di ovuli” specificando di essersi sentita trattata come una “vacca da mungere”.

L’inchiesta dell’Observer si sposta quindi sull’isola di Cipro dove le stime dicono vivano circa 30mila immigrati provenienti dall’ex Unione Sovietica, anche se solo la metà risulta regolarmente registrata. Qui i giornali locali pubblicano spesso annunci in lingua russa in cui si cercano “ragazze sane per la donazione di ovuli”. Le giovani che il settimanale inglese è riuscito a rintracciare hanno rivelato che “una su quattro” delle loro coetanee ha donato gli ovuli almeno una volta quando aveva circa vent’anni d’età. Ci sono donne russe e ucraine che volano a Cipro con l’unico scopo di vendere gli ovuli. La maggior parte di loro lo fa perché ha disperatamente bisogno di soldi per far fronte all’affitto di casa e alle bollette.

Larissa Kovoritsa, un’infermiera che fa da mediatrice tra le donatrici russe e una clinica della fertilità della capitale, Nicosia, ha detto che per alcune l’ovodonazione rappresenta la fonte principale di reddito. Costoro arrivano a sottoporsi all’intero processo di iniezioni di ormoni almeno cinque volte l’anno. Il corrispettivo è di 350 sterline cipriote per 12 ovuli a ciclo, 500 se la produzione è maggiore. Tatjana, 28 anni, agente di viaggio originaria di Minsk (Bielorussia), ha detto all’Observer che per queste donne “è come donare il sangue. Doni e poi dimentichi. È una transazione pura e semplice: offri gli ovuli, ricevi i soldi”. Anche se Tatjana dichiara di non essere mai stata una donatrice, ammette tuttavia di esservi andata molto vicina, otto anni prima, quando trasferitasi sull’isola conobbe molte ragazze che avevano donato. Due cose – dice – le hanno impedito di fare quel passo: la paura degli effetti collaterali e il pensiero che ci sarebbe stato un pezzo di lei, qualche piccola Tatjana, là fuori nel mondo.

Due amiche di Tatjana hanno parlato in segreto con l’Observer ammettendo di aver mentito sulle loro precedenti gravidanze, contravvenendo alla legge del Regno Unito secondo la quale le donatrici devono essere già madri. “Non mi avevano detto che avrei dovuto sostenere dei test psicologici” ha dichiarato Yelena, 33enne di Mosca, donatrice di ovuli quando aveva intorno ai vent’anni, “l’unico foglio che mi hanno fatto firmare è stato quello in cui dichiaravo di rinunciare a tutti i miei diritti sul bambino. Questo è stato un bene, perché ora ho due figli miei e non voglio nella maniera più assoluta ripensare al passato, a quando ero affamata e disperata. Tatjana convenne con me sul fatto che il compenso era molto allettante… In Russia con mille dollari ci puoi vivere un anno intero”.

Sarebbe interessante se, dieci anni dopo, l’Observer ritornasse in questi luoghi per verificare quante delle “nuove schiave” incontrare e intervistate, sottoposte a tutti quei bombardamenti ormonali disumani e pericolosi per la salute (sia a breve che nel lungo periodo), stiano ancora bene e siano ancora in vita. Visti i danni ampiamente documentati provocati da tali pratiche è molto probabile che alcune di loro non avranno purtroppo più nulla da raccontare.

Marina e Natasha: locatrici di utero per una casa più grande

È sempre lo stato di necessità che spinge le donne dei Paesi ex comunisti, oltre che a vendere i propri ovuli, anche ad affittare il proprio utero. La Russia e L’ucraina – scrive Avvenire[19] – si trascinano dietro problemi dell’epoca sovietica, primo tra tutti la crisi degli alloggi. Si costruiscono faraonici palazzi per gli oligarchi, ma la gran parte della popolazione vive ancora in case fatiscenti e piccole, prive di molte comodità. Di questa emergenza approfittano organizzazioni malavitose che propongono a giovani donne di prestarsi a fare la madre surrogata in cambio di denaro che permetta di affittare un’abitazione. I compensi sono molto allettanti: da 600mila a 1 milione e mezzo di rubli (8/20mila euro).

Il giornale Segodnja di Kiev, riporta la testimonianza di una 32enne russa di Egorjevsk (Mosca) che si nasconde dietro lo pseudonimo di Marina Sorokina, per proteggere la sua identità. La decisione di Marina di affittare l’utero matura quando, rimasta incinta per la seconda volta, perde il suo lavoro di segretaria e si manifesta la necessità di un appartamento più grande per la famiglia che è aumentata. “La mia storia – dice Marina – è cominciata come quella di qualunque famiglia. Sposai un militare, dopo un anno nacque nostra figlia Polina. Si viveva senza lamentarci”. Quando rimane incinta la prima volta, la direzione la manda in permesso di maternità “con i migliori auguri”, ma alla notizia della seconda gravidanza “mi dissero che se avessi partorito non mi avrebbero più aspettato”. Marina lascia l’impiego e dà alla luce la sua seconda figlia, Arina, poi si mette alla ricerca di un nuovo lavoro, ma non lo trova. Ai problemi economici si aggiunge il problema dell’alloggio: un vecchio appartamento di una sola stanza, già angusto per tre persone, è diventato davvero troppo piccolo e invivibile ora che in famiglia c’è un figlio in più. Questa è la grave situazione da cui matura la sua decisione di incubare un figlio altrui, con grande felicità del mercato procreativo che con il disagio e l’indigenza di chi deve soddisfare i bisogni essenziali si arricchisce.

La breve testimonianza di Natasha è raccontata dalla giornalista Serena Marchi nel suo “Madri, comunque” (Fandango libri, 2015). Natasha – scrive Marchi –, una donna ucraina che di mestiere fa la “madre per altri” a 10mila euro per gravidanza, dice: “Non c’è niente di male nel farlo, questi soldi servono per comprare una casa più grande in cui possa andare con la mia famiglia. Il mio corpo è fatto per procreare, perché non usarlo per aiutare la mia famiglia a vivere in condizioni migliori e al contempo rendere felice una coppia di genitori?[20].

Insomma, come ha osservato più sopra l’agente di viaggio Tatjana, per molte donne povere vendere il proprio corpo non è altro che una transazione: incubi il bambino, ricevi il denaro, compri la casa. Il mercato riproduttivo non può chiedere di meglio: è esattamente questo l’atteggiamento che consente di incrementare oltremisura i profitti.

Madre surrogata inglese: “È il mio bambino: l’ho partorito, l’ho sentito scalciare nella pancia, l’ho allattato”

In Europa il business procreativo non si trova solo nei Paesi dell’Est: di donne disposte ad affittare l’utero per necessità ve ne sono anche nei cosiddetti Stati benestanti come, per esempio, l’Inghilterra. Viene da qui, infatti, la storia della 24enne Jennifer Gibson (nome di fantasia), sposata e madre surrogata per conto di una coppia gay inglese.

Jennifer conosce i suoi committenti attraverso una pagina segreta di Facebook, gestita da una donna che facilita gli incontri tra aspiranti genitori e madri surrogate. A febbraio 2014 i due uomini, Tom e Trevor, la incontrano di persona in un fast food dove pattuiscono un compenso di 9mila sterline e le fanno firmare il contratto. Jennifer riceve i farmaci per posta e inizia la procedura ma, visto che in Inghilterra la maternità surrogata a pagamento è vietata, per l’impianto si deve recare in una clinica della fertilità di Cipro. Qui, a ottobre 2014, le vengono impiantati due embrioni, che sono stati prodotti nel 2012 con gli ovuli di una donatrice americana – la medesima madre biologica degli altri figli che la coppia gay si è già fatta fabbricare – e gli spermatozoi dei due uomini.

La donna rimane subito incinta di due gemelli, ma si presentano anche i primi problemi: i due uomini pagano per la prima ecografia ma non per la polizza sanitaria come avevano promesso. Quando Jennifer inizia ad accusare dei dolori addominali, costoro risultano irreperibili e lei è costretta a ricorrere alla sanità pubblica. Dopo questo fatto riceve un messaggio inquietante su Facebook da parte di una donna che si qualifica come la prima madre surrogata dalla quale i due hanno ottenuto i precedenti bambini, in cui li accusa di averla lasciata con complicazioni mediche e di non aver pagato tutto il dovuto. Jennifer rimane molto turbata: “Ho pensato ‘mio Dio, sono incinta di due gemelli e sto mettendo a rischio la mia vita per due persone che non mi stanno vicine’”. Ma non è ancora tutto, poco dopo si presenta un’altra difficoltà: la giovane perde un gemellino. Angosciata per i problemi e l’intera situazione che si è venuta a creare, Jennifer pensa di tirarsene fuori abortendo anche il secondo, ma l’intermediaria la convince a tenerlo tagliando fuori i committenti. Il marito della donna è d’accordo e così, a dicembre, comunica loro di aver perso entrambi i bambini. “Loro ci rimasero male – riferisce –, ma poi cambiarono numero di telefono e sparirono”.

Tutto sembra risolto, invece, due settimane prima della nascita del piccolo Charlie (nome di fantasia), la donna inizia a ricevere lettere da un avvocato in cui la coppia gay reclama i bambini. “Il mio peggior incubo diventava realtà, ero terrorizzata che si presentassero in ospedale e mi portassero via il bambino”, racconta. “Lui è il mio bambino – aggiunge Jennifer, dopo la nascita del piccolo, al The Mail On Sunday, il giornale che per primo ha raccontato la sua storia -, l’ho partorito, l’ho sentito scalciare nella pancia, l’ho allattato. È amato e felice. Sono terrorizzata all’idea di poterlo perdere”.

Il caso finisce in tribunale e, dopo un anno di batticuore e battaglie legali, la giudice dell’Alta Corte stabilisce che il bambino rimanga alla donna perché è “la persona maggiormente in grado di far fronte ai bisogni emozionali e fisici del bambino nonostante non abbia alcun legame con lui”. Per la giudice separare il neonato dalla mamma sarebbe nocivo per il piccolo e il fatto di avere una relazione genetica con i fratelli della coppia e uno dei due committenti non giustifica l’allontanamento del bambino “da una casa calda, felice e amorevole”. Nella sentenza la giudice ha anche messo in evidenza le difficoltà avute dalla donna nel momento della firma del contratto che le “hanno impedito di dare un consenso libero e incondizionato alla pratica”. Ricordando quei momenti, Jennifer aveva raccontato al The Mail On Sunday: “Ero così nervosa, mi sentivo sotto pressione. Non ho nemmeno potuto leggere il contratto con calma. Mi dissero che volevano traferire due embrioni e che sarei dovuta andare all’estero per farlo. Mi sembrava che volessero essere coinvolti nella gravidanza, che non mi avrebbero lasciato sola[21].

Italia, le donatrici di ovuli reclutate da Antinori: giovani, belle e… bisognose. Le testimonianze di Maria e Lucia, e la denuncia di un’infermiera spagnola

15 - Antinori

Dopo che, nell’aprile 2014, la Consulta ha sdoganato la fecondazione eterologa, è iniziata anche in Italia la corsa delle cliniche per la fertilità ad accaparrarsi la preziosa materia biologica femminile per l’assemblaggio dei figli su richiesta, ma visto che di italiane disposte a donare spontaneamente e gratuitamente i propri ovociti non se ne trovano, le cliniche hanno iniziato a importare ovuli dall’estero. Tra queste c’è anche chi ha pensato bene di importare direttamente le “donatrici”, con la promessa di un corrispettivo economico (vietato dalla nostra legge), reclutando donne giovani, belle e soprattutto bisognose dei Paesi poveri.

La cronaca ci ha raccontato lo scandalo scoppiato nella clinica “Matris” di Severino Antinori, il controverso ginecologo italiano meglio noto per aver fatto diventare madri decine di donne anziane. Il fatto ad aver suscitato molto clamore, che ha valso al ginecologo un rinvio a giudizio, ha per protagonista una violenza privata su un’infermiera spagnola alla quale Antinori avrebbe prelevato forzatamente gli ovociti. È in questa occasione che sono emersi, grazie alle testimonianze di alcune giovani transitate nella clinica, anche i metodi di ingaggio delle donatrici – sia straniere che italiane, che dovevano essere rigorosamente giovani e bellissime – e gli abusi perpetrati nei confronti di alcune di loro.

Scrive il Corriere che la clinica di Antinori “era un luogo d’illegalità ma ancor prima di dolore… Il dolore delle donatrici di ovuli. che a volte si sono fatte operare per superficialità o per necessità economica; ma che nella maggioranza dei casi avrebbero subito pressioni psicologiche e interventi sbagliati. In Italia la donazione di ovuli dietro ricompensa economica è vietata, qui pare fosse la regola”. L’avvocato Giovanni Pizzo, che sta seguendo legalmente una ventina di donatrici che hanno denunciato la Matris – continua il Corriere – ripete “che le sue assistite hanno subito di tutto: ‘Provate a immaginare il peggio. Ecco, nella clinica c’era… Credo che sia solo un caso se non ci sia mai stato un decesso’”. Riguardo alle caratteristiche delle donatrici, il Corriere specifica che “Antinori le pretendeva di vent’anni e bellissime[22]. Nel mostrare le fotografie di costoro agli aspiranti genitori, il ginecologo sperava così di convincerli del fatto che – vista l’alta qualità della “materia prima” – avrebbero sicuramente ottenuto una gravidanza e un bebè sano e meraviglioso.

Le donatrici ingaggiate non erano solo giovani e belle, ma anche bisognose. Scrive il Corriere in un altro articolo: “Arrivavano da Cuba, dalla Romania, dall’Albania, ma anche dal Mezzogiorno le ragazze che vendevano i propri ovociti nella clinica Matris di Milano… I loro passaporti sono soprattutto di Paesi poveri, dove il problema è riuscire a campare: per loro, entrare nel business della fecondazione eterologa può sembrare un’occasione. Ma ci sono anche le carte d’identità italiane: Messina e Bari, le città di nascita. Solo in un caso il domicilio è Milano, per il resto dev’essere stata una toccata e fuga in città per vendere gli ovuli e poi tornare a casa… Insomma, il medico si approfittava, da quanto emerge dalle indagini, della fame di soldi di ragazze in cerca di futuro: e ora che ne conosciamo la provenienza e le generalità, la tesi assume ancora più forza. In Italia è vietato il commercio di ovuli, ma una busta allungata con 500 o mille euro può fare miracoli[23].

Tra le testimonianze uscite sui giornali c’è quella di Maria (nome di fantasia), 22 anni, brasiliana, per due volte donatrice di ovuli alla clinica Matris, una delle prime giovani ad aver sporto denuncia ai carabinieri. Maria spiega a Repubblica che l’ha intervistata che la decisione di donare gli ovuli è maturata a causa di problemi economici: “Abitavo con il mio fidanzato in una stanza in subaffitto in periferia – racconta – dove la padrona di casa controllava perfino quanta acqua consumassi quando facevo la doccia. Ero disoccupata, lo sono anche adesso. E il mio fidanzato aveva un lavoro a chiamata che a volte c’era, a volte no”. Una certa “Barbara aveva pubblicato l’annuncio di un appartamento su internet. Quando sono andata a vederlo mi sono resa conto che non potevo permettermelo”. Lei mi ha risposto che “poteva aiutarmi. Mi ha spiegato che lavorava per Antinori, mi ha proposto di donare gli ovuli. Mille euro per ogni prelievo. E se avessi portato un’amica, altri 500 euro extra. Avevo una paura nera quando ho accettato. Non sapevo nemmeno cosa fosse l’eterologa”.

Maria dice di aver denunciato Antinori perché “mi ha imbrogliata. Dopo il primo prelievo ho ricevuto la mia busta. Dopo il secondo ciclo di bombardamenti ormonali, però, al risveglio dopo l’intervento mi hanno detto che avevano trovato solo acqua. Ma gli ovuli tre giorni prima si vedevano dall’ecografia. Non volevano pagarmi”. Ora che Antinori è stato arrestato – aggiunge Maria – “posso iniziare a pensare che a nessun’altra toccherà il trattamento che ha riservato a me. E ad altre[24].

Il Corriere riporta la testimonianza di Lucia Sciliberto, 20 anni, modella messinese. Il nome della ragazza compare nell’elenco delle donatrici della clinica Matris, ma lei nega d’essersi sottoposta alla donazione, anche se ammette che all’inizio la curiosità l’aveva spinta a informarsi sulla procedura: “Una donna che organizza eventi mi ha contattata e accompagnata nella clinica. Ho appena vent’anni, la vita e il mondo davanti; non voglio dire di no a niente e nessuno senza prima vedere, valutare di persona. Mi hanno promesso 1.500 euro. Pochi. Hanno rilanciato, arrivando a 2mila. Ma qualcosa non mi rassicurava. Hanno insistito, con decisione. Mi hanno spiegato tutto, compreso il bombardamento ormonale. Ho domandato se potevo interrompere la cura nel caso in cui avessi iniziato a star male. Hanno risposto che non se ne parlava neanche, se il contratto partiva dovevo arrivare fino in fondo. Allora ho rinunciato. Sono scappata e non mi sono più fatta trovare”.

Lucia continua: “Avevo terminato il liceo linguistico e mi ero trasferita a Milano. Avevo cominciato a muovere i primi passi, non vi nego che di contratti pesanti non ce n’erano. Ma di sicuro non mi vado a distruggere per 1.500 oppure 2mila euro che siano. Sono stata una stupida soltanto a provarci… Nel senso che ho dei piccoli problemi di cuore e in clinica non dovevo nemmeno presentarmi… Chissà che cosa mi sarebbe successo… Sono stata fortunata[25].

Insomma, gli intermediari di Antinori reclutavano le potenziali donatrici andando a pescare anche nel mondo della moda, tra le giovani e belle modelle che stanno muovendo i primi passi in questo settore, invogliandole alla donazione con somme di denaro che avrebbero fatto loro certamente comodo mentre stavano cercando di fare carriera e raggiungere il successo. “Conosco un’amica, andata prime di me da Antinori – afferma Lucia -, sempre invitata dall’organizzatrice di eventi”, ovviamente anche lei, l’amica, molto giovane e molto bella. Con Lucia, però, ad Antinori gli è andata male, lei è riuscita a scappare in tempo, non diventando l’ennesima vittima del business procreativo.

Colei che ha dato via allo scandalo, facendo scattare le manette ai polsi di Antinori, è un’infermiera spagnola 24enne, originaria dell’Andalusia, che ha denunciato il ginecologo di averla ingannata e prelevato gli ovuli contro la sua volontà. La giovane ha raccontato agli inquirenti di aver conosciuto Antinori a febbraio 2016, mentre si trovava a Milano in vacanza; costui, conoscendo il suo mestiere di infermiera, l’avrebbe avvicinata mentre era da sola al ristorante offrendole un posto di lavoro nella clinica per 1.700 euro al mese, vitto e alloggio compreso. La giovane, dopo essere tornata in Spagna per parlarne con la madre, accetta l’offerta e inizia a lavorare per lui. A fine marzo, già in pianta stabile nella clinica, lei gli confida di aver sofferto di cisti ovariche nel periodo dell’adolescenza e Antinori l’invita a fare un controllo. Durante la visita costui le individua una presunta nuova cisti ovarica e le consiglia: “Operati e ti esplode l’utero”. La ragazza viene così preparata alla terapia per cisti ovarica mediante la somministrazione di Puregon e Luveris due farmaci che, tuttavia, sono solitamente usati per indurre la stimolazione multipla delle ovaie. L’infermiera si insospettisce, lascia la clinica e ritorna al suo alloggio con l’intenzione di fare le valigie e ripartire per la Spagna, ma qui viene raggiunta da un’impiegata della clinica che la tranquillizza e convince a rimanere. Il giorno dopo, appena rientra in clinica, l’aspetta però un’amara sorpresa: viene afferrata, spinta contro il muro, trascinata in sala operatoria, stesa sul letto, sedata e derubata degli ovuli. Al suo risveglio un infermiere le confida quanto successo suggerendole di chiamare le forze dell’ordine, ma siccome il cellulare della giovane è sparito, costei è costretta a servirsi di un telefono fisso della clinica riuscendo a dare l’allarme. A questo punto Antinori le piomba addosso fuori di sé, minacciandola di farla uccidere visto che lui ha “denaro e potere”, ma per fortuna arrivano i carabinieri. L’infermiera ha un malore e viene accompagnata alla clinica Mangiagalli, dove le riscontrano sul corpo lividi ed ecchimosi compatibili “con le manovre di immobilizzazione per l’anestesia forzata”, come riportano i verbali dei carabinieri.

Dalle indagini emergono altri particolari come il fatto che le firme sul consenso informato al prelievo degli ovociti siano state falsificate: “Già da una prima analisi appaiono significativamente difformi”, avevano dichiarato da subito anche i carabinieri. È poi emerso che, il giorno della violenza, alla Matris c’erano tre coppie in attesa degli ovuli per la fecondazione, ma di ovuli pronti Antinori non ne aveva. Quest’urgenza avrebbe fatto scattare in lui l’azione violenza: il ginecologo non voleva fare brutta figura, perdere i clienti e i quattrini (almeno 5mila euro a intervento).

Nell’ordinanza di custodia cautelare del Giudice per le indagini preliminari emessa nei confronti di Antinori, si legge che il ginecologo ha agito “nell’indifferenza della dignità e del corpo della donna”. Secondo il giudice, “l’impellente bisogno di reperire ovociti, idonei all’impianto nell’utero delle clienti, nell’ottica di massimizzazione del profitto, induceva Antinori e le sue collaboratrici a comportamenti spregiudicati”. Antinori – continua l’ordinanza – ha sottoposto la dipendente “in anestesia generale a un intervento ovocitario, così cagionandole l’ingrossamento delle ovaie oltre a varie ecchimosi sul corpo, provvedendo anche alla formazione di falsi atti di prestazione del consenso all’operazione”. Le avrebbe inoltre anche “sottratto il telefono cellulare”, che non è più stato trovato. Secondo il Gip, che ha disposto gli arresti domiciliari, se lasciato libero il medico avrebbe continuato “a gestire lucrosi affari collegali alla procreazione medicalmente assistita”, anche attraverso l’esercizio di “ogni tipo di indebita pressione sulle donne individuate quali potenziali donatrici[26] [27].

THAILANDIA, NEPAL, CINA

Lo stesso scenario si ripresenta nei Paesi Asiatici: Thailandia, Nepal, India, Cina… il mercato riproduttivo prospera lì dove prospera la povertà, dove vendersi per denaro può cambiare la vita di una donna, e della sua famiglia, che deve fare i conti con i morsi quotidiani della fame più che con i rimorsi di coscienza che arriveranno per aver venduto gli ovuli o aver dato via il figlio.

La tratta delle surrogate vietnamite segregate a Bangkok

16 - Baby 101Nel 2011, AsiaNews ha reso noto dello smantellamento, da parte della polizia di Bangkok, di un’organizzazione thailandese, “Baby 101”, che obbligava donne vietnamite poverissime ad avere figli per poi rivenderli.

La Società forniva madri in affitto tramite il suo sito internet, prendendo gli ordini via e-mail. Le pagine web mostravano foto di donatrici di bell’aspetto, case eleganti e cliniche di lusso dotate di giardino e piscina. In realtà, le madri surrogate erano donne vietnamite molto povere, reclutate dalla “Baby 101” con la promessa di 5mila dollari per ciascun bambino incubato, ma non appena costoro arrivavano in Thailandia, l’organizzazione sequestrava i loro passaporti e le minacciava con l’obbligo di pagare un risarcimento di mille dollari se avessero cambiato idea. I soprusi sono finiti quando alcune di loro hanno contattato l’Ambasciata del Vietnam rivelando i traffici di cui erano vittime. Nel luogo in cui la “Baby 101” le aveva segregate, la polizia ne ha trovate quindici, tutte giovani, di cui due con i loro neonati da poco partoriti (uno di 1 mese e uno di 7 giorni), sette incinte e sei non ancora gravide.

Il Ministro della Sanità thailandese ha definito il giro d’affari “illegale e disumano” specificando che, in alcuni casi, “è come se queste donne siano state stuprate”. Le giovani vietnamite hanno accettato di affittare l’utero in cambio di denaro perché provenienti da famiglie molto povere, come ha ammesso una delle due puerpere ricoverate in ospedale, dopo l’intervento della polizia, a cui il Ministro della Sanità ha voluto fare visita. Costui ha dichiarato: “La donna, di 31 anni, ha confessato di aver affittato l’utero per 5.500 dollari: la sua famiglia è molto povera, e le era stato promesso un facile guadagno[28].

Pattharamon Janbua: “Non entrate nel business della maternità surrogata”

17 - Pattharamon JanbuaSempre dalla Thailandia arriva la vicenda della giovane Pattharamon Janbua, 21 anni, sposata, con due figli di tre e sei anni, la quale decide di offrirsi come madre surrogata perché bisognosa di soldi. Dopo essere stata contattata da una coppia australiana, stipula il contratto con l’agenzia intermediaria, fissando un compenso di 12mila euro che i committenti dovranno pagare a rate fino alla nascita del bimbo. Trascorso qualche mese si scopre però che nel grembo di Pattharamon di bambini non ce n’è uno solo, ma due. Visto che si tratta di una gravidanza gemellare, la donna chiede una somma aggiuntiva: la coppia committente accetta di versarle altri 1.200 euro per entrare in possesso di entrambi i bimbi. Ma, poco tempo dopo, arriva un’altra sorpresa: gli esami sui piccoli rivelano che uno di loro ha la sindrome di Down e una patologia al cuore. La coppia australiana mette subito in chiaro di non volere il gemellino “difettoso”, ordinando a Pattharamon di abortirlo e di portare avanti la gravidanza solo di quello sano, ma lei si rifiuta, la sua fede buddhista non glielo permette, non si sottopone ad alcun aborto e li dà alla luce entrambi.

La triste vicenda finisce con la separazione dei due gemellini: quello sano viene spedito in Australia, mentre quello con i “difetti di fabbrica” rimane alla proprietaria dell’utero, la quale, oltre a doversi far carico del mantenimento del piccolo e delle cure mediche di cui ha bisogno, si vede anche decurtare dal compenso i 1.200 euro previsti in più per il secondo bambino perché, come scritto sul contratto, la coppia si era impegnata fin dall’inizio per un figlio solo.

Questo è l’appello rivolto da Pattharamon alle donne thailandesi, tramite il quotidiano australiano Sydney Morning Herald: “Vorrei dire alle donne thailandesi di non entrare in questo business come madri surrogate. Non basta pensare solo ai soldi. Se qualcosa va storto nessuno ci aiuterà e il bambino sarà abbandonato dalla società, e noi ce ne dobbiamo assumere la responsabilità”.

Patidta Kusolsang: “Mi manca ogni giorno. Vedete com’è crudele oggi il mondo”

18 - Patidta KusolsangIl 15 gennaio 2015, la giovane thailandese Patidta Kusolsang partorisce come madre surrogata Carmen, concepita con l’ovulo di una connazionale e il seme del 41enne statunitense Gordon Lake. Quest’ultimo è legalmente coniugato negli Usa con il coetaneo spagnolo Manuel Santos: dopo il “matrimonio”, i due sono volati in Thailandia per farsi fabbricare un figlio su misura e a buon mercato.

La coppia gay preleva la bimba immediatamente dopo il parto e rimane per qualche giorno in Thailandia, in attesa della definizione delle pratiche di espatrio verso la Spagna dove risiedono, ma il giorno prima di ottenere il passaporto della piccola, i due uomini vengono informati del fatto che la madre surrogata ha presentato un reclamo alla polizia thailandese, chiedendo che le sia restituita la figlia.

Il padre biologico della bambina accusa Kusolsang di aver cambiato idea quando ha saputo che i suoi committenti erano una coppia gay: quando ci siamo incontrati per risolvere la controversia – ha dichiarato l’uomo – “ha detto che non eravamo una famiglia normale”. Ma Kusolsang nega che la sua marcia indietro sia dovuta al loro orientamento sessuale, specificando di essere solo preoccupata per la sicurezza della sua bambina. Alla CNN la donna confessa di aver cambiato idea diversi mesi prima quando ha cercato, senza riuscirvi, di ottenere maggiori informazioni sugli aspiranti genitori, e dichiara che restituirà alla coppia tutto il denaro ricevuto se le renderanno la bambina: “Non voglio i loro soldi. Nemmeno un singolo baht”. “Sento la sua mancanza ogni giorno – aggiunge la donna -, vedete com’è crudele oggi il mondo. E io davvero non so che intenzioni hanno con la mia bambina”.

I due uomini rispondono alla rivendicazione della madre surrogata con una richiesta di affidamento della piccola, depositata in Tribunale il 23 marzo 2015. Intanto, per poter seguire da vicino la battaglia legale e far fronte ai costi del protrarsi della loro permanenza a Bangkok, i due aprono una sottoscrizione online che frutta loro la somma di 36mila dollari.

Tutto fa pensare che la vicenda si concluda a favore della donna visto che la legge thailandese vieta l’accesso alla maternità surrogata alle coppie omosessuali, prevede che almeno un membro della coppia committente sia thailandese e che la donna che presta l’utero abbia con uno dei due richiedenti un rapporto di parentela; inoltre affida di diritto alla nascita i neonati alla madre, che ne ha la potestà esclusiva fino al riconoscimento di paternità.

Ebbene, nonostante in questa vicenda mancassero tutti i requisiti di legge, il 26 aprile 2016 il “Tribunale centrale dei Minori e della Famiglia” di Bangkok ha confermato l’affidamento di Carmen alla coppia omosessuale straniera, giustificandola con la necessità di non traumatizzare la bambina che da 15 mesi sta crescendo con i due uomini e non ha mai visto e conosciuto la donna che l’ha messa al mondo. In barba alla legge thailandese, la continuità di relazione instauratasi con il padre biologico e il suo compagno ha prevalso sui diritti della Kusolsang, che in senso stretto madre biologica non è[29], [30].

Nepal, il terremoto del 2015 svela il business delle madri conto terzi

19 - Nepal surrogacy

Il violento sisma che nel 2015 ha colpito il Nepal, ha gettato luce sull’ennesimo caso di business diretto verso gli Stati più poveri del mondo in cui è possibile trovare un utero in affitto “low cost”: qui bastano appena 6mila dollari per avere un figlio su richiesta.

Coppie omosessuali e single israeliani, che si trovavano in Nepal per prelevare i neonati commissionati, sono stati sorpresi dal terremoto, ma dalla devastazione e dal caos di quei giorni per costoro si è subito aperta una corsia preferenziale, con la messa a punto di voli speciali per il loro rimpatrio insieme ai preziosi “prodotti finiti” acquistati. Il fatto che solo per Israele siano partiti in quell’occasione decine di neonati è il sintomo di quanto vasto sia il business delle madri conto terzi in quelle povere terre. Per gli omosessuali israeliani il Nepal è sicuramente una meta ambita, visto che nel loro Paese l’utero in affitto è consentito solo alle coppie eterosessuali, ma l’acquisto di bambini a buon mercato attira in queste regioni committenti da tutto il mondo.

Un particolare merita nota: il volo verso la salvezza dal terremoto è stato previsto anche per le madri surrogate che non avevano ancora partorito, quelle cioè che non avevano ancora sfornato la “mercanzia” portando a termine il “lavoro” sancito nel contratto. Grazie ai permessi speciali rilasciati dal Governo israeliano, i committenti non ancora in possesso dei bambini hanno portato con sé in patria le “incubatrici”. Le madri surrogate sono state così sradicate dalla loro terra e dalla loro famiglia solo per portare a termine il compito: partorire e consegnare il figlio ai compratori. Cosa sia successo ai “contenitori” una volta svuotati non è difficile da immaginare: un bel viaggio di ritorno in Nepal con tanti saluti!

Cina: la tratta degli ovuli “giovani” e di “bella presenza”

20 - egg bar codeNel 2011 è stato scoperto a Pechino un traffico di ovuli femminili avente le medesime caratteristiche riscontrate nel mercato di ovociti statunitense: l’ingaggio di studentesse giovani e di bella presenza accompagnato alla completa omertà sugli effetti collaterali per la salute che l’ovodonazione comporta.

Il reclutamento delle studentesse avviene sia mediante l’affissione di volantini pubblicitari per strada, che attraverso annunci online sulle bacheche elettroniche delle università. Le agenzie cercano donatrici giovani e di bella presenza, con un’altezza che non sia inferiore ai 160 centimetri e la carnagione il più chiara possibile. Lo Shanghai Daily ha reso noto che più l’ovulo è giovane e “istruito”, più costa: normalmente un ovulo è venduto per 5mila yuan (circa 700 euro), ma il prezzo può arrivare fino a 30-40mila yuan (4-5mila euro) se la donatrice proviene da un’università prestigiosa come, per esempio, la Tsinghua University di Pechino. I clienti facoltosi possono arrivare a spendere anche fino a 80-100mila yuan (10-14mila euro) se la donatrice presenta tutte le caratteristiche migliori e desiderate. Tuttavia – scrive il quotidiano cinese Beijing News – le donatrici ricevono solo una piccola parte di quel denaro, perché la maggior parte di esso è intascato dalle agenzie. Sono, infatti, quest’ultime a gestire il business, mettendo in contatto le ragazze con le coppie sterili, avvalendosi dell’appoggio di medici compiacenti e di strutture (private) conniventi. Insomma, sono più di una le figure che si arricchiscono sulla pelle delle giovani donatrici cinesi che non vengono informate sui rischi e sui problemi per la salute che donare gli ovuli comporta. Alle “donatrici” viene taciuto il fatto che – afferma Xue Qing, medico del reparto maternità dell’Ospedale universitario di Pechino – la stimolazione ovarica cui sono sottoposte “può provocare danni come embolie polmonari, sanguinamenti e in alcuni casi risultare persino letale[31], [32], [33].

INDIA

21 - India surrogacy

Il Paese asiatico più ambìto per reperire ovuli e uteri a buon mercato è sicuramente l’India. Qui il business riproduttivo e lo sfruttamento delle “nuove schiave” è così radicato ed esteso da aver indotto diverse realtà a denunciarne gli aspetti iniqui, con articoli, documentari e testimonianze dirette. A tale vasta documentazione attingeremo per tracciare un quadro generale di questa nuova schiavitù, tutta al femminile, perpetrata in terra indiana nel nostro sedicente progredito terzo millennio.

Anche in questo caso è la povertà a spingere le donne indiane nel tritacarne del mercato riproduttivo. Secondo la dottoressa Nayana Patel, che dirige una clinica indiana per la fecondazione artificiale, il 75% delle donne che decidono di affittare il proprio utero ha il marito disoccupato[34]. La sociologa Amrita Pande, dell’Università di Cape Town, ha svolto un lavoro pluriennale e approfondito sul turismo riproduttivo internazionale espantosi in questo Paese, conducendo ricerche sul campo all’interno delle cliniche della fertilità e intervistando decine di madri surrogate e loro familiari. Le donne intervistate hanno confermato che il motivo principale della loro scelta è di natura economica: 34 su 42 avevano un reddito familiare pari o al di sotto della soglia di povertà. Alcune surrogate hanno rivelato che erano stati i loro mariti a convincerle o costringerle a intraprendere una gravidanza per altri. Per molte di queste donne indigenti, il compenso ricevuto – una miseria se paragonato a quanto intascato per esempio dalle surrogate americane – è stato pari a cinque volte il loro reddito annuo normalmente percepito[35].

In un articolo del 2010 sul “Journal of Women in Culture and Society”, Pande ha messo in luce alcune strategie inquietanti usate dalle cliniche e dai loro intermediari per reperire potenziali surrogate che non tentino, una volta ingaggiate, di negoziare compensi più alti con i committenti o di violare i termini del contratto. Un mediatore che lavorava in una clinica che pratica interruzioni di gravidanza contattava quelle donne che avevano dichiarato di abortire per motivi economici. Altri mediatori vanno invece ad assoldare coloro che in India sono considerate “cattive madri”, quelle madri cioè che non sono in grado di provvedere ai propri figli, soprattutto coloro che non riescono a far sposare le figlie per mancanza di denaro per la dote. Ma tra le più gettonate a diventare madri conto terzi vi sono altre due tipologie di donne che versano in stato di bisogno: le vedove e le mogli abbandonate dal marito.

A descrivere la natura dell’industria riproduttiva indiana, valutata in oltre 2 miliardi di dollari l’anno, raccontando gli inganni e gli abusi commessi nei confronti di donne povere e analfabete che per far fronte alla miseria mettono a rischio la vita e la salute, ci ha pensato inoltre il “Centre for Social Research” (CSR), una Ong con sede a Nuova Delhi che combatte anche contro l’aborto selettivo delle femmine e le sterilizzazioni forzate.

Dalla sua indagine il CSR ha ricavato un rapporto di 168 pagine, intitolato “Surrogate Motherhood – Ethical or Commercial”, in cui sono contenuti i risultati delle interviste a 100 madri surrogate e 50 coppie di committenti, realizzate a Mumbai e Nuova Delhi. Ne viene fuori uno scenario sconvolgente: le “portatrici” vivono in una condizione che, non è esagerato definire, di prigionia, costrette a sottostare a regole di vita inique, vincolati e oppressive, a cui si vanno ad aggiungere vari inganni e abusi che fanno leva sulla loro inconsapevolezza e vulnerabilità.

Si legge nel rapporto che i contratti stipulati tra le surrogate e gli aspiranti genitori sono normalmente firmati solo dopo il secondo trimestre di gravidanza, cioè quando essa è ormai consolidata. Nella fecondazione artificiale vi è infatti un’alta percentuale di aborti spontanei, così, se questo si verifica, la surrogata non riceve alcun compenso, né può pretenderlo visto che non è ancora stato perfezionato il contratto. Tuttavia, costei non potrebbe far valere i suoi diritti neanche quando successivamente il contratto viene stipulato e firmato, perché molto spesso non gliene viene data una copia, né viene informata su quello che vi è scritto.

Dalle 168 pagine della relazione emerge poi che molte di loro hanno dovuto affittare l’utero per poter mantenere fino a tre o quattro figli propri. Che il compenso che viene loro corrisposto rappresenta appena l’1-2% di quello incassato dalle cliniche, una frazione piccolissima dell’intera somma che, per di più, rischiano di non percepire affatto se la gravidanza si interrompe o se, per qualche motivo, la coppia richiedente non vuole più il bambino. Può infatti succedere che, nel frattempo, i committenti si separino e non abbiano più intenzione di allargare la famiglia, o che il bimbo si riveli “difettato” e quindi indesiderabile, o che semplicemente il suo sesso non corrisponda a quello indicato nel contratto. In questi casi, oltre a essere obbligata ad abortire, la prestatrice dell’utero rischia anche di venire pagata la metà o, come si diceva, di non essere pagata affatto.

Il rapporto poi rivela che in molti casi è proprio il marito a spingere la moglie ad affittare l’utero: il marito con problemi di alcool, o quello che sperpera, o il coniuge che ha bisogno di un capitale di partenza con cui iniziare un business, finché i soldi non finiscono e la moglie dovrà provvedere a nuove entrate mettendo di nuovo a disposizione il grembo.

Ma il sistema di costrizione che fagocita le surrogate indiane non finisce qui: per tutta la durata della gravidanza queste donne vengono spesso fatte vivere tutte insieme in ostelli che assomigliano ad allevamenti di bestiame, le cosiddette baby-factories (fabbriche di bambini). Non è raro, infatti, che il contratto preveda la temporanea separazione della “portatrice” dalla sua famiglia, per evitare, per esempio, che i rapporti sessuali con il marito veicolino eventuali malattie veneree che possano compromettere la “qualità” del bambino, o per assicurarsi che la gestante esegua tutti i comportamenti salutistici (alimentari, medici, comportamentali…) fissati dai committenti nel contratto al fine di ottenere un “prodotto” eccellente.

Alla condizione di asservimento a cui le “schiave” indiane devono sottostare si devono poi aggiungere altri generi di abusi. La direttrice del “Centre for Social Research”, Ranjana Kumari, ha detto che hanno “trovato una donna alla quale erano stati praticati 25 cicli di fecondazione in vitro”, mentre un’altra donna “è stata forzata ad aver impiantati in utero quattro embrioni in una sola volta” invece di uno, massimo due, per volta secondo quanto previsto dalle regole. Altre donne hanno invece superato il limite massimo di tre gravidanze conto terzi normalmente stabilito. “Il nostro studio – ha dichiarato Kumari al giornale australiano Sydney Heralddimostra che si sta creando una mafia di trafficanti con le donne trovate in località remote da agenti di reclutamento che hanno il solo fine di fare soldi, sfruttando la vulnerabilità dei poveri”. Per tutti questi motivi – conclude il rapporto del CSR – in India “la libertà della madre surrogata è un’illusione[36], [37].

“Questo non è lavoro, ma una costrizione

22 - India surrogacy

Dalle decine d’interviste realizzate alle surrogate indiane da parte di Amrita Pande, possiamo capire in quale stato d’animo costoro si trovino durante tutto il processo che le porta a sfornare figli altrui, e cosa realmente pensino di questa pratica a cui si sottopongono.

Scrive Pande che tutte le donne intervistate tranne una avevano “deciso di tenere nascosto il loro ricorso alla maternità surrogata, alla comunità, al villaggio e, molto spesso, ai loro stessi parenti”, questo perché – osserva Pande – in India la maternità surrogata è fortemente stigmatizzata, in parte perché “coinvolge i corpi delle donne povere”, poi perché “molti indiani equiparano la maternità surrogata alla prostituzione” in quanto pensano, sbagliando, che essa implichi un rapporto sessuale, e infine perché “rimanere incinte per soldi è associato alla commercializzazione immorale della maternità”. Le surrogate lasciano così le loro case e vanno a vivere in ostelli vicino alla clinica o nei piani superiori di quest’ultima a loro appositamente destinati, in stanze “di 8-10 letti singoli con uno spazio a malapena sufficiente per camminare”.

Nella clinica – continua Pande – le donne “non hanno niente da fare tutto il giorno, eccetto che camminare avanti e indietro sullo stesso pavimento (non sono autorizzare a salire le scale e devono aspettare le infermiere per usare l’ascensore), condividere i propri guai ed esperienze con le altre surrogate e aspettare la prossima iniezione”.

Benché le surrogate cerchino di autoassolversi moralmente da questa pratica fortemente stigmatizzata, affermando per esempio che affittare l’utero non è lo stesso che fare la prostituta, o che sono più immorali quelle donne che danno in adozione il proprio figlio biologico che quelle che incubano il figlio di qualcun altro, alla fine – nota Pande – loro stesse non considerano la maternità surrogata una forma legittima di lavoro, ma piuttosto una scelta obbligata dovuta a condizioni economiche drammatiche. Salma, 25enne casalinga, afferma: “Questo non è un lavoro, ma una costrizione… Questo lavoro non è etico, è solo qualcosa che dobbiamo fare per sopravvivere”.

Ma, scrive Pande, molto lavoro psicologico viene fatto anche dal personale delle cliniche, affinché le madri surrogate siano disciplinate e diano via il bambino subito dopo il parto senza fare storie. Il medico di una clinica spiega: “Ci assicuriamo che le surrogate sappiano di non avere alcuna relazione genetica con il bambino, che loro sono solo un grembo”. Allo stesso tempo, sia lo staff medico che le matrone si sforzano di minimizzare l’aspetto commerciale della pratica, elogiando le surrogate per il loro altruismo o facendo loro notare quanto siano fortunate per il fatto di aver ricevuto un dono da Dio sotto forma di denaro per “l’affitto dell’utero”.

Amit Sengupta, socio coordinatore del People’s Health Movement, ha sottolineato che la cosa ironica è che “mentre donne da tutto il mondo vengono in India per approfittare del boom del mercato della riproduzione assistita, a un numero molto elevato di donne indiane viene negata l’assistenza sanitaria di base. Per il sistema sanitario pubblico del Paese le donne sono veramente invisibili: gli ultimi dati disponibili dicono che solo il 17,3% delle donne ha avuto contatti con un operatore sanitario[38].

Sushma Pandey e Yuma Sherpa: morire per ovodonazione

23 - Sushma PandeySushma Pandey, 17 anni, nubile, di Mumbay ha iniziato a donare gli ovuli quando aveva circa 15 anni, è morta il 10 agosto 2010 al Rotunda Center for Human Reproduction, due giorni dopo la sua terza donazione. Prima di morire aveva lamentato forti dolori addominali. L’autopsia ha stabilito che aveva “un’abrasione, quattro contusioni e un coagulo di sangue nella testa, più sei segni di iniezioni” e una “congestione pelvica”. Come probabile causa di morte è stato indicato uno shock da lesioni multiple.

La leader femminista Kathleen Sloan, difenditrice dei diritti umani e collaboratrice del “Center For Bioetihics and Culture” ha così commentato la morte della giovane Pandey:

La lista dei noti pericoli per la salute a carico delle donne che donano gli ovuli è lunga. Essa include la sindrome da iperstimolazione ovarica causata dalla somministrazione di ormoni sintetici e farmaci per la fertilità come il Lupron, gli estrogeni (collegati al cancro al seno e all’utero, infarto, ictus e coaguli di sangue) e il progesterone; torsione ovarica; e malattie renali – e questi sono solo i rischi a breve termine! Quante altre donne devono morire prima che l’India e gli Stati Uniti – i due Paesi in cui l’industria della fertilità fuori controllo mette in pericolo e sfrutta in maniera indisturbata le donne – prenderanno provvedimenti? Nessun Paese può affermare di rispettare i diritti umani delle donne e contemporaneamente trasformarle in materie prime che comportano un pericolo per la vita”.

L’attivista Jennifer Lahl ha aggiunto: “Quello che è successo a Sushma Pandey succede ogni giorno a tante donne, in tutto il mondo. L’industria della fertilità è al corrente della gravità dei rischi per la salute, ma si oppone a qualsiasi controllo, studi a lungo termine e regolamentazione, semplicemente perché ciò comprometterà i suoi profitti[39].

Yuma Sherpa, 26 anni, sposata, madre di una bambina di tre anni, è morta il 29 gennaio 2014 durante la sua prima donazione, subito dopo l’operazione di prelievo degli ovociti effettuata nella clinica per la fertilità “New Life India” di Lajpat Nagar (Delhi). La direttrice della clinica ha subito escluso qualsiasi irregolarità e ha dichiarato che la donna “ha perso improvvisamente conoscenza quando si trovava nella sala post-operatoria”, specificando che, quando il personale medico ha constatato che non rispondeva alle manovre di rianimazione, è stata immediatamente trasferita con un’ambulanza al “Green Park hospital”. Ma – scrive “The Indian Express” -, quando la donna è arrivata, l’ospedale non ha potuto far altro che constatarne la morte.

Secondo l’Indian Express, dai primi esami è emerso che la donna aveva un’emorragia interna e che le sue ovaie erano “severamente ipertrofiche” cioè accresciute oltre misura, un fatto che – come sappiamo – si manifesta quando si verifica la sindrome da iperstimolazione ovarica, potenzialmente letale. Ma le fonti mediche non escludono anche una possibile reazione allergica all’anestesia: “La procedura è stata eseguita in anestesia totale, diversi pazienti hanno reazioni allergiche all’anestesia. Lo stabiliranno i test eseguiti sui campioni delle viscere”. Insomma, niente di inspiegabile, quale che sia il motivo (sindrome da iperstimolazione ovarica, emorragia per rottura di un’arteria durante il prelievo degli ovuli, reazione allergica all’anestesia), Yuma è morta a causa di uno dei tanti pericoli associati all’ovodonazione, arcinoti in ambito scientifico, ma tenuti ben nascosti alle “benefattrici”, pena il crollo delle donazioni.

Il marito, che era al corrente della decisione della moglie, ha presentato una denuncia alla polizia e sta aspettando un risarcimento che molto probabilmente non arriverà mai: il contratto non prevedeva alcuna forma di assicurazione o rimborso in caso di eventi avversi e dimostrare che la sua morte sia stata provocata da negligenze da parte della clinica è praticamente impossibile[40].

Premila Vaghela: morire per una gravidanza conto terzi

Anche Premila Vaghela, 30 anni, sposata, con due figli, non ce l’ha fatta: è morta a maggio 2012, durante l’ottavo mese della sua gravidanza su commissione.

La donna si era recata per una visita di routine nella clinica della fertilità che l’aveva ingaggiata, il “Women Hospital Pulse” di Ahmedabad, nello stato del Gujarat, dove si concentra la maggior parte delle cliniche indiane, ma durante il controllo ha iniziato ad avere le convulsioni ed è collassata. Tuttavia, prima di morire, Premila è riuscita a portare a termine il “lavoro”: con un taglio cesareo le hanno estratto la “mercanzia” dal grembo e poi l’hanno mandata a morire in un altro ospedale, lo “Sterling Hospital”. I rapporti ufficiali di quest’ultimo riportano lo stato disperato in cui costei è arrivata: vittima di un grave collasso cardiaco che ha reso vani i tentativi di rianimarla. Meglio è andata al nascituro di 1,75 Kg, dopo un periodo in incubatrice e stato consegnato alla donna americana che l’aveva commissionato.

Il vedovo e i due figli della donna non riceveranno alcun risarcimento: il suo contratto – come quello di tutte le altre surrogate indiane – contiene delle clausole che, in caso di problemi, sollevano clinica e committenti da ogni responsabilità. Sono esclusi da tali responsabilità gli atti di negligenza, ma nessuno in questo caso ha potuto provarli: la sua morte è stata definita una tragica ma inevitabile “fatalità”, la polizia ha registrato il decesso come “morte accidentale” e il “Times of India” ha scritto che la morte è stata provocata da “complicazioni inspiegabili”.

In realtà i problemi di salute associati all’affitto dell’utero sono noti e tutt’altro che inspiegabili, ben conosciuti anche dal personale medico indiano. Non è un caso, infatti, se Himanshu Bavishi, presidente della “Società indiana per la riproduzione assistita” (Instar), ha detto che bisognerebbe prevedere un rimborso per le famiglie delle madri surrogate che muoiono per complicazioni legate alla maternità, e indennizzi per quelle donne che, a seguito dell’affitto dell’utero, si ritrovano a dover subire un’isterectomia o l’asportazione delle tube. Evidentemente la morte e le complicanze di salute associati alla maternità surrogata non sono così rari e misteriosi, se in India stanno valutando di regolamentare i risarcimenti per i danni subiti[41].

Scrive la giornalista Nicoletta Tiliacos: “L’industria della maternità surrogata mette sempre più in conto la morte e la menomazione delle nuove schiave, nonostante la facciata di efficienza e di modernità. Si muore e si rimane menomate per iperstimolazione ma anche per le infezioni, visto che ormai è pratica comune, per non mettere a repentaglio il ‘prodotto’, procedere al taglio cesareo anche quando non serve. La madre portatrice rimane il pezzo della catena di montaggio che può anche rompersi o deteriorarsi, una volta che la merce-bambino sia stata consegnata senza intoppi[42].

Manisha, Bina e Disha: “per le persone che ci ingaggiano siamo solo uteri”

24 - Baby MakersQuelle di Manisha, Bina e Disha sono solo alcune delle numerose storie raccontate dalla giornalista e saggista Gita Aravamudan nel suo “Baby Makers. The story of indian surrogacy” (“Fabbricanti di bambini. La storia della maternità surrogata indiana”, Harper Collins Publishers, India, 2014), un libro inchiesta sull’utero in affitto che riporta fatti reali, interviste e vari contenziosi giuridici. Nel libro le protagoniste emergono con tutti i loro sentimenti, dall’orgoglio di portare a casa i soldi per far studiare i figli, alla rassegnazione per la propria condizione, al dramma per l’abbandono dei bimbi appena nati.

Manisha vive a Kathmandu, in Nepal, ha bisogno di soldi: il marito è disoccupato e bisogna provvedere anche ai loro due bambini piccoli. La sorella Bina, dopo averle svelato di aver risolto i suoi problemi economici vendendo prima gli ovociti e offrendosi poi come madre surrogata, la convince ad andare con lei a Mumbai, in India, per fare la stessa cosa. Dal momento che Manisha non capisce la lingua, fa contrattare la vendita dei suoi ovociti alla sorella che però, per racimolare più soldi, si spinge troppo oltre: le stimolazioni pesanti e ravvicinate (ben 25 ovuli, nell’ultima), a cui viene sottoposta, le provocano la pericolosissima sindrome da iperstimolazione ovarica. Manisha sta malissimo e ha bisogno di cure mediche, ma queste sono a pagamento. Per far fronte alle cure della sorella, Bina si vede costretta a offrirsi nuovamente come madre surrogata. Questa volta i committenti sono due gay spagnoli: il bambino che ha in pancia è stato concepito con gli ovociti della sorella e lo sperma di uno dei due.

Disha ha in grembo due gemelli per conto di una coppia coreana che spera di avere figli maschi. All’inizio gli embrioni attecchiti in utero erano tre, ma uno lo ha eliminato il medico. I due rimasti sono poi risultati entrambi femmine: i committenti rimarranno delusi e Disha non riceverà alcun compenso extra. Scrive Aravamudan:

Disha non voleva piangere, ma sentiva le lacrime scendere lungo le guance. Aveva sempre saputo, fin dall’inizio, che i bambini non erano suoi. Lei non era legata a loro in alcun modo. Eppure… li aveva portati per così tanti mesi. Aveva sofferto le nausee al mattino, il dolore, la fatica. Era stata così attenta a tenerli protetti. Che diritto avevano queste persone di essere infelici perché i nati erano femmine? Avrebbe voluto inseguirli e portarsele via con sé”.

“Nessuno sa cosa passiamo. Quell’inutile marito che parla solo di soldi, soldi, soldi. E quei genitori che comprano i nostri servizi? Non sanno neanche la metà di quel che ci capita. Non hanno mai dovuto sopportare tutta quella roba terribile. Le nausee, il dolore, le doglie. Non sanno come ci si sente con quei piccoli piedi calciare dentro lo stomaco. Io canticchiavo loro le ninnenanne. Ma lo sanno, o gliene importa qualcosa? Queste persone che vengono e ci ingaggiano non vogliono mai guardarci in faccia o sapere i nostri nomi. Per loro siamo solo uteri”[43].

Phulmani e la tratta delle madri “in affitto”

La vicenda di Phulmani (nome di fantasia) è stata portata alla luce dall’Organizzazione “Shakti Vahini”, una Ong che nella capitale indiana ha finora salvato dallo sfruttamento un centinaio di ragazze provenienti, come Phulmani, dalle aree rurali dello Jharkhand. Terre che, per la loro povertà e arretratezza, sono diventate bacini di approvvigionamento di giovani donne da parte di un racket ben organizzato, espantosi grazie all’indifferenza e alla corruzione.

Secondo le stime delle associazioni che si occupano di diritti umani, ogni anno partono da queste zone 10mila giovani – in buona parte tribali o aborigene – che vengono utilizzate come serve nelle case dei cittadini benestanti della capitale o mandate a prostituirsi nei suoi bordelli. Ma, negli ultimi anni, grazie all’espansione del mercato riproduttivo, a queste “mansioni” classiche se n’è aggiunta un’altra, quella della madre surrogata: hanno iniziato a trapelare, con sempre maggior frequenza, notizie di ragazze ridotte in schiavitù per farne madri surrogate al servizio di indiani facoltosi o di coppie occidentali.

Phulmani è una di loro. Aveva 13 anni quando un procacciatore del racket l’ha attirata nella capitale con la promessa di un lavoro come domestica, ma giusto un anno dopo le è stato assegnato un altro “mestiere”: incubare figli altrui. Dopo sei bambini partoriti per conto di coppie paganti, che le sarebbero stati tolti dopo un periodo di allattamento al seno di sei mesi, la donna è stata rimandata a casa. Oggi ha 32 anni, ma quel periodo terribile della sua vita in cui è stata ridotta in schiavitù, trasformata in una macchina sforna-bambini, non li dimenticherà tanto facilmente: “Mi hanno trattata come una macchina per fare soldi – racconta al quotidiano indiano Hindustan Times, senza riuscire a guardare negli occhi il reporter -. Non hanno mai avuto interesse per quello che volevo, tutto quello che interessava loro era che facessi nascere i bambini”.     L’agenzia governativa “Child Welfare Committee” di Delhi, che ha iniziato ad indagare su questa tratta, quando le voci della sua esistenza hanno iniziato a trapelare, ha portato alla luce delle storie sconvolgenti. Tra tutte spicca quella di una giovane del villaggio di Lotwadugdugi, attirata nella capitale indiana all’età di otto anni e rimandata a casa solo quando ne aveva 29, dopo aver dato alla luce ben 10 bambini come madre surrogata[44].

Affittare l’utero per far fronte alle esigenze primarie della vita (cure mediche, casa, istruzione dei figli, dote…)

25 - House of Surrogate

A luglio 2015, un articolo pubblicato su Indiatoday, ha riportato le motivazioni per le quali tre donne indiane avevano deciso di affittare l’utero: si evince, per l’ennesima volta, che alla radice della decisione vi è sempre una condizione economica disagiata che non consente di far fronte alle esigenze essenziali della propria famiglia.

Geeta ha detto di averlo fatto perché suo marito è malato e necessita di cure mediche costose che il sistema sanitario non fornisce gratuitamente. La 23enne Neelu ha bisogno di una casa per la sua famiglia e deve provvedere alle spese per l’istruzione dei figli: “Per anni mio marito e io abbiamo tentato, ma non ci siamo riusciti perché costa troppo. Abbiamo due bambini, vogliamo che abbiano una buona educazione e le spese scolastiche sono altissime”. Infine Manju deve scongiurare il rischio di essere bollata come una “cattiva madre”: ha due figlie femmine, due gemelle di 10 anni, e per poterle maritare deve iniziare a mettere da parte i soldi per la dote. Quest’ultima è un onere troppo gravoso per moltissime famiglie, nonché causa principale dell’aborto, o dell’uccisione alla nascita, di milioni di bambine indiane[45].

Altre testimonianze sono state riportate dal “The Times of India” in un articolo del 19 ottobre 2013. Il quotidiano ha documentato come in India la pratica della maternità surrogata stia sempre più diventando una questione di “impresa di famiglia”, con le figlie di nuclei familiari indigenti che scelgono di seguire le orme delle madri, accettando di affittare l’utero per far fronte ai bisogni primari. Il Times of India ha raccontato la storia di Rekha e Renuka, madre e figlia: la prima ha affittato l’utero a una coppia australiana per comprare la casa e un risciò al marito, poi ha invitato la figlia a fare altrettanto. I soldi di Renuka sono stati investiti per garantire un futuro a lei e ai suoi eredi. L’atra vicenda raccontata dal giornale indiano è quella della 40enne Sharda e di sua figlia Sunita. Con i soldi guadagnati affittando l’utero, Sharda è riuscita a far sposare le sue tre figlie, e quando una di esse, Sunita, si è trovata in difficoltà economiche, le ha consigliato di fare altrettanto. Con l’incubazione di un figlio altrui, Sunita riuscirà a comprare una casa e ad aiutare il marito che guadagna poco[46].

Ulteriori testimonianze sono state trasmesse nel 2013 dall’emittente britannica “BBC Four”, nel documentario realizzato nel Gujarat, dove la dottoressa Nayna Patel gestisce l’“House of Surrogate” (“Casa delle madri surrogate”), un lager indiano di madri in affitto, che in dieci anni ha prodotto più di 500 bambini per committenti di oltre 30 Paesi diversi. Nel filmato viene inquadrata Papiya, che ha in grembo due gemelli per una coppia americana: “Comprerò una casa”, dice. La telecamera scorre sui volti tristi e rassegnati delle donne incinte recluse nella cittadella, poi si ferma su Edan che sta cullando un bambino bianco partorito per conto di una donna canadese di 54 anni. I documenti per portare il bambino in patria non sono ancora pronti, così ha pensato bene di dare altro denaro a Edan perché lo allatti due volte al giorno. Per Edan questo è il terzo bambino partorito per altri ed è la prima volta che ha la possibilità di stare con lui dopo la nascita: i due avuti in precedenza le sono stati tolti subito dopo il parto. “Solo noi conosciamo il nostro dolore – rivela Edan-. Tutto questo non servirà a me, ma almeno servirà a rendere migliore la vita dei miei figli. Vero?[47], [48].

Sharmila Mackwan ha 31 anni, due figli di 9 e 12 anni ed è vedova. La sua situazione economica è precipitata dopo la morte del marito alcolista: “Mio marito beveva – racconta – e si è ucciso poco prima che io partorissi il nostro secondo figlio. La sua famiglia mi ha buttata fuori di casa, e non avevo nessun altro a cui rivolgermi”. Per strada, sola e con due figli a cui provvedere, l’unica possibilità per guadagnare qualcosa e far fronte in tempi brevi a una condizione di vita drammatica è offrirsi come madre surrogata. Il contratto prevede un compenso di 6mila dollari e che, per tutta la durata della gravidanza, viva segregata assieme ad altre madri surrogate in uno dei tanti ostelli indiani predisposti per tale scopo. Poiché non ha parenti o amici su cui fare affidamento, la donna è stata costretta a separarsi dai suoi figli, lasciandoli per nove mesi in un orfanotrofio. Ormai al quarto mese della sua gravidanza gemellare conto terzi, Sharmila è rassegnata e preoccupata: “È la prima volta che aspetto due gemelli. Ma cos’altro posso fare? Spero solo che Dio si prenda cura di me[49].

 

Per concludere, ricordiamoci che ogni volta che in ambito procreativo sentiamo parlare di “nuovi diritti”, dobbiamo in realtà intendere “nuove schiave”. Giustizia significa dare a ciascuno il suo, ma qui, mentre da un lato a qualcuno si dà, dall’altro lato a ben più di una persona si toglie. Il riconoscimento del cosiddetto “nuovo diritto” al figlio per chi è impossibilitato ad averne (coppie sterili, anziane, gay e single), comporta la negazione del diritto alla salute delle donne e della loro dignità, oltre che della dignità del bambino, trasformato in un oggetto di compravendita, e del suo diritto ad avere una mamma e un papà.

Ne consegue che questi “nuovi diritti” sono profondamente ingiusti. E siccome sono profondamente ingiusti, vanno fermati.

Note:

[1] Elena Molinari, “Kathy Sloan: ‘Utero in affitto, madri riproduttrici specie inferiore?’”, Avvenire, 19 novembre 2015.

[2] Alessia Guerrieri, “Ho venduto ovociti e ho rischiato la vita”, Avvenire, 10 febbraio 2016.

[3] A. Guerrieri, art. cit.

[4] Antonio Crispino – Monica Ricci Sargentini, “Gli incontri segreti (a Roma) per avere un figlio tramite madre surrogata (in America), www.corriere.it, 21 luglio 2016.

[5] Nicoletta Tiliacos, “Mercato riproduttivo globale e violazione dei diritti umani. Quelli veri”, Il Foglio, 23 settembre 2014.

[6] Viviana Daloiso, “Così si sfrutta una madre surrogata”, Avvenire, 6 marzo 2016.

[7] Ilaria Nava, “Provetta libera, il diritto non ci sta”, Avvenire, 3 maggio 2012.

[8] Luciano Casolari, “Utero in affitto, i problemi psichici per il bambino e la madre surrogata”, www.ilfattoquotidiano.it, 16 febbraio 2016.

[9] Viviana Daloiso, “Eterologa, donatrici o schiave?”, Avvenire, 11 aprile 2014.

[10] Sarah Jean Alexander, “I sold my eggs for the money”, www.lennyletter.com, 28 ottobre 2015.

[11] Costanza Signorelli, “Io, madre comprata per 8mila dollari”, La nuova Bussola Quotidiana (www.lanuovabq.it), 3 febbraio 2016.

[12] Paolo Bracalini, “Noi mamme surrogate sfruttate e senza diritti”, www.ilgiornale.it, 2 marzo 2016.

[13] Francesca Romana Poleggi, “Utero in affitto – Elisa Gomez non può più testimoniare”, www.notizieprovita.it, 13 ottobre 2016.

[14] Benedetta Frigerio, “Tanya, la madre surrogata pentita. E Jessica, concepita con l’utero in affitto”, www.tempi.it, 24 agosto 2014.

[15] Ashley Collman, “I felt like someone that sold my child”, www.dailymail.co.uk, 21 agosto 2014.

[16] Valentina Fizzotti, “Di maternità surrogata si può morire”, Avvenire, 15 ottobre 2015.

[17] Lucy Waterlow, “Implanted with HIV-infected sperm, not being given enough food and surrogate mothers left in the lurch: Inside the dark world of Mexico’s booming baby business, www.dailymail.co.uk, 13 novembre 2015.

[18] Antony Barnett – Helena Smith, “Cruel cost of the human egg trade”, The Observer, 30 aprile 2006, www.guardian.co.uk.

[19] Giovanni Bensi, “Utero in affitto, il traffico russo”, Avvenire, 7 agosto 2013.

[20] Anna Bono, “Bimbi partoriti a contratto: il mercato delle madri indiane”, La nuova Bussola Quotidiana, 3 febbraio 2016, www.lanuovabq.it.

[21] Monica Ricci Sargentini, “Madre surrogata vince la causa: ‘Toglierle il neonato sarebbe nocivo’”, www.corriere.it, 7 luglio 2016.

[22] Andrea Galli – Simona Ravizza, “Nella clinica sotto accusa il giallo degli ovuli in valigia e la denuncia di 20 donatrici”, Corriere della Sera, 15 maggio 2016.

[23] Andrea Galli – Simona Ravizza, “Non solo donne straniere ma anche italiane: le 23 donatrici di Antinori”, Corriere della Sera, 18 maggio 2016.

[24] Tiziana De Giorgio, “Così Antinori mi pagò adesso vi racconto come avviene il mercato degli ovuli”, La Repubblica, 15 maggio 2016.

[25] Andrea Galli – Simona Ravizza, “Duemila euro per donare gli ovuli. Ho avuto paura e sono scappata”, Corriere della Sera, 20 maggio 2016.

[26] Andrea Galli – Simona Ravizza, “E Antinori minacciò: ‘Ho potere e denaro, ti faccio uccidere’”, Corriere della Sera, 17 maggio 2016.

[27] Tiziana De Giorgio – Franco Vanni, “Antinori ha agito nell’indifferenza della dignità della donna”, La Repubblica, 17 maggio 2016.

[28] Weena Kowitwanij, “Traffico di madri vietnamite ‘in affitto’, fermata organizzazione thai”, www.asianews.it, 2 marzo 2011.

[29] Tommaso Scandroglio, “Un caso aberrante di ‘maternità surrogata’ in Thailandia”, www.corrispondenzaromana.it, 11 maggio 2016.

[30] Pamela Boykoff – Kocha Olarn, “Gay couple in legal fight with Thai surrogate over baby”, CNN, 22 luglio 2015.

[31] Stefano Vecchia, “La Cina ‘scopre’ il supermarket degli ovuli”, Avvenire, 22 gennaio 2015.

[32] “Cina, tratta degli ovuli”, Lettera 43 Quotidiano online indipendente, 15 novembre 2011.

[33] Yang Wanly, “Illicit fertility clinics target top students”, China Daily, 7 gennaio 2015.

[34] Lorenzo Schoepflin, “Madri surrogate, l’India pensa al salario minimo”, Avvenire, 31 ottobre 2013.

[35] Gina Maranto, “They are just the wombs”, www.biopoliticaltimes.org, 6 dicembre 2010.

[36] Nicoletta Tiliacos, “Affittare un utero in India”, Il foglio, 27 luglio 2013.

[37] Diego Molinari, “Donne indiane sacrificate per dare figli a coppie gay”, La nuova Bussola Quotidiana, 13 gennaio 2013, www.lanuovabq.it.

[38] G. Maranto, art. cit.

[39] Jennifer Lahl, “Worldwide Eggsploitation: egg donation and exploitation of young women results in death”, www.newfeminism.co, 13 luglio 2012.

[40] “Egg donor’s death: internal bleeding, ovaries severely enlarged, says report”, The Indian Express, 9 febbraio 2014.

[41] Lorenzo Schoepflin, “Madri surrogate, l’India pensa al salario minimo”, Avvenire, 31 ottobre 2013.

[42] Nicoletta Tiliacos, “Una liberal nell’India degli uteri in affitto, alla scoperta della schiavitù”, Il Foglio, 19 marzo 2014.

[43] Assuntina Morresi, “India, le madri rassegnate che partoriscono per altri”, Avvenire, 21 marzo 2015.

[44] Stefano Vecchia, “India, resa schiava a 13 anni per fare la madre ‘in affitto’”, Avvenire, 28 febbraio 2015.

[45] A. Bono, art. cit.

[46] L. Schoepflin, art. cit.

[47] Valentina Fizzotti, “Nel lager indiano delle madri in affitto”, Avvenire, 3 ottobre 2013.

[48] Patrizia Albanese, “La cittadella degli uteri in affitto”, Il Secolo XIX, 7 ottobre 2013.

[49] Giulia Mazza, “Viaggio in India nella mecca dell’utero in affitto, dove le madri sono ‘fabbriche di bambini’”, Tempi, 27 settembre 2016.

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